L'innamorato
dell'Assoluto
La filosofia di Friedrich Schelling
Wilhelm Weischedel
Quando, il 20 agosto 1854, Friedrich Wilhelm Joseph Schelling muore quasi ottantenne, il re suo amico, Massimiliano di Baviera, fa incidere sulla sua pietra tombale le seguenti parole: "Al più grande pensatore della Germania". Ma quattro anni prima il suo più furibondo oppositore, Arthur Schopenhauer, aveva scritto che Schelling non poteva "essere ammesso nell'onorata comunità di coloro che pensano per il genere umano". Tale è il livello di contraddizione con cui i contemporanei si esprimono riguardo a questo filosofo, e simili contrasti di giudizio lo accompagnano per tutta la sua esistenza. Pochi pensatori sono stati contestati e combattuti al pari di Schelling, che è onorato o respinto con lo stesso ardore, amato o odiato nello stesso tempo.
Schopenhauer definisce il pensiero di Schelling una " pseudofilosofia", uno "sconsiderato parlare a vanvera", un "arrogante raccontar fanfaronate dietro una falsa parvenza di eleganza". Molti contemporanei concordano con questo tono di disprezzo. Ludwig Feuerbach parla di una "filosofia della cattiva coscienza", di una "farsa teosofica del Cagliostro filosofico del XIX secolo". Un altro avversario qualifica la filosofia di Schelling come una vera e propria "farsa rappresentata [...] nel vuoto assoluto".
Altri esprimono un giudizio ben diverso. Per Alexander von Humboldt, il celebre naturalista, Schelling è "l'uomo più geniale della patria tedesca". Il re di Prussia lo invita all'Università di Berlino "come filosofo predestinato da Dio e professore proclamato dalla sua epoca". Goethe ne loda l'"eccezionale talento, che noi conosciamo e ammiriamo da tempo". Sempre Goethe conia la bella frase secondo cui, nel pensiero di Schelling, "la grande chiarezza sempre si allieta di una grande profondità". Se gli avversari, trascinati dall'odio, paragonano Schelling a Giuda o addirittura a Lucifero, anche l'ammirazione va oltre ogni ragionevole misura e c'è chi vede in lui un secondo Cristo.
Se un pensatore è discusso quanto Schelling, possiamo supporre che anche la sua personalità presenti tensioni ben lontane da quell'idea di temperamento equilibrato che comunemente viene attribuita ai filosofi. Di fatto, la natura di Schelling presenta non poche contraddizioni.
Innanzitutto, riscontriamo in lui l'audacia con cui egli si oppone alle forze intellettuali dell'epoca. Questa audacia, che spesso prorompe in un'aspra polemica contro i nemici della sua persona e della sua causa, lo rende al contempo capace di penetrare in regioni fino ad allora sconosciute del pensiero. Non appena si è liberato dai vincoli di una teologia ormai irrigiditasi, deridendo al contempo i cattedratici di Tubinga come "mezzi uomini filosofici", e ha colto il tratto rivoluzionario delle idee di Kant e di Fichte, si getta con passione nel dibattito filosofico e sforna, appena ventenne, un progetto filosofico dopo l'altro, tanto è sicuro della sua materia. Scrive all'amico Hegel: "Tutto dipende dal fatto che i giovani, decisi a osare e a intraprendere ogni cosa, si uniscano per lavorare alla stessa opera da punti di vista differenti [...], e la vittoria è assicurata". Dello Schelling maturo abbiamo una testimonianza di Steffens, uno dei suoi più importanti allievi, che lo presenta così: "egli sta coraggioso e minaccioso di fronte all'intero esercito di un'epoca fattasi impotente". Ma è certamente Carolina, amica e più tardi moglie di Schelling, ad aver compreso meglio il tratto energico e violento della sua indole: egli è "un'autentica natura originaria; se considerato come minerale è puro granito".
Eppure, a questo potente slancio a incidere sul mondo esterno si oppone la forte esigenza di una vita ritirata, che si accresce con il passare degli anni. Soprattutto, la morte dell'amata moglie risospinge Schelling alla propria interiorità. "Ora lei è libera", scrive, "e io con lei: l'ultima catena che mi teneva legato a questo mondo è spezzata". Poco tempo dopo, a trentasei anni, confessa: "Sempre più desidero una vita ritirata; se dipendesse da me, il mio nome non dovrebbe più venir nominato, anche se io al contempo non smetterei mai di agire per ciò di cui sono vivamente convinto". Agli anni dei continui e incalzanti progetti filosofici tengono dietro quelli del silenzio. A stento sale ancora in cattedra, e pubblica esigue testimonianze della sua riflessione. Infine, un paio d'anni prima della sua morte, scrive: "La verità [...] è questa, che io [...] di anno in anno, di giorno in giorno, sempre più separato da questo mondo mi sento felice solo nel mio lavoro [...], poiché in esso si raccoglie tutta la mia vita e, nella misura in cui essa si avvicina al compimento, sorge il presentimento dell'imminente pace eterna".
