Alberto Martelli
(NPG 2017-03-38)
«La vita cristiana prende corpo in una pratica che accade in un mondo già abitato da altre pratiche umane. Si intesse in una trama di gesti, atteggiamenti, comportamenti, istituzioni, che si disegna su un ordito di fatti, parole, situazioni che già popolano il mondo degli uomini. Esprime un modo di vivere accanto ad altri. Si mescola in mezzo ad altre maniere di vivere, di intendere la vita e di realizzarne le potenzialità. Si confonde con le diverse raffigurazioni della vita, fino ad allinearsi come una tra tante. La pratica della fede non accade nel vuoto, ma si sviluppa in un mondo che ha già suoi punti di riferimento e sue modalità di organizzare l’esistenza». [1]
Questa affermazione risulterà pure scontata ad una prima lettura, ma dà esattamente il senso della novità del dossier che abbiamo di fronte.
Abituati ad una pratica della fede in un mondo occidentale da secoli ormai cristianizzato, di fatto ci siamo spesso illusi che essere cittadini di questo secolo e essere cristiani tutto sommato fosse semplicemente sovrapponibile. L’emergere all’orizzonte della pastorale della Chiesa italiana di problematiche quali l’integrazione sociale dei non italiani e dei non cristiani, specialmente giovani, negli ambienti prettamente ecclesiali, quali l’oratorio, ci riporta invece alla luce come il cristianesimo non sia l’unico modo di vivere da uomini e di impostare la società, e come esso debba confrontarsi e incarnarsi nella società in cui vive, a volte con sforzo e con impegno del tutto nuovi.
Prende così tutto il suo senso anche sociologico e culturale, il fatto che la pastorale ecclesiale assuma l’evento dell’incarnazione quale punto di riferimento per la sua comprensione profonda. La concretizzazione della fede da parte di una comunità cristiana si incarna realmente nella vita del mondo e ne diventa lievito dall’interno, senza sfuggire alla fatica del confronto e all’onere della proposta di una umanizzazione realmente evangelica delle persone, dei rapporti e delle culture.
In questo modo diventa chiaro come non solo la Chiesa evolve la propria organizzazione interna in un processo di comprensione sempre più profonda della Rivelazione, valorizzando così appieno la realtà cattolica della Tradizione come una delle fonti della fede, ma anche che questa evoluzione si intreccia inesorabilmente con lo sviluppo della società umana, riproponendo il tema sempre attuale e sempre sfidante della presenza della Verità tutta intera nei frammenti della storia.
L'esperienza "pastorale" dell'oratorio
Particolarmente interessante da questo punto di vista è proprio l’esperienza dell’oratorio. Definito ormai tradizionalmente, secondo l’espressione usata anche da Giovanni Paolo II, “ponte tra Chiesa e strada”, [2] esso è quasi per eccellenza nella pastorale giovanile, il luogo in cui società civile e concretizzazione della fede della comunità si intrecciano e si sovrappongono fino a far nascere nuove esperienze di fede.
Siamo infatti convinti che l’oratorio non sia semplicemente l’insieme delle attività per i bambini e ragazzi della parrocchia, ma esprima un modo originale di vivere la fede e di proporla da parte di una comunità. «L’oratorio è l’espressione della comunità ecclesiale che, sospinta dal Vangelo, si prende cura, per tutto l’arco dell’età evolutiva, dell’educazione delle giovani generazioni. In esse vediamo crescere, con il sostegno di adulti testimoni del messaggio evangelico, i protagonisti e costruttori della società del domani». [3] Ancora di più, noi intendiamo dire che l’oratorio è uno specifico modo di vivere la fede, quindi uno specifico ambiente pastorale, che ha come caratteristica fondamentale quella di avere come punto di riferimento e protagonista i giovani.
