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    Otto regole
    per viaggiare

    Franco Riva

    Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi;
    prendersi come punto di partenza, ma non come meta;
    conoscersi, ma non preoccuparsi di sé.

    Martin Buber, Il cammino dell'uomo


    Viaggiare è lasciarsi scuotere

    Vedere è «lasciarsi scuotere», viaggiare è incontrarsi: passeggiare significa «permettere al mondo di entrare dentro noi stessi» (R. Walser, 2006). Del viaggio non si comprende nulla senza il rapporto con l'altro da sé. Non per una prevedibile curiosità nei suoi confronti, ma per lo stordimento che si riceve di contraccolpo quando si prende sul serio il pensiero che il mondo non è fatto a propria immagine e somiglianza.
    Per Blanchot il viaggio, «l'esodo, l'esilio, indicano un rapporto positivo con l'esteriorità, e l'esigenza di questo rapporto è un invito a non accontentarsi di ciò che è nostro (ossia del nostro potere di assimilare ogni cosa, identificando e riferendo tutto al nostro Io)» (Blanchot, 1981, p. 168; cfr. Sartre, 1993, p. 89). Troppo comodo perciò accontentarsi di ciò che è nostro, troppo facile, violento, prendere sempre per sé. Si viaggia solo al di là di se stessi.
    Essere nati, abitare il mondo, vivere, esistere, è invece un'avventura: un'uscita, un esodo, un esilio, un lasciare – un «naufragio» (cfr. Blumenberg, 2005, pp. 37 ss.). Viaggiare è metafora della vita; vivere è metafora del viaggio. La vita è un esporsi, un «cammino», come scrive Dante all'inizio della Commedia, un errare, una «via» dove bisogna guardarsi bene «dal prendere se stesso per fine» (Buber, 1990, p. 55).
    Metafora della vita, il viaggio lo è pure della democrazia. Finché gli uomini continuano a ingurgitare il mondo e a divorarsi a vicenda l'un l'altro nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, nella città non ci sarà mai giustizia (Esiodo, 274-280). L'assimilazione dell'altro ha nomi diversi, ora più morbidi, ora più cruenti, che si rigirano tutti però, come una trottola, sullo stesso punto del prendere per sé: le logiche tenacemente individualistiche del fare esperienze, del crescere, del conoscere saranno poi così diverse dai colonialismi, dagli imperialismi, dalla cultura unica, dalle globalizzazioni del denaro, dai villaggi turistici, dai viaggi di piacere?
    Per quanto pubblicizzato come l'avventura più straordinaria che si possa immaginare, non è mai un vero viaggio quello che assimila e che prende per sé, che riduce gli altri a strumento, a occasione per la propria crescita: motivo spesso sfruttato, in apparenza innocuo e benevolo, perfino educativo, si alimenta su uno sfondo opportunistico e perverso.

    Prima regola: VIAGGIARE È LASCIARSI INCONTRARE DALL'ALTRO.

    Sentire l'altro, la meraviglia

    Nel suo andare, Violeta si sente «sempre più affascinata» (Serrano, 2008, p. 215). Nei racconti e nei film di viaggio la fanno sempre da protagonisti lo stupore e la meraviglia. In diversi casi a ragione, per via delle nuove esperienze che si stanno facendo; in altri casi a torto: l'enfasi, la ricerca d'effetto a tutti i costi, nasconde spesso un vuoto. In nome del meraviglioso ci si lascia abbindolare con viaggi dal sapore esotico che tradiscono le attese. Eppure, in bene o in male che sia, senza meraviglia e senza stupore non può esserci viaggio.
    Stupore e meraviglia: restituiscono il senso dell'altro in quanto altro, come diverso da me, irriducibile a ciò che sono io, come qualcuno che mi costringe a pensare. Con la meraviglia s'inizia a pensare, a viaggiare, a parlare, di modo che ogni viaggio è un pensiero, ogni pensiero un viaggio: perché nel viaggio si pensa, perché si viaggia senza neppure uscire di casa (cfr. De Maistre, 1999), ma soprattutto perché quando si pensa, e quando si viaggia, niente rimane più come prima.
    Il viaggio corre lungo i fili della meraviglia per quello che si vede, per gli incontri che si fanno, per il proprio meravigliarsi. Marco Polo vede in Oriente cose «meravigliose» e «quasi infinite»: sono i paesi e le città che visita, sono ancor più le persone con cui si ferma molto a parlare (Polo, 1954, pp. 3-4). Persone e meraviglia s'intrecciano nel viaggio.
    Non c'è viaggio, parola, racconto, senza distacco da sé. Il segreto del viaggio è il suo momento di crisi, di uscita: è l'esperienza di qualcosa che non finisce perché non è più tutto nelle proprie mani. La crisi non segna il viaggio in negativo, quasi fosse un improvviso squilibrio, qualcosa che non doveva succedere, un incidente; come se il mondo prima fosse stato in ordine. Al contrario. Se non succede qualcosa, se non si rischia, non si esce, non possono cominciare né racconti, né viaggi. I racconti di viaggio confermano in pieno la struttura di ogni narrare (cfr. Todorov, 1995, cap. 6): come per Il piccolo principe di Saint-Exupéry, o II volo di notte, il viaggio e il racconto sono possibili grazie al momento di crisi che s'incunea tra la situazione iniziale e quella finale.

