La superbia
Fernando Savater
SAVATER DISCUTE CON LUCIFERO SULLA SUPERBIA E SULL'UMILTÀ
SATANA: Vedo che il filosofo si avvicina alla mia umile dimora.
SAVATER: Hai detto una cosa vera: il filosofo si avvicina. Che la dimora sia umile o no, possiamo discuterne. Ma è evidente che chi la abita non è affatto umile, semmai il contrario. Direi anzi che fai della superbia la tua ragion d'essere e di esistere, malgrado ti sia costata cara.
SATANA: Cara? È il rischio che si corre per dire quattro verità. Superbo era il mio capo.
SAVATER: In ogni modo, immagino che ti sentirai ferito nell'orgoglio, perché oggi per tutti sei solamente l'Angelo Caduto. Quello che ha sfidato Dio ed è stato sconfitto, quello che si credeva più grande di quanto è.
SATANA: Mi sembra di dover mettere un'altra volta le cose al loro posto. Sei in presenza di qualcuno sicuro di sé, affermazione che pochissimi possono fare, perché se ce ne fossero molti come me il mondo sarebbe diverso.
SAVATER: Ma è proprio questo il problema: il mondo è pieno di individui come te. Non voglio immaginare cosa sarebbe se fossero ancora di più. Tu sei un caso tipico, quello della creatura che non accetta la condizione di creatura e vuole imporre il proprio desiderio alla divinità. Ma la divinità stabilisce i limiti dei tuoi desideri, e la superbia ti sta a pennello. Noi, umili umani, quando usiamo questa parola immaginiamo Luigi XV o Luigi XIV nel pieno della gloria. Ma tu sai bene che la superbia è una cosa semplice, di tutti i giorni. Nella tua ansia di dividere e separare, ti piace l'assenza di considerazione generale nei confronti dell'altro.
SATANA: Non venirmi fuori con questa stupidaggine della svalutazione. Quello che esiste è la selezione naturale. Ci sono i migliori e i peggiori, e ognuno va messo al suo posto.
SAVATER: Ma è proprio questo il problema: secondo quale criterio? Chi impone questa selezione? Chi decide quali verranno scelti e quali no? Chi stabilisce il posto che spetta a ciascuno? Nessuno è più fragile, più vulnerabile e inconsistente di un superbo.
SATANA: Mio caro filosofo... Vorresti dire che, oltre che superbo,
sono debole? Hai anche tu qualche scatto di superbia, o no?
SAVATER: Mea culpa, tuttavia non credo di essere superbo; sono ostinato, polemico, ho una tendenza eccessiva a voler avere ragione. Eppure non contraddico tutto e tutti, come fanno alcuni per ottenere una notorietà che non otterrebbero in altro modo.
SATANA: Eppure, avevo capito che da bambino eri molto irrispettoso...
SAVATER: Da bambino, e lo faccio ancora, mi domandavo per quale ragione dovevo tapparmi la bocca se avevo cose sensate da dire su qualcosa che giudicavo una sciocchezza. Non mi è mai sembrato un comportamento peccaminoso, però devo riconoscere che uno dei miei peggiori vizi è quello di voler avere sempre ragione. Mia madre aveva notevoli doti polemiche, e neppure io ho mai saputo stare zitto, ho sempre avuto la risposta pronta.
SATANA: In questo somigli molto ai miei amici governanti, di qualsiasi provenienza. Devi però ammettere che senza di loro il mondo andrebbe a rotoli.
SAVATER: Quelli sono i peggiori, e soprattutto chi si nasconde dietro una maschera di umiltà, assolutamente falsa. Politici, generali o religiosi che non hanno alcun pudore nell'assicurare che non vogliono cariche e che le accettano soltanto per il bene pubblico. Questi personaggi sono gli stessi che un attimo dopo aver perso l'incarico stanno già cospirando contro chi ha preso il loro posto. Non c'è niente di peggio della falsa umiltà.
SATANA: Su questo concordo pienamente, io non sopporto di essere umile né falso, e ancor meno onesto... voglio dire, ipocrita. Ne approfitto per pensare a tutto quello per cui l'umanità deve essermi grata per la mia feconda esistenza nel corso della storia. Che è una sorta di autocritica, ma al contrario.
«La superbia non è grandezza ma gonfiore, e chi è gonfio sembra grande, ma non è sano.»
