Lo spione

dell'Altissimo

La filosofia di Søren Kierkegaard

Wilhelm Weischedel

 

Alcuni filosofi sono stati fuorviati da avventure con donne, mentre è più raro che uno di loro trovi la sua strada grazie a una donna. E non un'importante dama di mondo, bensì una semplice ragazza di appena quindici anni. È quanto succede a Søren Kierkegaard, perché senza Regine Olsen egli non sarebbe diventato ciò che è diventato né avrebbe scritto ciò che ha scritto.
È amore al primo sguardo quello che attrae il ventiquattrenne Kierkegaard verso la piccola ragazza. Immediatamente prende la decisione che Regine sarà prima o poi sua moglie. Tre anni più tardi si fidanza con lei, ma qui comincia il problema. Un po' in ritardo Kierkegaard si domanda infatti se abbia il diritto di legare a sé una donna. Stando al proprio rigido concetto di matrimonio, questo sarebbe inconcepibile senza una assoluta lealtà reciproca dei partner. Di ciò egli si sente incapace. Ci sono cose che ritiene di dover tacere. Più ci riflette, più incerta gli sembra la soluzione del matrimonio per un uomo come lui.
Inizia così uno spaventoso dramma. Kierkegaard vorrebbe che fosse la fidanzata a sciogliere il fidanzamento, e, a questo scopo, non vede altra strada che rendersi così detestabile e abietto da essere alla fine ripudiato da Regine. "Uscire dal rapporto risultando un farabutto, se possibile un arcifarabutto, era l'unica cosa da farsi, per renderla di nuovo libera". Si giunge a una scena grottesca. "Lei mi domandò: non vorrai mai sposarmi. Io replicai: certo, fra dieci anni, quando mi sarò sfogato, allora dovrò avere sangue giovane per rinvigorirmi".
Non meraviglia che alla povera ragazza quasi si spezzi il cuore. Ma anche Kierkegaard è sconvolto. Stranamente spera, nonostante la rottura, di poter ancora mantenere un sincero rapporto con Regine, ma su un'altra base. Pieno di cura, annota nel suo diario ogni incontro con lei, narra di come non potesse evitarla per le strade della piccola Copenaghen o in chiesa. Riflette di continuo annotando ogni sguardo, ogni sorriso di lei, e se si è fermata davanti a lui, ecc. Non osa parlarle. Apprende da un giornale che lei si è fidanzata con un altro. A questo punto la disperazione di Kierkegaard è grandissima; nel diario accusa perfino l'ex fidanzata di infedeltà. Tuttavia, nemmeno ora rinuncia alla speranza. Fino alla morte il rapporto con Regine costituisce, nei diari e negli scritti, uno dei temi principali delle sue angosciose riflessioni.
Che cosa impedisce a Kierkegaard quella radicale lealtà che egli pretende da sé per contrarre un matrimonio? A prima vista una colpa veramente insignificante: una volta ha visitato una casa di appuntamenti, a dire il vero senza contatti intimi con le signore del posto, che si sono limitate a prenderlo ín giro. Questa mancanza è per Kierkegaard il segno di qualcosa di più profondo: ossia, che lui e la sua intera famiglia sono segnati da una dolorosa fatalità. Pare che si debba risalire al padre, reo anche lui di una colpa sessuale di cui si è fatto scrupolo per tutta la vita, benché egli avesse poi sposato la ragazza compromessa, che sarà la madre di Kierkegaard. Ma c'è dell'altro: il padre confessa, in un momento di ubriachezza, che in giovinezza ha bestemmiato Dio. Kierkegaard descrive così il fatto nel diario: "che cosa terribile: quell'uomo che una volta da bambino, badando alle pecore nella landa dí Jylland, e soffrendo molto per la fame e per il freddo, salì su una collina e maledisse Dio – e a ottantadue anni non era capace di dimenticarlo". Kierkegaard è persuaso che da questo evento in poi pesi sull'intera famiglia, e dunque anche su di lui, una maledizione senza appello.