    Seconda regola: DI FRONTE ALL'ALTRO - NELLA MERAVIGLIA, NELL'INFINITO, NELLA CRISI - STA LA VERA PARTENZA DI UN VIAGGIO.

    Stare in viaggio

    Nella meraviglia l'infinito si presenta come un distrarsi da sé, un viaggio. Non è il movimento circolare di andata e ritorno, un uscire e un rientrare da casa per sbrigare le faccende di ogni giorno; e nemmeno i nostri esodi forzati del tempo libero, da weekend, da vacanze estive, che ricalcano l'identico schema.
    On the road, per strada. L'incontro con l'altro non ha termine, e ci lascia sempre con un sentimento struggente che spiazza luoghi e tempi, e il senso stesso di ciò che è proprio. Crescono allora desideri e pensieri strani, che il nostalgico Ulisse forse non conosce: di non tornare più al punto di partenza, che viaggiare sia lo stesso stare in viaggio. Al «mito di Ulisse che ritorna a Itaca», Lévinas contrappone perciò «la storia di Abramo, che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora sconosciuta» (Lévinas, 1979, p. 30). Come Abramo appunto, che parte sapendo di non tornare, come la liberazione dall'Egitto, come l'impegno per una causa giusta o una cosa bella, che rapisce. Per quanto, di fronte alle difficoltà, è facile lasciarsi andare al rimpianto per non essere rimasti tranquilli in qualche Egitto, in qualche «casa di schiavitù», ma almeno con la «pancia piena» – vale a dire con l'illusione di qualche sicurezza, naturalmente garantita dal tiranno di turno (cfr. Walzer, 2004, p. 35 ss.). Si vive così, tra Ulisse (Joyce, 2008) e Abramo (Lévinas, 1979; Derrida, 2005; Id., 1967, p. 228).
    Per il viaggio tutto allora si complica. Quando inizia il viaggio, con la mia iniziativa o con il fatto di trovarmi di fronte all'altro? Dove arriva il mio andare, dove invece il rispondere a una chiamata che proviene dall'altro e che trasforma impercettibilmente il proprio muoversi in un lasciarsi portare? Qual è la prima parola, l'io o il tu, come suggeriscono Nietzsche e Buber?

    Terza regola: VIAGGIARE È STARE IN VIAGGIO.

    Senza pentimenti. I viaggi dell'Occidente

    Ci sono dei viaggi che non lo sono per davvero perché si viaggia senza staccarsi da sé, senza incontrare l'altro. Il viaggio della conferma di sé trasforma tutto in una colonia: della propria patria, dei propri interessi, dei propri piaceri, delle proprie sensazioni; e sono scenari che si replicano di continuo. Il viaggio non-viaggio è sempre, in qualche modo, di conquista o di guerra.
    Dopo che l'Occidente ha circumnavigato – e forse occupato – il globo terrestre non è difficile accorgersi, come tornando al punto di partenza, di cosa stanno diventando i viaggi nella stagione in cui niente più del viaggiare sembra caratterizzarlo. I viaggi dell'Occidente sono sempre più dei viaggi senza l'altro: standardizzati, militarizzati, resi virtuali.
    Sulla scena mondiale della globalizzazione il viaggio si trova al tempo stesso, e per le identiche ragioni, potenziato e avvilito: enormemente facilitato dai meccanismi globali di unificazione politica, economica, tecnologica, culturale e linguistica, è ostacolato proprio dall'uniformità eccessiva di luoghi e culture, che lo declassano a un semplice spostamento tra il centro e la periferia dell'unica metropoli mondiale (Riva, 2009, pp. 17-60). Il ritorno allo spostamento giornaliero, da pendolari del globo, fa perdere al viaggio l'incontro con l'altro. Così diffuso, così mercificato, si riduce a un oggetto di consumo, a un prodotto industriale, fino al punto che il consumo stesso diventa, come nel caso dello shopping dislocato altrove o dei turismi sessuali, l'unico motivo del viaggio. Il consumo divora anche il viaggio.
    I viaggi dell'Occidente sono sempre più militarizzati. Nell'era del viaggio generalizzato risorgono frontiere e dogane: magari meno percepibili di quelle di un tempo, contenute nell'esibizione dell'intimo ai controlli degli aeroporti, ma pur sempre frontiere e dogane, posti di blocco. Solo in nome della sicurezza? Le procedure d'identificazione del viaggiatore hanno perso il loro carattere rituale e d'incontro (cfr. Leed, 2007; Canestrini, 2004), per farsi indagine poliziesca e interrogatorio, radiografie oscene. Dall'altra parte ci sono i viaggi degli immigrati, che militarizzati rimangono nella vecchia maniera delle sentinelle armate e dei fili spinati. Ci sono pure i viaggi degli eserciti.
    Viaggi, in generale, dove forse non c'è più nessuno da incontrare. Fine stessa di ogni viaggiare.