Per utilizzare una parafrasi evangelica, oratorio è l’espressione del mettere i giovani nel mezzo, come Gesù fece con l’uomo dalla mano inaridita nel vangelo di Marco (Mc 3,1-6) costringendo in questo modo tutta la comunità credente presente in quel luogo e in quel pezzo di storia a guardare alla Rivelazione con altri occhi e altre prospettive. Ecco perché l’oratorio non si ferma ai confini della parrocchia, ma diventa ponte con l’esterno, luogo di alleanza e di dialogo con tutti.
Quando la Chiesa mette al centro i giovani, guardandoli con lo sguardo di Gesù e valorizzando le caratteristiche proprie di questa particolare età della vita, si impegna ad accoglierli nei loro interessi, nella loro autenticità, con le loro ricchezze e limiti, storie personali, desideri, sogni e speranze, carattere e personalità, con il loro cammino di fede che può essere lineare e gioioso, ma anche frastagliato e complesso, pieno di slanci ma anche di lentezze; e allo stesso tempo si trova anche a dover inventare con loro e non solamente per loro, un modo proprio di vivere la fede in comunità, un modo che negli ultimi secoli, specialmente nella Chiesa italiana, si è andato identificando con l’oratorio, come luogo fisico, ambiente relazionale e stile di fede.
L’oratorio sembra essere ancora, dopo tanto tempo dalla sua “invenzione”, una realtà viva e in continuo cambiamento. Ma questo non può essere semplicemente un dato di fatto o, ancor peggio, un problema. La mobilità progettuale non può non diventare oggetto specifico di indagine teologico pastorale. Non si tratta infatti di eliminare tale volubilità all’insegna della ricerca di una formula rigida e risolutiva, ma di valorizzare il cambiamento senza subire le conseguenze di una carenza di identità e senza lasciarsi avvincere dalla voglia di rigidità e chiarezza.
Così la ricerca che questo dossier propone, valorizza e mette in luce come l’inserimento nel progetto pastorale dell’oratorio della priorità dell’integrazione multiculturale e multireligiosa, sia non uno snaturamento dello stesso, ma la sua più moderna evoluzione a confronto con la realtà della società e della Chiesa di oggi.
E l’oratorio è in grado di fare tutto ciò, cioè di cambiare e di integrare nuove esperienze e nuovi obiettivi, perché ha tra le sue caratteristiche di fondo quella così banale a prima vista eppure così importante che è la sua popolarità, ossia la sua capacità di plasmare e di essere plasmato dal popolo, la sua capacità di dialogo con la cultura di una comunità viva e vivente.
Nella sua intrinseca vocazione ad essere strumento sociale, l’oratorio esprime appieno la propria identità di ambiente pastorale, ossia di espressione giovanile e storica della fede a servizio dell’unico obiettivo possibile per la comunità cristiana: l’evangelizzazione.
Fedeltà all'identità evangelizzatrice per essere apertura a tutti
Osiamo addirittura dire che proprio la fedeltà all’identità esplicitamente evangelizzatrice dell’oratorio permette allo stesso di essere apertura e accoglienza di tutti e culla della multiculturalità e del dialogo interreligioso.
«L’oratorio, in quanto espressione educativa della comunità ecclesiale, condivide con essa il desiderio e l’urgenza della missione evangelizzatrice, che “consiste nel realizzare l’annuncio e la trasmissione del Vangelo” e insieme “annunciare il Signore Gesù con parole e azioni, cioè farsi strumento della sua presenza e azione nel mondo” (Congregazione per la dottrina della fede, Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione, 3 dicembre 2007, n. 2.). Nel compiere tale missione l’oratorio ha un suo modo specifico che si caratterizza nello stile e nel metodo, assumendo forme e attività adeguate alle esigenze e ai cammini sia del singolo che dei gruppi: esso accompagna nella crescita umana e spirituale inserendosi nel ritmo quotidiano delle persone e della comunità civile e proponendo iniziative, percorsi, esperienze, relazioni e contenuti che, in modo esplicito o implicito, vogliono favorire l’incontro con il Signore Gesù e con il suo dono di vita buona». [4]
Ecco perché l’oratorio proprio stando fermo nella propria identità pastorale, può essere contemporaneamente luogo di apertura, in quanto il compito di un vero progetto pastorale oratoriano, è quello di mostrare come la fede sia vera origine di un’esperienza integrale dell’umano. Se assumiamo l’idea che evangelizzare sia la proposta di vivere la vita umana come l’ha vissuta Gesù Cristo, allora l’oratorio è l’espressione della vita umana dal punto di vista del protagonismo giovanile, a disposizione di tutti, perché Cristo è un diritto di tutti i giovani del mondo.