Che Kierkegaard prenda terribilmente sul serio episodi del genere deriva dal fatto che la componente fondamentale del suo carattere è la malinconia. "Io sono un uomo che fin da bambino è caduto nella più sconsolante malinconia. L'intera esistenza mi angustia, dal più piccolo insetto fino ai segreti dell'incarnazione; tutto mi è inspiegabile, soprattutto me stesso". Questo sentimento deriva da un insolito grado di egocentrismo; Kierkergaard cerca di continuo di sondare dove mai possa nascondersi quel senso nell'incomprensibilità della propria esistenza. Ma cela questa malinconia interpretando la parte del dandy scanzonato. Si veste in modo stravagante, frequenta assiduamente caffè e teatri, vagabonda per le strade di Copenaghen, si reca spesso a Tivoli, il parco giochi della città, compone un testo, in cui un capitolo si intitola il Diario di un seduttore, e scrive: "vengo proprio ora da una società di cui ero l'anima, i motti di spirito fluivano dalla mia bocca, tutti ridevano e mi ammiravano – ma io, sì, il trattino dovrebbe essere tanto lungo quanto i raggi della terra – - – me ne sono andato e volevo spararmi".
Kierkegaard riesce a trovare una via d'uscita dalla sua malinconia nella produzione poetica, filosofica e teologica. I pensieri gli fluiscono senza posa e pretendono di esser messi su carta. Redige una serie di scritti, nei quali elabora e oggettiva la sua problematica personale al punto che possono essere considerati capitoli di un'autobiografia: Aut-Aut, Stadi lungo il cammino della vita, Briciole di filosofia, o ancora Il concetto dell'angoscia, Timore e tremore, La malattia mortale, Esercizio del cristianesimo.
Il fatto che Kierkegaard non risparmi alcuna polemica nei suoi scritti gli attira molta ostilità. Il senso comune dei contemporanei viene attaccato e questi reagiscono a loro modo, diffamandolo. In un noto foglio satirico cittadino Kierkegaard appare più volte ritratto in maligne caricature: l'abbigliamento stravagante, le gambe magre nei suoi pantaloni dalla lunghezza diseguale (il che si giustifica con una distorsione della spina dorsale) e persino mentre cavalca sulle spalle della sua ragazza. Søren ne è profondamente amareggiato, e però ritiene che essere preso in giro sia il necessario destino di chi ha qualcosa di particolare da dire al proprio tempo; quindi accetta il ruolo di "martire della derisione".
Ma ancor più dure diventano le critiche appena Kierkegaard, nel corso delle sue riflessioni, arriva a meditare sulla vera essenza dell'esistenza cristiana, lasciandosi trasportare in questo modo in un aspro scontro con la chiesa ufficiale, da lui accusata di tradimento del cristianesimo. In una serie di volantini particolarmente aggressivi dichiara guerra alla chiesa e soprattutto al suo vescovo. Muore nel 1855, a 42 anni.
Da un terreno arato dalla malinconia e dalla meditazione solitaria germoglia la parola essenziale di Kierkegaard. Chi, come lui, si è profondamente interrogato su se stesso, anche quando fa filosofia, rivolge il proprio interesse all'uomo. E questo non nel senso di un'antropologia scientifica, che potrebbe lasciare indifferente colui che domanda, bensì in modo tale che chi filosofa è posto a sua volta in gioco nel suo domandare. "Infatti, ogni conoscenza essenziale riguarda l'esistenza". Kierkegaard si rivela così, nel suo interrogarsi sull'uomo, il primo esistenzialista. È per questo che è destinato a esercitare la sua maggiore influenza proprio nell'epoca in cui l'uomo diventa un enigma per se stesso, ossia nel nostro secolo: nella teologia come nella filosofia, basti pensare in un caso a Barth e Bultmann, e nell'altro a Jaspers e Heidegger.