    Quarta regola: NON SI VIAGGIA NELLA PURA CONFERMA DI SÉ.

    Diversità addomesticate. Viaggi e nuove tecnologie

    Attirati nel meccanismo del consumo, i viaggi dell'Occidente sono già ampiamente virtualizzati: nel senso che sono consumati in anticipo, preconfezionati; oppure consegnati agli stupefacenti (cfr. Kerouac, 2006). I viaggi si stanno però virtualizzando nel senso più preciso, tecnologico, della navigazione in rete, dell'oceano on line, dei contatti telematici, delle visite virtuali. Solo a prima vista i viaggi virtuali non sembrano partire davvero, incontrare, avere l'altro davanti a sé, perché si deve poi riconoscere che esaltano anch'essi, a loro modo, il dinamismo stesso dell'esistenza, la tensione sempre inappagata di prossimità. Ci sono pure dei viaggi e dei turismi virtuali (cfr. Riva, 2011; Ge-rosa, 2007, pp. 225 ss.).
    Per Nietzsche nel «mostruoso acceleramento» della vita contemporanea succede come a quei «viaggiatori che fanno la conoscenza di paesi e di popoli dal treno» (Nietzsche, 1965, cfr. 282); mentre per Marinetti la velocità smitizza i «paesaggi» creduti «eterni» (Aeropoema). Il viaggio, la macchina, la fretta. La storia della tecnologia e quella dei viaggi si compenetrano. Non è la stessa cosa viaggiare a piedi o su un cavallo, su una nave o su un treno, su un'auto o un aereo. La tecnologia si è alleggerita, i tempi sono mutati. All'immaginario pesante dell'acciaio (Il cavallo d'acciaio di J. Ford, il Metrò di Parigi, l'Orient Express, l'Odissea nello spazio di Kubríck), si torna a preferire il linguaggio fluido e leggero del mare (il Moby Dick) virtuale. Cresce in particolare l'utilizzo di strumenti che mirano a semplificare, a ridurre, a eliminare, la fatica del viaggio come incontro con l'altro da sé, come crisi positiva, come dialettica essenziale tra l'orientarsi e il disorientarsi, lo smarrirsi e il ritrovarsi; quasi si stesse cercando di eliminare in anticipo la fatica gratificante del viaggio come ricerca autonoma di orientamento e di localizzazione.
    Tra i viaggi virtuali d'Internet, i navigatori satellitari per i mezzi di trasporto, i GPS (Global Positioning System) passano continuità e coerenza. Il navigatore satellitare personale è diventato un oggetto cult, qualcosa di cui non si può fare a meno: per sapere sempre dove si è, per andare a colpo sicuro, per essere sempre rintracciabili, per non essere più stranieri, per non perdersi mai più, per non uscire dalla rete. In discussione non sono tanto l'utilità e le potenzialità, difficili da negare. Basti pensare all'aiuto che possono dare i GPS in caso di pericolo e necessità, per localizzare ad esempio un aereo o un alpinista; e per portare soccorsi rapidi. Che senso può avere, però, percorrere un semplice sentiero di montagna, del tutto privo di rischi, tra prati e fiori e mucche tranquille, con l'aiuto di uno strumento che vede per noi, ci orienta, ci colloca spazialmente, che indica di svoltare a destra e a sinistra, e ci dice ogni tanto, dove posare lo sguardo per osservare questa o quella cosa notevole? O visitare una città d'arte guardando in definitiva di più lo schermo del nostro navigatore personale piuttosto che respirarne l'atmosfera?
    Nell'abitudine dell'utilizzo, si rischia una vera e propria sostituzione di personalità e di pensiero, che deprime le esperienze fondamentali del corpo e del viaggio come un aprirsi, un orientarsi, un esplorare il mondo; e senza cui non c'è vita umana: l'essere al mondo come un abitare aperto, il corpo come esperienza di centro e decentramento perpetui, il dimorare sulla terra come un rischiare (star fuori, esistere, ex-sistere). Il viaggio diventa tecnologicamente già viaggiato, il pensiero già pensato, la parola già parlata. La meraviglia retorica. La vita programmata da altri.

