La fecondità

del naufragio

La filosofia di Karl Jaspers

Wilhelm Weischedel


Quando qualcuno, che non apparteneva alla ristretta cerchia degli amici fidati, veniva ammesso alla presenza di Karl Jaspers, lo trovava seduto su di una poltrona rialzata, come un principe che dall'alto del trono si volge benevolo al suddito. In questo atteggiamento egli istruiva chi gli stava davanti su Dio, sull'uomo e sul mondo, con un'aria un po' accondiscendente e non senza gentilezza d'animo, mantenendosi tuttavia a una certa distanza. Jaspers ascoltava cortesemente le opinioni del visitatore, per proseguire poi con le sue riflessioni, dopo aver espresso un'amabile approvazione o un duro rifiuto. Questo gioco, che sembrava ricalcare un cerimoniale, rivelava un alto senso della dignità del filosofo, non disgiunto però da una fredda estraneità.
La scena appena descritta corrisponde a un modo d'essere che di fatto ha segnato tutta la vita di Jaspers: il sentimento di una solitudine e di una distanza dagli uomini difficilmente superabile, anzi una sorta di timore di ogni contatto con il mondo. Egli stesso ha 'spesso dichiarato come, durante il periodo scolastico ma anche negli anni universitari, avesse la sensazione di essere irrimediabilmente solo, e come riuscisse a entrare nell'agognata comunicazione soltanto con pochi. Anche più tardi Jaspers ebbe le sue difficoltà con la gente, e molto spesso giunse alla rottura proprio con gli amici più vicini. Di questa solitudine è responsabile principalmente una malattia che lo colpì sin da giovane e che lo costrinse all'isolamento. Gli era impossibile fare passeggiate, andare a cavallo, ballare e nuotare; solo il biliardo gli era consentito. Questa malattia gli impose anche una meticolosa divisione della giornata. Eppure, non fu solo la malattia a spingerlo nella solitudine. Jaspers racconta di essersi allontanato dal prossimo perché non voleva e non poteva condividerne la comune vita sociale. Non partecipò mai a un ricevimento, se non per motivi di servizio. Si sa che, nei vent'anni in cui soggiornò a Basilea dopo la seconda guerra mondiale, andò solo una volta al cinema e a teatro; e in entrambi i casi perché dei suoi allievi avevano una parte nelle rappresentazioni ed egli voleva manifestar loro la sua fedeltà e il suo rispetto. Se sí esclude la cattedra universitaria, Jaspers non ricoprì mai una carica pubblica o accademica. Non instaurò mai un rapporto stretto con i colleghi, per non dire poi della sua evidente avversione per i congressi di filosofia. Negli ultimi anni, quando intervenne nella discussione politica con scritti appassionati, indossò spesso i panni del predicatore morale; la solitudine intorno a lui si approfondì; da sinistra come da destra raccolse quasi unicamente disapprovazione.
L'atteggiamento di Jaspers verso i contemporanei potrebbe definirsi come un misto di impegno pedagogico e di profetismo. Ovunque andasse, ovunque si stabilisse, finiva coll'insegnare. E ciò accadeva non soltanto nelle relazioni umane o nel rapporto con gli studenti; negli ultimi anni venne, non a caso, chiamato praeceptor Germaniae. Tuttavia, solo la parte meno importante della sua dottrina era il frutto della mediazione di conoscenze; in essa trovavano piuttosto espressione convinzioni che egli aveva elaborato nella sua riflessione solitaria, e che poi riferiva non senza una propensione al discorso. apodittico. Per questo motivo il riconoscimento pubblico delle sue dichiarazioni era soggetto a opinioni discordanti. Talvolta si era conquistati dalle sue rivelazioni, tal'altra si parlava, è il caso di Karl Barth, del "teatro jaspersiano", oppure del "seduttore della gioventù"; persino Einstein definì la sua filosofia "la chiacchiera di un ubriaco". Ma con ciò non si è reso giustizia a Jaspers. Poiché una cosa è certa, che tutto quanto egli diceva era il frutto di profonde meditazioni. Ed è questo aspetto che lo ha reso un solitario. "La mia filosofia della comunicazione non è forse la più isolata da tutte le fatiche moderne?"