Il concentrarsi sulla questione dell'uomo ha conseguenze significative per la concezione fondamentale di Kierkegaard. Da essa origina il motto spesso citato e altrettanto frainteso: "la soggettività è verità". Con ciò non si intende dire che tutto sia meramente soggettivo e relativo all'uomo, che cioè non esista alcuna verità oggettiva. Kierkegaard respinge un'interpretazione del genere, che altro non è che banale relativismo. Quando ripete continuamente che la soggettività è verità, intende che il poter qualcosa diventare verità dipende da come l'uomo riesce, con piena passione, ad afferrarla come sua personale verità. Possedere una verità non ha alcun senso, se questa non tocca e non trasforma l'esistenza.
A questo punto prende forma la critica di Kierkegaard al suo grande nemico, Hegèl. Questi avrebbe sì tentato, nel suo grandioso sistema, di comprendere l'intera realtà, la natura come la storia; ma nel far ciò avrebbe dimenticato l'uomo nella necessità dell'esistenza. Tuttavia, una visione generale così comprensiva non serve affatto all'uomo finché questi non riforma l'esistenza. La verità è vitale soltanto per chi se ne appropria con decisione e la realizza nella concreta esistenza. Kierkegaard applica questo punto di vista anche a se stesso: "è necessario trovare una verità, la verità per me può essere trovare l'idea per la quale io voglio vivere e morire".
Ma che cos'è l'esistenza umana che Kierkegaard indaga così appassionatamente? Come "esistenzialista" può pervenire al concetto di uomo solo a partire dall'esperienza personale. Questa, però, è per lui l'esperienza dell'estraneazione dal mondo e da se stesso, dell'interiore lacerazione, dell'angoscia abissale, della disperazione. Kierkegaard non l'intende soltanto come destino personale, ma anche, e principalmente, come la situazione fondamentale dell'uomo. L'uomo vive in una irrimediabile condizione di "angoscia e disperazione", intesa come "malattia mortale". Bisogna fronteggiarla in piena integrità.
Ma nell'angoscia – questa è la grande scoperta di Kierkegaard – l'uomo fa esperienza della possibilità della libertà come propria essenza. L'angoscia, infatti, risolve la realtà in uno scontro di possibilità minacciose, di fronte alle quali l'uomo deve decidersi. Perciò egli scopre nell'angoscia di non essere determinato una volta per tutte; il suo essere è un poter essere. "Il mostruoso che è accordato all'uomo è la decisione, la libertà".
Da questa concezione della libertà umana Kierkegaard sviluppa la sua significativa dottrina delle possibilità dell'esistenza, degli "stadi lungo il cammino della vita". L'uomo si trova nel primo, lo "stadio estetico", allorché si accontenta di avere un gran numero di possibilità, senza farne alcun uso effettivo. Si affida soltanto alla contemplazione e al godimento, non all'azione, e perciò non alla responsabilità. Si consuma in un non impegnativo fare esperienza delle possibilità, alla caccia di ciò che è interessante e divertente. Ma chi vive in questo modo puramente estetico cade nel vuoto dell'esistenza e non vive in senso autentico.
Perciò Kierkegaard afferma che lo stadio estetico non può essere per l'uomo l'ultima delle possibilità esistenziali. In verità, esistere significa piuttosto scegliere tra le possibilità, insomma accoglierne una e respingerne un'altra. La libertà dell'uomo si compie, dunque, come decisione, perché soltanto chi ha il coraggio di decidere arriva alla realtà e guadagna un posto nell'esistenza. Scelta e decisione sono così le categorie essenziali entro la cui ottica Kierkegaard osserva l'uomo. Caratterizzano il secondo stadio, lo "stadio etico". Non appena l'uomo entra in esso e decide realmente, giunge davvero a se stesso e individua quel compito che può diventare il suo compito.