    Quinta regola: SI NASCE A SE STESSI NELL'USCITA DA SÉ, NELLA FATICA DI UN VIAGGIO.

    La fine dell'altrove

    Il viaggio, come la vita, implica l'esperienza dell'altrove. Nei meccanismi collettivi è invece in atto un vero e proprio addomesticamento quotidiano della diversità, un monopolio dell'identico. Si riflette, tra l'altro, nel rifiuto silenzioso dell'idea stessa del viaggio se non come un diversivo a sua volta guidato e programmato, telecomandato appunto, che non smuove nulla, che non si meraviglia più, e che si riduce come il tempo libero a una pausa necessaria, a un po' d'igiene sociale nel ritmo asfissiante del lavoro: come i cagnolini portati, per forza di cose, a passeggiare ogni tanto in un parco.
    Senza un altrove non c'è viaggio. L'altrove è il luogo, la cultura, la parola, il sapore, il costume. L'altrove è l'altro. Per comprendere cosa stia accadendo serve a molto continuare a recriminare che, all'epoca del melting pot del villaggio globale, l'altrove sta sfuggendo, è in ritirata, e gli sono concessi soltanto degli spazi sempre più residuali, se mai ce ne sono ancora?
    Nell'epoca della globalizzazione l'altrove è piuttosto travolto da un fenomeno doppio, contrapposto e insieme complementare. La ritirata dell'altrove, infatti, è subito compensata dalla sua promozione pubblicitaria; e si genera così una situazione complessa e contraddittoria. Non c'è dubbio che l'altrove si ritira davanti all'avanzata inesorabile del villaggio globale, al punto da doverne quasi dichiarare la fine: non più luoghi, culture, lingue diverse rispetto a un mondo fin troppo omogeneo. Non più progetti sociali e politici, non più utopia, quando le parole dell'altrove appartengono al viaggio come alla democrazia: cittadino e straniero, accoglienza e giustizia, condivisione, vita e morte.
    Per contrappeso, dell'altrove esiste anche un'industria fiorente con cui si cerca di variare (di solito in alto) il business standardizzato, e massificato, del viaggio e del turismo. La ritirata dell'altrove è dunque compensata dalla sua manipolazione, ma sarebbe da capo un po' ingenuo accontentarsi di denunciarla, e di liquidarla sommariamente, come consumistica. Anche la manipolazione ci restituisce, sia pure in modo capovolto, la stessa verità: che senza un altrove non può esserci viaggio. Quando l'altrove si ritira, quando sembra soffocato sulla scena di un mondo occluso, per giustificare ancora i viaggi bisogna inventarselo: un altrove addomesticato, ridotto a fiore all'occhiello di un viaggio talmente serializzato che, per essere ancora credibile, ancora proponibile, deve far sopravvivere un po' di quell'appeal che solo la «seduzione dell'altrove» può dargli (Maraini, 2010; Augé, 2009, cap. 1; Marfè, 2009; Michel, 2000; cfr. Aime, Papotti, 2012, pp. 111 ss.).

    Sesta regola: SI VIAGGIA SOLO QUANDO SI CREDE IN UN ALTROVE.