Infatti, la filosofia di Jaspers trae linfa dai suoi problemi personali. Il pensiero sorge in lui, come in pochi altri filosofi, immediatamente dall'esistenza; egli pone l'intera vita al servizio del pensiero. Anche per questo motivo si occupa del problema dell'uomo. Già molto giovane scrive: "l'ambito della mia ricerca è l'uomo, non avrei altre capacità e altri desideri". Più tardi dirà: "non c'è alcuna questione della filosofia che possa essere svincolata dall'uomo. L'uomo che filosofa, le sue esperienze fondamentali, i suoi atteggiamenti, il suo mondo, il suo comportamento quotidiano, le forze che provengono da lui, non possono essere trascurati".
Questo atteggiamento filosofico determina il contenuto della filosofia di Jaspers. Il suo pensiero ruota di continuo intorno all'uomo, alla cui conoscenza è rivolta la sua passione spirituale. Studia medicina e psichiatria con l'intento di "comprendere l'uomo come un tutto" e di "conoscere i confini delle possibilità umane". Una sua opera, ancor oggi influente, Psicopatologia generale, ne è testimonianza. Sulla via della psicologia Jaspers si avvicina sempre di più ai problemi filosofici. La sua Psicologia delle visioni del mondo, apparsa nel lontano 1919, attira l'attenzione del mondo accademico. Tuttavia, le reazioni sono discordi, cosa che in fondo gli capiterà sempre: entusiastico consenso da una parte, rigido rifiuto dall'altra.
A partire dalla Psicologia delle visioni del mondo Jaspers approfondisce sempre più la propria concezione filosofica, caratterizzata sempre dall'interesse per l'uomo. I risultati di queste ricerche sono stati raccolti in due opere voluminose, dedicate rispettivamente alla Filosofia e alla Logica filosofica; esse servono "all'autointerpretazione dell'uomo nelle opere dei grandi pensatori".
Soltanto chi è mosso intimamente dalla cura per l'uomo può fare filosofia, partendo dall'uomo e ritornando a esso. La filosofia per Jaspers è, infatti, un "curarsi di se stessi". Questo è il modo d'essere fondamentale che impronta la sua intera opera. A partire da qui, egli si volge contro quella che definisce la "filosofia dei professori"; questa non è per lui "autentica filosofia", bensì soltanto "discussione di cose che sono inessenziali per le domande fondamentali del nostro esserci". In opposizione a questa tendenza, l'interesse di Jaspers per l'uomo nasce dall'osservazione vitale di che cosa gli accade nel presente. Per Jaspers l'uomo è estremamente compromesso. Egli fa diretta esperienza di questo pericolo quando viene costretto ad abbandonare la cattedra, e sua moglie viene minacciata di essere deportata. Ma non sono soltanto le potenze politiche a rappresentare un pericolo per l'uomo. In modo più invisibile, e tuttavia più incisivo, lo stesso vale per ciò che determina il tratto fondamentale della nostra epoca: la tecnica e l'esistenza di massa, la dispersione nell'attività e la disumanità dei rapporti vitali. Jaspers trasforma la sua preoccupazione per l'uomo nel fondamento della sua interpretazione del presente, come testimonia, con vasta risonanza, lo scritto La situazione spirituale dell'epoca, pubblicato due anni prima dell'inizio della presa del potere nazista, senza che il filosofo riuscisse a evitare la sventura ormai prossima. La stessa preoccupazione si esprime negli scritti politici che Jaspers redige negli anni Sessanta e che rappresentano un'eloquente espressione del suo timore riguardo ai pericoli che insidiano la democrazia in Germania.