Ma non abbiamo ancora toccato il nucleo più profondo del pensiero di Kierkegaard. Anche il tentativo di assumersi eticamente la responsabilità della propria vita finisce nella disperazione; l'uomo scopre alla fine di non poter divenire realmente se stesso a partire da sé. Questa impotenza è il segno più profondo della sua finitezza. Chi, come Kierkegaard, riflette senza posa sull'enigma dell'esistenza, arriva inesorabilmente alla comprensione che l'essere dell'uomo in se stesso è niente. Al di là della disperazione estrema l'uomo può trovare una via d'uscita soltanto se gli si apre – senza íl suo intervento – una nuova possibilità. Qui apprende di non essere semplice finitezza, bensì una singolare trama, tessuta di finitezza e infinità. Il finito nella sua essenza è ciò che lo getta nel vortice dell'esistenza terrena e che lì lo inchioda. L'altro aspetto della sua essenza, al contrario, gli rende possibile comunicare con un mondo diverso in una infinita nostalgia. Solo da qui l'uomo ottiene consolazione nell'inquietudine causata dalla disperazione, ma consegue anche le giuste disposizioni per il suo realizzarsi, il suo agire, il suo decidere. Per l'uomo si tratta soprattutto di non dimenticare l'infinità che si cela nelle pieghe della sua esistenza. Chi ne è consapevole entra nel terzo stadio, quello "religioso".
Così si esprime Kierkegaard filosofo. Kierkegaard teologo dice la stessa cosa ma in modo più diretto: l'uomo è soggetto all'assoluta istanza di Dio. Ciò procura alle scelte e alle decisioni la loro autentica incisività: esse sono scelte e decisioni davanti a Dio. Kierkegaard può affermare: "dipende dal fatto che uno osi essere totalmente se stesso, un singolo uomo, questo determinato singolo uomo; solo davanti a Dio, solo con questa immensa fatica e questa immane responsabilità".
Questa posizione che Kierkegaard raggiunge nelle sue infinite pene spirituali e psicologiche gli permette di trovare infine consolazione rispetto a tutte le contraddizioni che provengono dalla sua tempra di melanconico. Scopre che inerisce all'essenza di una malinconia così profonda qual è la sua il non poter essere eliminata nell'ambito del finito, anche e soprattutto nei rapporti con il resto dell'umanità. Solo se essa si fonda nell'infinito giunge alla quiete. Anche in questo caso, però, non scompare. Kierkegaard sa che essere malinconico è un destino perpetuo. Ma il fondamento nell'eterno gli dà la forza di sopportare la sua malinconia. E quando egli getta uno sguardo retrospettivo sulla sua vita, diviene consapevole che è stata tale melanconia a offrirgli la possibilità di conseguire l'eterno nella passione del cuore. "La mia vita è cominciata con una spaventosa malinconia. Già nella prima infanzia la vita era sconvolta fin nel profondo. Non osavo credere che questa miseria fondamentale del mio essere potesse venir superata. Eppure, colsi l'eterno, felicemente rassicurato che Dio è amore, anche se per tutta la mia vita avevo sofferto tanto".
In tale esigenza di una fondazione assoluta dell'uomo nell'eterno Kierkegaard è estraneo al proprio tempo, l'Ottocento della fede nel progresso del genere umano, ovvero nella "ragione storica", come Hegel la annuncia. Poiché vede più profondamente della maggioranza dei propri contemporanei, Kierkegaard è spinto a una spietata critica del presente, a cui dà voce nelle irate notazioni del Diario e nelle appassionate invettive degli altri scritti. "L'Europa tutta sembra andare incontro a una totale bancarotta"; "il tempo presente è il tempo della disperazione". "C'è un uccello che si chiama caradrio che vive nel fango, e questo sono io; se nella generazione presente si annuncia una tempesta, allora appaiono individui come me".
Kierkegaard rimprovera al suo tempo, soprattutto, di essere un'epoca senza vera passione, senza entusiasmo per la verità. Ogni dato immediato è caduto sotto il dominio dell'intelletto, ogni risolutezza rimane soffocata in una infinita riflessione. Kierkegaard individua il pericolo con estrema precisione in quanto ha sperimentato su di sé le conseguenze di un eccesso di riflessione, fino all'autodistruzione. E vede oltre: il primato dell'intelletto rende ambigua l'esistenza umana. Infatti, sembra che si agisca o che accada qualcosa, mentre in realtà, nel migliore dei casi, si è soltanto ragionato sul fare, sull'accadere. "Ovunque intelletto: al posto di un innamoramento incondizionato – un matrimonio di convenienza; al posto di un'obbedienza incondizionata – obbedienza fondata sul ragionamento; al posto del rischio – probabilità, calcolo astuto; al posto dell'azione – avvenimento".