    Voglie di esotismo

    La «voglia del diverso seduce, spesso inganna» (Bloch, 1994, p. 50; cfr. Said, 1999). Il movimento sincronizzato di ritirata e di manipolazione dell'altrove fa riflettere sull'equivoco dell'esotismo, con cui il viaggio si presenta tanto più affascinante e mirabolante quanto più i luoghi si ricoprono di un immaginario fiabesco, e si sovraccaricano di una apparente diversità che non di rado rasenta l'eccitazione morbosa. L'equivoco è vecchio: che il viaggio al sole dei Caraibi, nei luoghi dello spirito, sulle vette dell'Himalaya, nei quartieri a luci rosse di qualche città orientale, nella notte metropolitana degli sballi, abbia maggior valore, sia ancora più viaggio, rispetto a un itinerario naturalistico a pochi chilometri da casa o a un paesino che, senza particolari emergenze artistiche, ha però conservato intatto tutto il suo sapore. Equivoco di pensare che il viaggio riguardi l'altro lontano, e non l'altro vicino; che la diversità sia faccenda di folklore o di una finta alternativa; che l'altro sia fuori di me.
    Tra il fascino dell'Oriente e le voglie di esotismo passa quindi una bella differenza. Le voglie di esotismo sono ripiegate su se stesse, tengono al centro un io alla ricerca di sensazioni, che prende per sé; il fascino dell'Oriente decentra, sente l'attrazione dell'altro, rapisce. Il Pellegrinaggio in Oriente di Hermann Hesse annuncia un viaggio senza ritorno e denuncia «tutto il fastidio dí una vita delusa» (Hesse, 2003, p. 57). Le voglie di esotismo esibiscono invece una vita soddisfatta di sé, che si deprime soltanto quando rallenta un poco la ricerca narcisistica di piacere, o quando si rischia di essere declassati: da turisti ben voluti (a pagamento), a vagabondi rifiutati (cfr. Bauman, 2002, cap. 5; Riva, 2006, cap. 3, pp. 91 ss.).
    L'esperienza del viaggio non è mai faccenda di distanza, di grandezza, di esotismo. La meta lontana e solitaria non rende per sé più autentico il viaggiare. La confusione tra viaggio e distanza è spesso alimentata ad arte, e nasconde un controsenso pericoloso: a maggior ragione nell'epoca del viaggio globale, dove nessun luogo è per davvero così distante, così diverso. La meraviglia stessa del viaggio non è un effetto dell'esotismo e della distanza. La novità e la diversità della meta possono certo aiutare e predisporre all'esperienza del viaggio, ma si torna pure delusi da viaggi molto lunghi in paesi lontani, così come si può tornare entusiasti da una semplice gita fuori porta alla scoperta di un tesoro d'arte finora trascurato; o dal tempo che ci si è finalmente presi per un colloquio. Il «totalmente Altro» non è mai in contrasto con la «familiarità del vivere di ogni giorno» (Jankélévitch, 1987, p. 60).
    L'esperienza del viaggio coincide piuttosto con quella di un altrove che in qualche modo è sempre a portata di mano, indipendentemente da dove ci si trova.

    Settima regola: SENZA RESPONSABILITÀ (PER L'ALTRO), NESSUN VIAGGIO.

    Narrare viaggi, raccontare crisi

    Con il viaggio anche la parola cambia, si mette in movimento, racconta d'altro, e viene restituita alla sua dignità di dialogo: il viaggio, come il dialogo, spezza i monologhi, frantuma le fissità. Anche la parola viaggia, anche il viaggio parla.
    Il «"Viaggio" sollecita e solletica la fantasia creativa; e la sospinge verso miti, avventure, invenzioni, illusioni, follie, demenze, e Kitsch» (Arbasino, 1976, p. 8). La fine dell'altrove si specchia nelle sofferenze della letteratura di viaggio, di cui si parla come dí una persona malata. Bisogna stupirsi? Se si accontenta di ricalcare, con qualche inevitabile aggiornamento, i modelli narrativi dell'avventura, della conquista, dell'esplorazione, dell'esotico, della curiosità, della semplice dislocazione di storie, difficile poi che non morda il freno, non cali d'interesse. La sua tenuta, d'altronde, si misura solo con parametri quantitativi, con evidenze di mercato (consistenza della produzione, successo editoriale, e così via), peraltro importanti?
    Pur all'apice di qualche improvviso exploit, la letteratura di viaggio arranca quando non rende il senso dell'incontro con l'altro; e soffre ogni volta che scambia l'altrove con una variazione dell'identico: in sto-rie intriganti e complesse, costruite con abilità, gradevoli, rimane sullo sfondo la convinzione – subito percepita dal lettore – che, al di sotto, un altrove vero e proprio non ci sia. Non ci siano motivi né per fare, né per raccontare un viaggio.
    «Voglio un'altra avventura» (Carlo Emilio Gadda).

    Ultima (ottava) regola: IL FUORI, L'ALTROVE; PER VIAGGIARE, VA DISCUSSO L'ECCESSO DI REGOLE.

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    (Fonte: Filosofia del viaggio, Castelvecchi 2015, pp. 97-107)


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