La fede non si ferma mai, così come la vita. Per questo l’oratorio è quasi naturalmente e per definizione una frontiera missionaria della comunità ecclesiale. La fede si sporge più in là e diventa annuncio, diventa accoglienza di altri, coinvolgimento, interesse per chi ancora non c’è, voglia di testimonianza che si dà da fare per il bene di tutti, anche se non sono “dei nostri”.
Di fatto, specie in alcune grandi città, ma ormai anche in centri più piccoli, l’oratorio si è allargato fino a diventare luogo di accoglienza di tutti, dove la comunità si è aperta ad ospitare molti che della comunità ecclesiale ancora non fanno parte. Esso è il luogo in cui l’intera società civile costruisce un proprio futuro, scoprendo un nuovo modo di fare intercultura, di mescolare le esperienze, di creare nuovi regimi democratici.
L’oratorio dimostra, con la sua vivacità giovanile in modo particolare, ma anche col coinvolgimento dell’intera comunità intergenerazionale, che una chiara identità ecclesiale e carismatica sa coniugare la chiarezza di sé con l’accoglienza di tutti, che verità e accoglienza del prossimo non sono in contrasto e l’identità forte è per definizione luogo di apertura e casa di tutti.
Il punto di partenza non è il proselitismo, neanche l’indifferentismo religioso o il dialogismo, ma l’amore missionario e la cura educativa per tutti, facendo dell’oratorio – e quindi della comunità ecclesiale – un laboratorio di dialogo interculturale e religioso competente e continuo.
La ricerca di Monica Salsi presentata nel dossier «L'oratorio multiculturale», costituisce la prova concreta che la “casa” fornita dall’oratorio ai giovani, di qualunque provenienza essi siano, è caratterizzata dalla porta sempre aperta, dalla facilità di contatto, dal fatto di essere assolutamente di bassa soglia, come si dice in gergo educativo e sociale, senza condizioni iniziali di approccio. Tutto questo avviene in una reale interconnessione con le avanguardie del territorio circostante di cui solitamente i giovani sono protagonisti. Per questo l’oratorio si candida sempre più ad essere uno dei poli più importanti e essenziali della rete sociale del territorio in cui opera, più della scuola e di ogni altra istituzione. L’oratorio è infatti l’unico luogo in cui la compresenza di generazioni, di tipi di destinatari diversi, di attività molteplici può candidarsi come microcosmo in rete. E ciò avviene non parallelamente dalla fede, né mettendo tra parentesi le espressioni anche più specifiche della identità, spesso accusate di fare “la differenza” e non “l’uguaglianza”, perché l’accento che caratterizza la fede in oratorio è il fatto di dover operare non solo per l’annuncio della fede stessa, ma anche per rendere ragione del fatto che essa sia antropologicamente rilevante rispetto al vissuto giovanile.
L’oratorio è luogo di integrazione perché è veramente la casa del prossimo e non il luogo neutro di accoglienza dell’altro; e lo può essere soltanto se la fede del buon samaritano è veramente presente nelle sue strutture e nelle sue relazioni quotidiane.
NOTE
1 SEVESO B., La pratica delle fede. Teologia pastorale nel tempo della Chiesa, Glossa, Milano 2010, p. 163.
2 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai giovani di Roma, 5 aprile 2001, n. 5.
3 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Il laboratorio dei talenti. Nota pastorale sul valore e la missione degli oratori nel contesto dell’educazione alla vita buona del Vangelo, 2 febbraio 2013, n.7.
4 Il laboratorio dei talenti, n.13.