SANT'AGOSTINO
Secondo le Sacre Scritture, la superbia non è solo il peccato più grave, ma la radice stessa del peccato. Pertanto, proprio da lì deriva la debolezza più grande. Non si tratta dell'orgoglio di ciò che si è, ma del disprezzo di ciò che sono gli altri, del non riconoscimento dei propri simili.
Goldman afferma: «In ultima analisi la superbia finisce per diventare un elemento di vulnerabilità per l'essere umano, convinto di dominare 'una situazione quando in realtà è vero il contrario. È un esempio dell'insicurezza dell'individuo di fronte ad alcune circostanze della vita. Dice un nostro proverbio: bisogna tenere nelle tasche due foglietti. Uno deve recare scritto: "Per me fu creato il mondo", e l'altro: "Sono solo polvere e cenere"».
Forse l'effetto più peccaminoso della superbia è che rende impossibili, fra gli ideali dell'umanità, l'armonia e la convivenza. I nostri destini sono enormemente simili: tutti nasciamo e siamo consapevoli che moriremo, tutti condividiamo bisogni, frustrazioni, illusioni e felicità. Che qualcuno si consideri estraneo all'umanità, superiore, e che disprezzi quella degli altri, che neghi il proprio legame di solidarietà con il genere umano: probabilmente è questo il peccato fondamentale. Perché negare l'umanità degli altri significa negare quella di ciascuno di noi: vuol dire negare la propria umanità. Non è necessario ricorrere alla teologia per fare della superbia un peccato.
«La natura degli uomini superbi e vili è di mostrarsi arroganti nella prosperità e spregevoli e umili nelle avversità.»
NICCOLÒ MACHIAVELLI
La superbia, come tutti gli altri peccati, presenta diverse sfumature. Capita, per esempio, che in alcuni casi si giudichi superbo chi primeggia nella virtù; ma il vizio riguarda la rappresentazione dell'eccellenza, non l'eccellenza in sé. Chi si distingue per valore non è colpevole di essere tale. In questi casi la superbia consiste nello sbattere l'eccellenza in faccia agli altri.
Il filosofo argentino Tomàs Abraham suggerisce un'altra prospettiva: «Ricordo una citazione di Jean Genet: "Alzare la testa tra i fischi di disapprovazione". Questa è una forma di superbia, il non piegarsi e non fare eco a tutta l'umiltà della quale dobbiamo essere creditori e, allo stesso tempo, debitori. Senza superbia, credo sia impossibile qualsiasi intendimento umano».
Il mio amatissimo nonno Antonio dal suo letto di morte mi raccomandò: «Non tacere mai davanti a nessuno! Non permettere a nessuno di zittirti!». Gli promisi che così sarebbe stato, e nella mia vita mi sono sempre ribellato a tutti coloro che volevano togliermi la parola.
Non negherò che mi sento a mio agio in una bella discussione: è una virtù che ho ereditato dal ramo femminile della mia famiglia; nel bene o nel male, sono spesso dominato da una naturale ostinazione. Ho una sensibilità speciale per scoprire l'altra faccia di un ragionamento, quello che l'altro tace. E da anni predico contro coloro che fanno delle proprie opinioni ortodosse una questione di fede.
Afferma Abraham: «Esiste un tipo di superbia che mi infastidisce: quella connessa all'ignoranza (tipica di chi non sa che la superbia ha un costo e che bisogna pagarne il prezzo); è troppo facile disprezzare l'altro senza essersi neppure presi il disturbo di conoscerlo. Ma non mi irrita la superbia in generale, è un peccato che è stato molto importante alle origini del cristianesimo, il peccato di Adamo. Nella superbia c'è un fondo anarchico che io apprezzo».
Secondo Goldman: «La superbia spinge l'individuo a credere di poter occupare la posizione di chi sa tutto, mentre la verità è un obiettivo che dobbiamo cercare costantemente nella vita. Credere di possederla pone l'uomo al livello di superbia più elevato che può raggiungere. Le società sane hanno a che fare con la ricerca della verità, non con la sua accumulazione e il suo possesso. Durante la ricerca occorre scartare ciò che è falso. Esiste una sola verità, ma l'uomo non vi ha accesso. Nella tradizione ebraica non esiste un modo di nominare Dio, che è innominabile; Dio è un'approssimazione a ciò che immaginiamo debba essere. Verità è uno dei nomi del divino, il sigillo di Dio, a cui vogliamo arrivare attraverso i nostri unici strumenti: le certezze».