Quanto più Jaspers abbraccia con il pensiero l'essenza dell'uomo, tanto più questa gli diventa enigmatica. "L'uomo è più incerto che mai a se stesso". È "la più grande possibilità e il più grande pericolo nel mondo". Proprio per questo motivo è così difficile comprenderlo, perché non può essere colto, come le cose del mondo, da un'osservazione neutrale. "L'uomo come totalità sta al di sopra di ogni concepibile possibilità di oggettivazione. Egli rimane aperto". "L'uomo trova in se stesso qualcosa che nel mondo non trova da nessuna parte, qualcosa di inconoscibile, di non dimostrabile, che non può mai oggettivarsi, che si sottrae a ogni ricerca scientifica: la libertà". Ciò vale per il singolo come per l'umanità nella sua storia. "Non c'è alcuna legge della storia che determini completamente il corso delle cose. È la responsabilità delle scelte e delle azioni degli uomini ciò da cui il futuro dipende". L'idea della libertà è la cifra del pensiero di Jaspers; in essa consiste o si perde tutto ciò che egli dice. La libertà non può comunque essere fondata in modo universalmente valido. Si può, infatti, considerare la realtà come se in essa tutto accadesse necessariamente. "La verità non è né dimostrabile né confutabile". Eppure, l'uomo ha la sensazione di non essere completamente determinato dalle circostanze, ma di poter sempre influire con la sua decisione. Non si tratta di una questione propria del sapere teorico. La libertà si mostra soltanto nella prassi: nel prendere decisioni, nell'agire concreto, nel cogliere le opportunità. "La libertà non si dimostra mediante la mia comprensione, bensì mediante la mia azione". In questo ambito, tuttavia, la coscienza della libertà ha il carattere della certezza. "Agendo io conosco momenti in cui divento certo di me stesso: ciò che io voglio e faccio ora, lo voglio io stesso. Io voglio essere fatto in modo tale che questo voler sapere e l'agire mi appartengano". "Io so non soltanto che esisto e che son fatto così e di conseguenza agisco in quel determinato modo, ma so anche che nell'agire e nel decidere sono l'origine del mio comportamento e del mio essere".
Ma che cosa vuol dire libertà? Essa significa innanzitutto per Jaspers che l'uomo può di volta in volta, nelle situazioni in cui si trova, decidere questo o quello; ma la libertà possiede una più profonda dimensione. In essa l'uomo può sia cogliere sia mancare se stesso, può ritrovarsi oppure perdersi. Viene qui alla luce la radice etica della filosofia di Jaspers. In essa ne va della "più profonda, esistenziale libertà", della "scelta esistenziale", della "scelta di me stesso", della "decisione di essere se stesso nell'esistenza". Infatti, ciò che conta in modo decisivo è che l'uomo afferri se stesso nella verità, che scelga se stesso, che si fondi su se stesso, e diventi così quello che è. Da ciò dipende ogni cosa, anche per la filosofia. "Chi filosofa parla dell'essere-se-stesso, chi non lo fa non filosofa neppure". Per questo motivo Jaspers chiama il proprio pensiero "filosofia dell'esistenza". Una tale filosofia, infatti, rappresenta "il pensiero, mediante cui l'uomo vorrebbe diventare se stesso". L'esistenza non significa qui semplicemente l'esserci, ossia ciò che noi siamo nella vita quotidiana; significa piuttosto l'esserse-stesso come estrema possibilità dell'uomo.
Sarebbe tuttavia un fraintendimento qualora ritenessimo che Jaspers nel pensiero dell'esser-se-stesso e della libertà parli di un fiero isolamento dell'uomo, come se la filosofia fosse alla fine un affare che riguarda il singolo nella sua solitudine. Pur con tutta la distanza che Jaspers prende rispetto agli altri uomini, anzi, forse proprio grazie a questa distanza, è per lui decisivo che si comprenda come l'esser-se-stesso sia possibile soltanto nella comunicazione con gli altri, anzi in fondo solo con quel singolo. Proprio per questo Jaspers è l'unico filosofo che vede nel matrimonio l'assoluta ed eterna donazione a un altro essere umano e che accoglie questa esperienza, come conferma sempre negli scritti autobiografici, nei fondamenti del suo pensiero. La comunicazione gli appare l'unico criterio essenziale per l'esser-se-stesso e per la libertà. "Noi diventiamo noi stessi solo nella misura in cui l'altro diviene se stesso e diveniamo liberi tanto quanto l'altro diventa libero". Da questa impostazione derivano anche i postulati politici di Jaspers. Si tratta sempre della libertà dell'altro e, insieme, della corret-. ta formazione del vivere in comune. Essa deve estendersi fino alla comunità universale degli esseri ragionevoli, nella quale soltanto Jaspers vede la possibilità di una vera democrazia. Questo lo spinge a richiedere un ordine mondiale universale, tanto più necessario dinnanzi alla minaccia della bomba atomica, affinché l'uomo non distrugga se stesso.