La tensione fra la spinta verso l'esterno e il volgersi alla propria interiorità regola anche i rapporti di Schelling con il prossimo. Nel seminario protestante di Tubinga il giovane studente si lega in stretta amicizia con una cerchia di persone, tra le quali spiccano Hegel e Wilderlin. In seguito, a Jena e a Dresda frequenta poeti e scrittori romantici come i fratelli Schlegel, Tieck e Novalis, condividendone i sentimenti e gli entusiasmi per il nuovo fermento che caratterizza il campo dello spirito. Il fascino che il suo eloquio esercita sugli uditori è confermato da molti testimoni. Steffens, riferendosi al modo in cui Schelling tiene le sue lezioni, scrive: "nei suoi grandi e luminosi occhi si leggeva una superiore potenza spirituale". Il poeta Platen riferisce che talvolta dopo le parole di Schelling regnava un "silenzio mortale", "come se l'intero auditorio trattenesse il respiro".
Tuttavia, a questo spontaneo aprirsi a chi gli sta intorno, si oppone una tendenza melanconica alla riservatezza. Schelling in società è spesso cupo e impacciato; talvolta siede appartato in silenzio, mentre gli amici conversano gioiosamente. Schiller si rammarica di riuscire soltanto a giocare a carte con lui invece che dialogare sull'essenziale. Anzi, Schelling di tanto ín tanto sprofonda così disperatamente nella tristezza da far trasparire propositi suicidi, al punto che Carolina non trova altro rimedio che quello di scongiurare Goethe di occuparsi di lui. Inoltre, l'affetto per gli amici può all'improvviso tramutarsi in brusco rifiuto; l'esempio più impressionante è offerto dalla precoce amicizia con Hegel che si traduce in amara inimicizia. Schelling finisce così per estraniarsi dal suo mondo al punto che un contemporaneo può scrivere: "egli ci invia le parole solenni di un anacoreta, piene di saggia profondità, ma prive di presente, di reminiscenza e di commozione".
Tutte queste oscillazioni e contraddizioni della vita e dell'esperienza costituiscono il tributo che Schelling uomo deve a Schellíng pensatore. Infatti, proprio dal dissidio dell'anima gli derivano forza e profondità di comprensione. Soltanto se si espone alle incertezze dell'esistenza, egli può adempiere al suò compito filosofico: essere il pensatore dell'assoluto, che oltre l'amore per l'assoluto prende su di sé la lacerazione della vita.
Infatti, per Schelling fin dall'inizio la posta in gioco è l'assoluto. Dapprima egli segue Fichte a cui, come appunto al giovane Schelling, importa soprattutto di elevare l'io umano a supremo principio della filosofia; l'Io è l'unica vera realtà, esso in definitiva riposa nella propria libertà; è, come Schelling afferma in accordo con Fichte, "l'Io assoluto". Ogni altra realtà esiste invece solo nella rappresentazione di questi Io.
Tuttavia, al pensiero di Schelling, così appassionatamente dedito all'assoluto, questo punto di vista non è sufficiente. Proprio all'interno dell'io umano e finito, che deve costituire l'assoluto punto di partenza di ogni filosofare, Schelling scopre un momento che non è più semplicemente umano e finito; lo chiama "l'eterno in noi".
L'uomo incontra questo fondamento assoluto nell'Io, quando penetra con lo sguardo in se stesso. Può farlo perché, oltre alle sue consuete possibilità spirituali e psichiche, gli appartiene una particolare facoltà: l'"intuizione intellettuale". "In tutti noi abita una segreta e meravigliosa capacità di tornare, a fronte dell'oscillazione del tempo, al nostro io più interiore, spogliato di tutto ciò che sopraggiunge dall'esterno, e qui contemplare l'eterno in noi nella forma dell'immutabilità".