La superbia nasce quando l'essere umano sfida Dio non accettando la propria condizione di creatura e prova a imporre il suo desiderio alla divinità. Ma si suppone che Dio stabilisca i limiti delle nostre pulsioni. Allora la creatura sceglie se servire o no questo Dio, e quando decide che non vuole servirlo lo affronta.
Esiste anche una superbia razziale: ci sono popoli che guardano dall'alto in basso altre collettività, senza essersi neppure presi la briga di comprenderle, di capire dove siano le differenze, le diversità nelle usanze e nell'ordine sociale. Li considerano inferiori e li disprezzano. Li etichettano come incivili, e questa convinzione è servita a giustificare invasioni e schiavitù e ha spinto a commettere autentiche barbarie su quanti venivano definiti barbari.
Sostiene Abraham: «Nei paesi avanzati c'è una certa tendenza a disprezzare, insieme ai regimi dispotici presenti nel Terzo Mondo, anche le popolazioni che ne sono vittime, come se fossero responsabili di quei regimi e non meritassero comprensione. Esiste una superbia che nasconde la proprie debolezze, le imbelletta come successi e si permette di disprezzare il più debole perché non è stato eroico, dimenticando che tutte le civiltà sono state edificate su qualche crimine, o su molti».
Un esempio storico di superbia e potere lo offrì Napoleone Bonaparte quando ottenne che papa Pio VII si recasse a Parigi per incoronarlo nella cattedrale di Notre-Dame: durante la cerimonia Napoleone prese la corona e investì se stesso dei simboli imperiali, gesto con il quale volle dimostrare di essere superiore a tutti i presenti, compreso il rappresentante di Dio sulla Terra.
«Il fascino è ciò che possiedono alcune persone, fino a quando cominciano a credere di averlo.»
SIMONE DE BEAUVOIR
Ritengo che il vizio sociale per eccellenza sia la vanità, perché è il peccato degli altri: mentre le persone orgogliose non dipendono da nessuno - precisamente in questo consi ste il loro orgoglio -, i vanitosi hanno bisogno di un pubblico. Vogliono ricevere lodi, mentre il superbo le rifiuta. Uno scrittore orgoglioso, se qualcuno gli dice: «Come scrive bene, Maestro, e quanto è bella la sua opera», pensa: «Poveretto, se non sai neanche leggere, cosa vuoi che m'importi se consideri bello o brutto quello che faccio?». Il vanitoso, invece, nell'udire un complimento pensa: «Come ha ragione quest'uomo». E trova simpaticissimo l'adulatore più repellente e strisciante in cui si imbatte. Perché il vanitoso è una persona molto socievole, a differenza dell'orgoglioso che sfugge la folla: «Per me, conta solamente il mio giudizio personale».
Tomàs Abraham afferma: «Evito di pronunciare la parola "orgoglio" per ragioni che ignoro. Non mi è mai piaciuto chi si mostra orgoglioso di un figlio, o di essere argentino, o di aver ricevuto un premio per un libro. Ho sempre considerato questo atteggiamento come l'ostentazione di un'acquisizione».
Seguendo il ragionamento di Abraham, posso capire chi prova orgoglio per aver scritto un buon libro o composto una sinfonia, ma c'è un punto oltre il quale non ci si può spingere. Per esempio, trovo assurdo chi afferma: «Sono orgoglioso di essere spagnolo», come se ci si potesse vantare di avere due polmoni o un'appendice.
D'altra parte, non c'è niente che mi infastidisca più della falsa umiltà. Quando sento qualcuno affermare: «Io non voglio niente per me, tutto ciò che chiedo è per gli altri», è un brutto segno. Diffido delle -persone che non vogliono niente per sé.
«È più facile scrivere contro la superbia che vincerla.»
FRANCISCO DE QUEVEDO
Fondamentalmente la superbia coincide con il desiderio di essere un gradino più in alto degli altri; ora, non c'è niente di male nel fatto che una persona abbia una buona opinione di se stessa, basta che non ci infastidisca con i racconti delle sue prodezze, vere o inventate che siano. Sbaglia quando non ammette che qualcun altro, in qualsiasi campo, possa essere migliore.
In generale, riconosciamo di occupare una certa posizione nel ranking umano, e che altri ci superano. I superbi, invece, non cedono il passo a nessuno, non tollerano nemmeno che si possa pensare che esista qualcuno migliore di loro. Inoltre, soffrono a causa della sensazione che si stia facendo poco nel mondo per riconoscere la loro superiorità, malgrado se ne vadano in giro con quell'aria da «io appartengo alla casta degli eletti».