Il cammino lungo il quale l'uomo può giungere a se stesso è scandito di continuo da scogli e da abissi. Per questo Jaspers può dire: "alla fine c'è il naufragio". Già il solo tentativo di orientarsi nel mondo pensando e conoscendo, ossia il corso delle scienze, conduce inevitabilmente a fare esperienza dei limiti. Ci sono domande su domande che talvolta trovano risposte parziali; ma laddove i problemi si fanno assoluti, esse rimangono del tutto irrisolte. Restano senza risposta, per esempio, le domande sul principio e la fine, sulla finitezza o infinità del mondo, oppure sul fondamento delle cose; anzi, a ben guardare, sfociano in antinomie e paradossi. Se si pongono tali domande, si giunge all'"incertezza dell'orientazione nel mondo propria delle scienze fattuali" e, infine, all'"abisso dell'incomprensibile tout court". È quindi fuorviante se la scienza, come accade spesso, si comporta come se questi limiti non esistessero; proprio la scienza deve spingersi così lontano da rendere alla fine visibile la "lacerazione dell'esserci". Ed è la filosofia per Jaspers che ha il compito di ricordare alla scienza quello che è il suo dovere.
L'uomo fa esperienza dei limiti in modo ancora più opprimente quando si volge a se stesso, e tenta di comprendersi e di dar forma alla propria vita. Scopre, infatti, che il suo esserci è altro rispetto a quello delle cose. Improvvisamente, precipita nella crisi, in quelle che Jaspers chiama le "situazioni limite". In esse l'uomo naufraga, e in modo ancor più profondo che nei fallimenti delle scienze. Nelle situazioni limite l'uomo si rende conto che in se stesso è un nulla e che non può procedere con le sue sole forze; urta contro il limite assoluto. Ciò accade, per esempio, quando si assiste alla morte di qualcuno, quando si pensa alla propria morte, nell'esperienza dell'irriducibilità della lotta, del dolore e della colpa o nel vissuto dell'immutabilità del destino in cui ciascuno è preso. Queste situazioni limite sono "le situazioni ultime che sono legate all'uomo in quanto tale e che sussistono inevitabilmente con l'esserci stesso". La ricerca su se stesso rivela che non vi sono vie d'uscita; ogni atteggiamento si fa incerto; l'uomo si sente "mancare il terreno sotto i piedi". Le situazioni limite sono "come un muro contro il quale urtiamo". In esse l'esserci appare in un'ondeggiante incertezza", nella "realtà di un naufragio totale". Questo è ciò che rende l'immagine dell'uomo così confusa, e non solo nell'epoca attuale, in cui ciò emerge con particolare chiarezza, ma in ogni tempo. Eppure, questa esperienza è necessaria perché "l'essenza dell'uomo diviene consapevole di sé soltanto nelle situazioni limite".
Ma, si chiede Jaspers, dovremmo accontentarci di questo inconsolabile aspetto dell'esserci umano? E risponde: in primo luogo, non si vede come l'uomo potrebbe liberarsene. Al contrario, sembra piuttosto che egli, mediante tutti i suoi sforzi, riesca soltanto a impigliarsi maggiormente. "Rispetto al naufragio, ogni forma dí esistenza sembra impossibile. Se il sapere riguardo al reale accresce l'angoscia, se la disperazione mi fa precipitare nell'angoscia, allora di fronte a questo dato di fatto inevitabile, l'angoscia sembra divenire l'ultima forma; la vera angoscia è quella che si ritiene l'ultima forma, dopo la quale non v'è via d'uscita", nella quale io "sprofondo nell'abisso senza fondo dell'ultima angoscia definitiva". È la situazione della disperazione nichilistica, lo sguardo gettato nella "rigida oscurità del nulla".
Con ciò può essere d'aiuto soltanto il farsi carico di questa situazione fronteggiandola. "Nel nichilismo viene all'espressione ciò che è inevitabile all'uomo onesto". L'uomo deve quindi ammettere l'incomprensibilità del suo esserci. Deve dire di sì alla morte e al dolore, alla lotta, alla colpa e al destino. Se prende sul serio questo compito, può pervenire alla sua autentica esistenza, fronteggiando le situazioni limite. "Noi diventiamo noi stessi, entrando a occhi aperti nelle situazioni limite". Questa è poi anche "la più profonda origine della filosofia".
L'accettazione dell'esistenza non si compie in un processo continuo e necessario. Essa si realizza piuttosto attraverso un salto: il salto dalla disperazione che porta a cogliere l'esser-sestesso, il "salto verso me stesso in quanto libertà". "Il salto dall'angoscia verso la pace è il più immane che l'uomo possa compiere". Questo salto, tuttavia, non può essere realizzato dall'uomo con le sue sole forze. Allora, com'è possibile?