Questa intuizione intellettuale consente all'uomo di scoprire – almeno così pensa Schelling – che ciò che gli viene incontro quando spinge lo sguardo fin nel fondamento del proprio essere, lo supera: è l'assoluto, ossia il divino. Infatti, ciò che così si mostra non è soltanto il fondamento dell'io umano, bensì, al tempo stesso, il fondamento di ogni altra realtà. Chi voglia comprendere il reale nella sua totalità, secondo il compito fondamentale della filosofia, deve risalire al fondamento assoluto della stessa realtà. Schelling esige che la filosofia abbandoni í punti di vista del finito e si elevi al punto di vista dell'assoluto. Chi filosofa, pur essendo un uomo finito, deve considerare tutto secondo il punto di vista di Dio. Ecco il compito, davvero titanico, che il giovane Schelling si assegna!
Nel volgersi all'assoluto Schelling si colloca nel mezzo di quel movimento che ha afferrato gli spiriti più acuti del tempo. Ovunque sí desta la nostalgia dell'infinito. Ovunque si rinnova l'antico pensiero che, da ultimo, Spinoza ha pensato: tutto ciò che è separato è uno nel fondamento; ogni realtà scaturisce da un'unica inesauribile origine; e, come dice Schelling, "non esiste alcuna realtà né in noi né fuori di noí se non il divino". Un divino che però non si identifica con il Dio annunciato dalla dottrina cristiana, non è il creatore cui il mondo sta di fronte come qualcosa di estraneo. È piuttosto la vita infinita che agisce in tutto ciò che esiste, essendone l'intimo principio.
In questa prospettiva viene visto sotto una nuova luce soprattutto il problema della natura. Anche Fichte l'aveva considerata, come ogni realtà, significativa solo in relazione all'uomo; la natura era per lui il luogo in cui l'uomo poteva realizzare il proprio compito morale. Ma questo per Schelling sarebbe "un vero e proprio assassinio della natura". Intanto, nella generazione di poeti e filosofi che sta ora emergendo sulla scena intellettuale, si fa strada un nuovo sentimento della natura, stimolato da Herder e da Goethe. Si vuole cogliere la natura nella vitalità che le è propria, e non soltanto nel suo valore per l'uomo; al contempo si vuole comprendere come in essa operi la forza creatrice della divinità.
Anche Schelling considera la natura da questo punto di vista. Sviluppa una filosofia della natura che oppone al disprezzo fichtiano. In cíò consiste il risultato più significativo del giovane Schelling. La sua filosofia della natura si differenzia però in modo essenziale da ciò che potremmo intendere oggi con la stessa locuzione. Non si tratta, infatti, di interpretare i concetti e i metodi dell'indagine della natura o di portare a sintesi i risultati delle scienze della natura; Schelling intende piuttosto interpretare la natura come un unico organismo, dove tutto è vivo: anche ciò che è morto è sotto questo aspetto solo vita dissolta. L'interiore vitalità della natura emerge soprattutto nelle polarità, da cui essa è ovunque costituita: nel mondo inorganico come opposizione tra magnetismo ed elettricità, nell'ambito della vita organica come opposizione del maschile e del femminile, nella totalità della natura come opposizione tra pesantezza e luce. In tali polarità la natura si realizza, passando di prodotto in prodotto, in un grande divenire vitale.
Al termine della filosofia della natura emerge il problema di quale sia il culmine di questo incessante divenire. Schelling risponde: è lo spirito. Il più alto prodotto della natura è infatti lo spirito umano. Sotto questo aspetto la natura può definirsi, con uno sguardo retrospettivo, come spirito che diviene, come "l'originario, ancora inconsapevole, poema dello spirito". Ma lo spirito supera poi la natura e nel far questo porta a compimento ciò che in essa si fonda.
La realtà, come Schelling la rappresenta, abbraccia due stadi che trapassano l'uno nell'altro: lo stadio inconscio della natura e lo stadio conscio dello spirito umano. In questo secondo ambito Schelling ritrova le stesse leggi che operano nella natura. Anche l'esistenza spirituale si compie tra tensioni e polarità, si realizza negli opposti e nella conciliazione degli opposti. Interpretare una tale realtà è il compito della filosofia dello spirito, che si aggiunge, completandola, alla filosofia della natura. Entrambi però, natura e spirito, vanno concepiti come un processo unitario. Tutti i fenomeni della natura come quelli dello spirito sono "membri di un grande organismo, che dall'abisso della natura, in cui ha le sue radici, si eleva fino al mondo dello spirito".