Se non è considerato il migliore, il superbo soffre pene indicibili, perché prende tutto come un'offesa e si sente incompreso in una società di zoticoni analfabeti. Se a un pranzo lo mettono a sedere all'estremità della tavola, si adombra perché hanno fatto accomodare in una posizione migliore qualcuno che considera di minor prestigio, o perché non si sono rivolti a lui con il tono adeguato ai suoi meriti, mentre la gente normale si preoccupa di quello che mangerà e di trascorrere una serata piacevole. Mi ha sempre sbalordito la suscettibilità di questo genere di persone, per il bisogno che hanno di mostrare continuamente la loro grandezza.
Ciò che caratterizza il superbo è il timore del ridicolo: non c'è niente di peggio per chi vive esibendo il proprio potere e i propri meriti che scivolare su una buccia di banana e finire per terra. Il ridicolo è quanto di più temibile esista per la superbia, e per questa ragione tiranni e potenti sono del tutto privi del senso dell'umorismo, soprattutto nei confronti di se stessi.
Abraham afferma in proposito: «Chi appartiene a questa categoria è terribilmente spaventato dalla comicità: la risata è qualcosa di sospetto, che vive come un'aggressione. Così, dove la risata è proibita sappiamo di essere in un luogo pericoloso. Le critiche convenzionali e le denunce sono sempre serie, ma a volte vengono fatte in modo ironico, e ciò permette di mostrare come la realtà che si sta vivendo abbia i piedi d'argilla».
Non a caso la superbia è il valore antidemocratico per eccellenza: i greci condannavano all'ostracismo coloro i quali si distinguevano e cominciavano a imporsi sugli altri. Ritenevano che così facendo avrebbero evitato le disuguaglianze tra i cittadini, e pensavano: «Seppure sei il migliore, devi andartene, perché non possiamo convivere con un tipo di superiorità che finirebbe per incrinare l'equilibrio sociale».
Oggi, al contrario, viviamo in una sorta di celebrazione permanente della mediocrità. Basta guardare uno di quei reality nei quali per un certo periodo di tempo le telecamere spiano cinque o sei persone intente a fare e dire volgarità di ogni genere. Le loro attività più interessanti consistono nel cambiarsi i calzini, friggere un uovo, insultarsi e dormire. Posso capire l'interesse suscitato da Re Lear, non riesco ad accettare l'ascesa gerarchica della mediocrità. A meno di non credere che lo schermo televisivo dimostri che siamo tutti capaci delle stesse cose, delle medesime volgarità, bassezze e turpitudini che compiamo ogni giorno.
La superbia è il disprezzo per antonomasia. Ovvero: «Prima io, poi io, e dopo ancora io». Forse è piuttosto semplice: consiste né più né meno che nel maltrattare gli altri. Non importa investire con l'auto un pedone che sta attraversando con il giallo, perché la priorità per il superbo è lui stesso e le sue necessità. In questa categoria rientrano le persone che devono del denaro a qualcuno e ritardano il pagamento senza riguardo per le difficoltà economiche di chi glielo ha prestato. Si tratta di individui che non hanno alcuna consapevolezza di ciò che stanno facendo per auto-glorificarsi, ma di fatto pensano: «Conto molto più di te». C'è chi lo fa in modo quasi impercettibile a prima vista, ma altri lo palesano con gesti piccoli o eclatanti, o lo dicono in faccia agli altri, correndo il rischio di farli arrabbiare o di disgustarli. Comunque, ci saranno sempre persone pronte ad assumere un atteggiamento servile, con le quali i superbi vanno a nozze per compiere ogni genere di iniquità e disprezzare gli altri.
Secondo Abboud: «La superbia è molto pericolosa per chi n'è affetto. Ricordo la storia di un re che, volendo mostrare il proprio potere, decise di costruire un palazzo perfetto, disegnato da lui stesso e di cui aveva scelto i materiali e sorvegliato la costruzione. Terminata l'opera, il sovrano diede una festa per mostrarla e in quell'occasione sfidò gli invitati a trovare anche un solo difetto. Tutti si profusero in complimenti, finché un tale disse al padrone di casa che una pecca lui l'aveva trovata. Il re andò su tutte le furie e volle sapere quale fosse: il visitatore rispose che non era ancora stata riparata la crepa attraverso cui sarebbe passato l'Angelo della Morte. La metafora di questo racconto sta in quella crepa che ti rimette al tuo posto, facendoti riprendere il contatto con la realtà. La tradizione islamica dice: "Non entra in paradiso chi possiede un grammo di superbia". Perché chiunque ne abbia anche solo un briciolo nel cuore, dal nostro punto di vista difficilmente può aspirare alla perfezione. L'uomo universale è quello libero dalla superbia. Il dramma del superbo è di venire smascherato. L'idea su cui si fonda l'Islam è la sottomissione a Dio, qualcosa di assolutamente contrario al modo di pensare del superbo».