Traspare qui una dimensione nuova e, al contempo, più profonda della filosofia di Jaspers. Il salto che porta all'esser-se-stesso e alla libertà si concretizza proprio perché di fronte alla disperazione per la sua apparente impossibilità si può giungere a una particolare esperienza: l'esperienza dell'esser donato. Nel naufragio l'uomo può rendersi conto che a lui è dato ciò che egli non può creare da sé. "Proprio nell'origine della mia identità sono consapevole dí non essermi creato da me. Quando col mio autentico me stesso ritorno a me nell'oscurità mai abbastanza chiarita del mio volere originarlo, mi può diventar manifesto che dove sono internamente me stesso, non sono più solo me stesso. Infatti, questo autentico 'io stesso', in cui dico 'io' nella piena presenza della mia storicità, può sembrare che io lo sia per opera mia, mentre mi sorprendo già con esso; quando, per esemplo, ho compiuto un'azione, so che da solo non la potevo compiere, né la potrò mai compiere. Proprio nel volere, in cui ero veramente me stesso, mi scopro a un tempo donato nella mia libertà". Io mi comprendo "in un incomprensibile venir raccolto".
Esser-donato ed esser-dato – così continua Jaspers – presuppongono uno che dona e uno che dà. Anche questo fa parte dell'esperienza fondamentale. Nella situazione estrema del naufragio può intervenire in aiuto dell'uomo qualcosa che non proviene né dal mondo né da lui stesso. Jaspers designa ciò che si fa incontro in tal modo col nome "trascendenza"; talvolta lo chiama anche "Dio". Perciò può affermare: "non sí dà esistenza senza trascendenza". "Se l'uomo afferma sé interiormente rispetto al destino, se imperturbato resiste di fronte alla morte, non può farlo da solo. Ciò che qui lo aiuta è però di natura diversa rispetto a ogni aiuto nel mondo. Il fatto che egli possa stare su se stesso, lo deve a una inafferrabile mano trascendente percepibile solo nella sua stessa libertà". Con ciò la filosofia accede al suo più alto compito. Essa è "il pensiero che prepara lo slancio verso la trascendenza, lo ricorda e, in un momento alto, lo compie"; è "un ruotare intorno alla trascendenza " .
Jaspers definisce questa esperienza fondamentale la "fede filosofica". In quanto "fede nella trascendenza", essa porta con sé una "certezza incomprensibile". "La fede filosofica costituisce la necessaria origine di ogni vero filosofare". Più di questo però Jaspers ritiene di non poter dire su Dio. "Riflettendo su Dio, l'essere di Dio si fa soltanto progressivamente incerto". "Che Dio c'è, tanto basta". Il vero sapere in questo ambito è quindi "sapere di non sapere". "L'esistenza filosofica non tollera di avvicinarsi mai direttamente al Dio nascosto".
Tuttavia, anche Jaspers giunge ad affermazioni metafisiche. Ma esse non riguardano immediatamente Dio, bensì semplicemente il mondo determinato da Dio. La realtà nel suo complesso, quella del mondo come quella dell'uomo, riceve una nuova interpretazione nella fede filosofica. Tutto ciò che appare diviene ora comprensibile come accenno, segno, "cifra della trascendenza". "Non esiste nulla che non possa essere cifra. Ogni esserci possiede un vibrare e un parlare indefinito, sembra esprimere qualcosa, ma rimane dubbio a che cosa si volga e di che cosa parli. Il mondo, sia esso natura o uomo, spazio stellato o storia, non è semplicemente lì. Ogni ente deve essere considerato fisiognomicamente". Jaspers può così riassumere il senso del filosofare: "nel filosofare si esprime una fede senza alcuna rivelazione, che si appella a ciò che è sullo stesso cammino; non è un segnavia oggettivo nella confusione; ciascuno coglie soltanto ciò che egli stesso è in quanto possibilità attraverso se stesso. Ma esso osa la dimensione che nell'esserci porta a brillare l'essere per lo sguardo alla trascendenza. In un mondo, che è divenuto completamente incerto, noi filosofando cerchiamo di mantenere la direzione, senza conoscere la meta".

(La filosofia dalla scala di servizio. I grandi filosofi tra pensiero e vita quotidiana, Raffaello Cortina 1996, pp. 301-310)