Decisivo è per Schelling il fatto che entrambi, natura e spirito, vadano considerati dal punto di vista assoluto: sotto l'aspetto per cui in essi agisce la divinità creatrice. Innanzitutto, ciò vale relativamente alla natura; in ogni accadimento naturale è attiva la divinità. Perciò per Schelling ogni essere naturale – un albero, un animale, persino un pezzo di minerale –non è soltanto una cosa osservabile del mondo esterno, ma anche l'espressione della vita divina che opera in essa. La natura è "il Dio nascosto".
Eppure, la natura non è la vera rivelazione di Dio. Soltanto la ragione è "la perfetta immagine speculare di Dio". Perciò l'ambito dello spirito e della sua storia si contraddistingue in riferimento alla presenza di Dio nella realtà. "La storia nella sua totalità è una progressiva rivelazione dell'assoluto, che si svela gradualmente"; è "un epos poetato nello spirito di Dio".
Attraverso le tappe della natura e dello spirito giunge a compiersi il processo della realizzazione di Dio. La meta ultima di tale processo è per Schelling l'arte. La filosofia dell'arte schellinghiana è forse la più originale e più specifica creazione del suo spirito. Anche l'arte va considerata dal punto di vista della divinità che diviene. Essa è "un fenomeno necessario, sgorgante direttamente dall'assoluto", anzi "l'unica ed eterna rivelazione" della divinità. Supera le altre due manifestazioni del divino nel mondo, dal momento che le loro linee distinte confluiscono nell'arte. L'opera d'arte è la più sublime espressione della libertà umana; pertanto è la cosa più alta nel mondo dello spirito. Essa però possiede nello stesso tempo una figura materiale; pertanto prende parte alla necessità della natura. Nell'opera d'arte quindi natura e spirito, necessità e libertà giungono a conciliarsi. Nell'arte la divinità ritorna alla sua unità dopo aver percorso strade separate. "Appunto per questo l'arte è per il filosofo quanto vi è di più alto, perché essa gli apre quasi il santuario, dove in eterna e originaria unione arde come in una fiamma quello che nella natura e nella storia è separato".
Se tutto il reale viene interpretato come autorivelazione di Dio, sorge inevitabile la domanda come si debba pensare Dio. Di fatto, la riflessione di Schelling è continuamente rivolta in questa direzione; la sua ricerca si indirizza agli enigmi dell'assoluto. Inizialmente vuole comprenderlo come un essere spirituale, come l'Io assoluto. Ma l'indagine filosofica ha mostrato a Schelling che la divinità non si pone soltanto nel regno dello spirito ma anche nell'ambito della natura. La determinazione di Dio come un Io, un soggetto, non è più sufficiente. Dio dev'essere piuttosto pensato come l'unità profonda che supera il contrasto fra natura e spirito, fra Io e non-Io, fra soggetto e oggetto. Questo intende Schelling quando lo definisce come totale indifferenza o identità assoluta. Dio è il momento dell'unità in cui tutte le opposizioni della realtà trovano la loro origine e la loro meta comune.
Ma Hegel, l'amico di un tempo, si fa beffe di questa concezione definendo l'indifferente assoluto di Schelling "la notte in cui tutte le vacche sono nere". Di fatto un pensiero in cui "Dio e l'universo sono uno" minaccia di dissolvere l'esistenza autonoma del mondo finito. Se tutto esiste solo nella misura in cui ha il suo essere in un unico e indifferente assoluto, allora ogni differenza delle cose impallidisce, ed esse si trasformano in mera apparenza.
Eppure, noi facciamo esperienza delle cose come reali. Anzi, la loro realtà è di un genere tale per cui sembra incerto che esse possano davvero derivare da Dio. Anche nella natura si riscontra, come Schelling sottolinea, "l'irrazionale e il caso"; assistiamo alle "disordinate nascite del caos"; sussiste un'intima autolacerazione della natura". Nell'ambito del vivente regnano oscura brama e avidità, come se "la divinità dominasse sopra un mondo di orrori". Anche nell'uomo si ritrova, accanto alla chiarezza del suo spirito, un impulso irrazionale. L'esistenza umana è "una vita caratterizzata da avversità e da paure". La stessa libertà, questo sublime segno della natura più alta dell'uomo, deriva dall'irrazionale. "Ogni soggetto riposa su un oscuro fondamento". Anzi l'uomo, proprio nella sua libertà, può volgersi persino contro l'origine, nel temerario tentativo di far di sé il fondamento. Ne deriva che il mondo della storia presenta "uno spettacolo così sconsolato tanto che io dubito affatto dell'esistenza di un fine e perciò di un autentico fondamento del mondo". Riassumendo, scrive Schelling: "il destino del mondo e dell'umanità è per natura tragico"; l'aspetto ultimo della realtà mostra l'"infelicità di tutto l'essere".