La ricerca di una continua riflessione, che ostacola ambiguamente l'agire, porta l'uomo, secondo Kierkegaard a un pericolo mortale. Se nessuno decide più nulla e non perviene a se stesso nella scelta, allora nessuno più si distingue dall'altro in senso profondo; si fa strada un desolato livellamento. La comunità degli uomini diventa "pubblico", anonima e inafferrabile "pubblicità". La sua caratteristica è la "chiacchiera"; ogni discorso responsabile decade a "diceria". "Nessuno decide più da solo; ci si accontenta di costituire comitati su comitati; andrà a finire che l'intera epoca diventerà un comitato". "Ma la moltitudine è falsità".
Se le cose stanno così, allora è importante per l'uomo non essere parte anonima di un tutto, bensì essere se stesso per se stesso. Kíerkegaard non si stanca di esortare i suoi contemporanei affinché ognuno diventi un singolo individuo, che si preoccupa infinitamente della sua singola esistenza e sta in quanto individuo davanti a Dio. "Alla categoria del singolo è legato il mio possibile significato. Io ho riconosciuto quale mio compito quello di riportare l'attenzione su di essa". Ma questo compito è un duro peso, e tuttavia, laddove venga realmente assunto, è un evento immane. "Chi abbia imparato che non c'è nulla di tanto spaventoso quanto esistere come singolo, non temerà di dire che questa è anche la cosa più alta".
Con l'esigenza di divenire autenticamente individuo Kierkegaard si volge in modo particolare contro il cristianesimo della propria epoca, che si è sempre più trasformato in un affare per la moltitudine. La comune opinione per cui basterebbe essere battezzato per dichiararsi senz'altro cristiano trasforma la serietà del cristianesimo in un gioco spensierato. Per Kierkegaard dalla comprensione di ciò emerge il compito urgente di mettere il vero cristianesimo davanti agli occhi dello pseudocristiano. Esser cristiano non riguarda la massa, ma i singoli, che con passione assoluta si preoccupano della loro beatitudine eterna. Essi abbracciano la fede, che non è qualcosa di evidente, ma un rischio che si fonda sul paradosso che l'eterno è diventato temporale. La fede può perciò essere raggiunta solo nel "salto", che lascia dietro di sé ogni comprensione naturale. "Credere significa perdere la ragione per guadagnare Dio". Forte di questa convinzione Kierkegaard, il singolo, attacca implacabilmente la chiesa di stato del suo paese. È necessario "con un passo per così dire disperato mettere la miccia al cristianesimo esistente".
Per questa via Kierkegaard giunge alla più profonda interpretazione del senso della propria malinconica esistenza. Arriva a comprendere che Dio ha avuto bisogno proprio di un uomo così malinconico e isolato per annunciare di nuovo il rigore del messaggio cristiano nell'epoca di un cristianesimo secolarizzato. "Io sono la spia al servizio dell'Altissimo". "Io devo spiare come 'esistere' faccia rima con conoscere e 'cristianità' con cristianesimo". "La mia vita è un grande dolore, sconosciuto agli altri e incomprensibile; tutto pareva fosse orgoglio e vanità, ma non lo era. Avevo la mia spina nel cuore, perciò non mi sposai e non potei ricoprire alcuna carica. Invece di queste sistemazioni divenni l'eccezione. Il giorno se ne andava nel lavoro e nell'impegno, e alla sera venivo messo da parte; questa era l'eccezione". Ma riafferma: "è certo una fortuna per me esser stato così malinconico".

(La filosofia dalla scala di servizio. I grandi filosofi tra pensiero e vita quotidiana, Raffaello Cortina 1996, pp. 260-268)