Abboud aggiunge: «È molto difficile avere a che fare con religiosi superbi, che provano a convincere gli altri di possedere in esclusiva il lascito di un essere superiore. Così tutto si complica, per la pretesa che questo mandato metafisico li autorizzerebbe ad avere un rapporto privilegiato con la trascendenza, e ad applicarlo alla vita quotidiana degli esseri umani. Perciò, quando si prova a discutere di un tema mondano con uno di questi personaggi, la conversazione finisce sempre con l'affermazione: "Parola del Signore", e dal momento che non esiste una corte d'appello più elevata, ci si sente in condizione di inferiorità».
«Noi non possiamo neppure pensare l'immagine di Dio» prosegue Abboud «perché così facendo commetteremmo il peccato di politeismo: creando dentro di sé un'immagine di Dio la si moltiplica, si dà esistenza al vero Dio e a quello che l'individuo sta immaginando. Perciò noi musulmani pensiamo la creazione, non il creatore, perché la divinità è irraggiungibile per il pensiero.»
Per quanto riguarda l'autostima e l'ansia di mettersi al di sopra degli altri, i superbi sono sempre al primo posto, ma i loro fallimenti di solito si trasformano in tragedie che non riescono più a superare. Per esempio, nelle Scritture è detto che Cristo sconfiggerà i superbi e umilierà i potenti, poiché in definitiva sono quelli che soffrono maggiormente le sconfitte e che ci tengono di più a vincere. A cosa serve vincere una partita, una battaglia o una discussione con un poveraccio? Non ci farà passare alla storia. Sfidare i superbi che si circondano di una scenografia imponente dà piacere, mentre non c'è gusto con i timidi e gli umili, dato che quasi sempre queste persone si aspettano la sconfitta.
Gli stoici sono esattamente agli antipodi dei superbi. Nelle sue meditazioni l'imperatore romano Marco Aurelio scriveva: «Non credere a coloro che ti adulano, non credere a quello che dicono di te». È un'umiltà diversa da quella della concezione cristiana. Gli stoici non sono umili, semplicemente non vogliono essere forti, e d'altra parte rifiutano gli elogi e le adulazioni. «Quando ti svegli al mattino» dicevano «non pensare se diventerai imperatore, pensa: oggi devo compiere bene il mio impegno di uomo.» Ecco la loro idea: niente può essere superiore alla fatica umana.
Ma come evitare di cadere nella superbia? Il rimedio è molto semplice, ma a volte difficile da praticare: essere realisti. È anche vero che, all'estremo opposto, l'eccesso di umiltà pone al di sotto del realismo: un atteggiamento che porta a non valorizzare neppure ciò che si ha di buono può creare grandi difficoltà dal punto di vista sociale. Anzitutto si soffre, tranne che non ci si compiaccia morbosamente della propria nullità o piccolezza. Sant'Agostino suggeriva un meccanismo piuttosto utile. Nelle Confessioni scrive: «Quando considero me stesso non sono niente, quando mi confronto valgo abbastanza». È una frase piena di realismo. Se analizzi quello che vorresti essere, i tuoi ideali, le tue virtù, ti ritrovi più in basso di quanto credevi e desideravi; eppure, quando ti guardi intorno non ti giudichi poi tanto male. Così, l'estremo eccesso dell'umiltà – l'umiliazione – è sbagliato quanto l'altro estremo della superbia.
In definitiva, la superbia è debolezza, e l'umiltà è forza. L'umile infatti riceve sostegno da tutti, mentre il superbo è completamente solo, sprofondato nel suo nulla. Può essere intelligente, ma non saggio; può essere astuto, magari diabolicamente astuto, ma lascerà sempre tracce delle sue malefatte, e si riuscirà sempre a riconoscerlo.
(I sette peccati capitali, Mondadori 2007, pp. 25-35)