Schellíng non trae la conseguenza che una realtà così incerta non possa fondarsi in Dio. Al contrario, ritiene ora che anche questa componente riluttante del reale debba essere compresa a partire da Dio. Ma ciò è possibile solo a patto che l'idea di Dio venga considerata sotto una nuova luce. Se da Dio devono derivare anche quelle cose ed eventi che sembrano opporsi all'inserimento nell'assoluto, ne viene che essi sono originariamente radicati in lui; perciò è necessario "porre in Dio qualcosa di negativo". Ferma restando la sua unità, Dio dev'essere concepito come opposto in se stesso. Il ripensamento del concetto di Dío porta così ad ammettere che egli sia originariamente scisso in due: in un fondamento oscuro – per così dire la natura in Dio – e nello spirito divino consapevole.
A partire da questi due momenti originari comincia a dispiegarsi il divenire di Dio. Schelling tenta di dimostrare con oscure speculazioni come il divino spontaneamente sviluppi il mondo come sua rappresentazione esteriore. Riprendendo gli insegnamenti del grande mistico slesiano Jakob 13iihme, Schelling vuole mostrare come in Dio, per l'imperscrutabilità della sua libertà, il fondamento oscuro inteso come impulso si isoli dalla sua relazione con lo spirito e quindi fuoriesca dall'indivisa essenza di Dio. Schelling chiama questo processo "il calvario" di Dio lungo il quale "prova tutti gli orrori della sua stessa essenza". Ma proprio questo cammino di Dio è l'inizio del suo farsi mondo. L'impulso di sottrarsi all'unità di Dio ponendo sé, costituisce ciò che appare ai nostri occhi: la natura.
Ma in Dio stesso, tuttavia, è presente la tendenza a tornare di nuovo dalla condizione di autoalienazione all'unità con se stesso. Tale principio del ritorno si incarna nell'uomo: "in lui si trova il più profondo abisso e il cielo più alto". Nel suo impulso verso la libertà l'uomo raggiunge l'estrema possibilità di distaccarsi da Dio, ma nello stesso tempo, essendo spirito, può in forza della sua libertà rivolgersi di nuovo allo spirito divino. Nell'uomo ha inizio il ritorno all'origine e il riscatto della caduta divina e si realizza così la riconciliazione tra impulso e spirito in Dio. Attraverso questo processo anche il mondo finito viene nuovamente riaccolto nell'infinito. Considerandone le varie tappe Schelling afferma: "La grande meta dell'universo e della storia non è nient'altro che la completa conciliazione e risoluzione nell'assoluto". Ma questo processo, inteso dal punto di vista dí Dio, costituisce l'immenso evento in cui Dio giunge alla piena coscienza di sé; è il "processo del perfetto divenir consapevole, della perfetta personalizzazione di Dio".
Negli ultimi decenni di vita Schelling si immerge sempre più nel mistero di Dio e del mondo; sempre più vuole penetrare l'intima realtà delle cose; con sempre maggiore insistenza vuole, al contempo, comprendere il reale come autorivelazione di Dio, come effetto del suo agire libero e incomprensibile. Ma Schelling non riesce più a pubblicare i suoi progetti di grande respiro; le sue parole rimangono ormai quasi senza eco nei suoi contemporanei.
Il completo calarsi del pensiero in Dio inteso come profondità del mondo determina il pensiero di Schelling fino alla morte. Così egli esprime quanta rinuncia implica l'amore appassionato per l'assoluto: "è giunto al fondo di se stesso e ha conosciuto l'intera profondità della vita soltanto colui che abbia una volta abbandonato tutto e sia stato abbandonato da tutto, colui che assistette al finire di tutto e si vide solo davanti all'infinito: un grande passo, che Platone paragonò alla morte. Quel che Dante fece scrivere sulla porta dell'Inferno, deve essere scritto in un altro senso anche davanti all'ingresso della filosofia: lasciate ogni speranza, voi ch'entrate. Chi vuole veramente filosofare, dev'essere libero da ogni speranza, ogni desiderio, ogni nostalgia, non deve volere o sapere nulla, ma sentirsi semplice e povero, rinunciare a tutto per guadagnare tutto. È difficile questo passo, difficile come separarsi ancora dall'ultima riva".
(La filosofia dalla scala di servizio. I grandi filosofi tra pensiero e vita quotidiana, Raffaello Cortina 1996, pp. 224-234)