Nel mondo

di Almodóvar

Virgilio Fantuzzi


Julieta (Emma Suárez) vive a Madrid con la figlia Antía (Blanca Parés). Entrambe soffrono in silenzio per la perdita di Xoan (Daniel Grao), padre di Antía e marito di Julieta. Ma a volte il dolore, invece di unire le persone, le separa. Il giorno in cui Antía compie diciotto anni, abbandona la madre senza darle una spiegazione. Julieta inizia a cercarla con tutti i mezzi di cui dispone, ma la sola cosa che riesce a scoprire è quanto poco sa di sua figlia.

Cuore di mamma

Il film Julieta, di Pedro Almodóvar, presentato in concorso al festival di Cannes 2016 e uscito tempestivamente nelle sale italiane, parla della lotta di una madre per sopravvivere all’incertezza. Capirà a poco a poco i motivi per i quali sua figlia ha deciso di cancellarla dalla propria vita. Il film parla anche del destino, del senso di colpa e del mistero insondabile che spinge alcuni ad abbandonare le persone che amano, a ignorarle come se non avessero mai significato nulla per loro, come se non fossero mai esistite.
Le pieghe del tessuto rosso sul quale appaiono in sovrimpressione i titoli di testa potrebbero far pensare al sipario di un palcoscenico, pronto ad alzarsi per dare il via a un’azione drammatica. Ma il tessuto rosso, come indicherà successivamente un’immagine allargata, è quello del vestito di Julieta, dietro il quale palpita il cuore ferito di una mamma.
Il secondo oggetto che appare sullo schermo è una scultura in terracotta, che rappresenta un uomo seduto. Julieta avvolge con cura la statuetta in un involucro protettivo e la depone in una scatola di cartone assieme ad altre suppellettili. Siamo nel 2016, e Julieta sta facendo i bagagli con l’intenzione di lasciare definitivamente Madrid per trasferirsi in Portogallo.
La scultura è stata realizzata da Ava (Inma Custa), un’artista amica di Julieta, che mentre modellava le statue di terracotta amava sentirsi raccontare da lei, professoressa di letteratura classica, gli antichi miti.
«Gli dèi hanno creato l’uomo e gli altri esseri servendosi dell’argilla e del fuoco…», dice Julieta. Siamo nel 1985. Julieta giovane è interpretata da Adriana Ugarte, che ha una trentina d’anni di meno rispetto a Emma Suárez. Le due donne, oltre che somiglianti, sono entrambe splendide nonostante la differenza di età.
Il rapporto delle due donne con la scultura, nel linguaggio simbolico che serpeggia dietro le immagini del film, allude al potere delle donne, tema caro ad Almodóvar. «La donna — dice il regista — non solo dà la vita, ma è più forte nel combattere, gestire, soffrire e godere di tutto ciò che la vita offre. Soltanto il caso è più forte di lei».

Un silenzio che uccide

Nel 2003 Antía, figlia di Julieta e Xoan, compie 18 anni. È maggiorenne e decide di recarsi a trascorrere tre mesi di ritiro nei Pirenei aragonesi. Julieta soffre all’idea di veder partire la figlia, dalla quale non si era mai separata fino a quel momento.
La madre osserva la figlia che scompare scendendo le scale di casa.
Cerca di nascondere come può la sua angoscia. La situazione le fa ricordare altri addii, vissuti in precedenza, dei quali non ha mai parlato con la figlia. Uno degli addii è avvenuto su un treno durante un viaggio di notte nel 1985, la stessa notte nella quale Antía è stata concepita.
Un uomo con gli occhi lucidi si era seduto di fronte a Julieta e aveva cercato di agganciare con lei una conversazione. Lei aveva reagito con freddezza e non riuscirà a dimenticare mai più lo sguardo di quell’uomo.
Il secondo sguardo, che ancora la tortura, è quello di Xoan, il pescatore che ha conosciuto quella stessa notte su quel treno. Julieta e Xoan hanno formato una famiglia e sono andati a vivere a Redes, un villaggio di pescatori della Galizia. Sono passati tredici anni da quando si sono incontrati. Un giorno, hanno una discussione sul passato di Xoan, qualcosa che Julieta ha scoperto e che l’ha molto delusa. Decide di uscire. Xoan la prega di rimanere e parlare, ma lei si rifugia nel silenzio e lascia la casa.
Xoan la guarda uscire dalla porta, disorientato e un po’ implorante.
Julieta torna a casa la sera con l’intenzione di riprendere la conversazione interrotta, ma Xoan non c’è, e non avranno mai più la possibilità di finire quella conversazione. Poco dopo che lei è uscita, Xoan è andato a pescare e, nel pomeriggio, una tempesta improvvisa e molto violenta ha messo fine alla sua vita.
Dopo non aver saputo più nulla di sua figlia per anni, Julieta distrugge tutti i ricordi materiali che la legavano a lei e cambia indirizzo. Decide di seppellire la sua memoria. Nulla le deve più ricordare Antía. Va ad abitare in un appartamento anonimo nei sobborghi, lontano dal centro dove ha vissuto con la figlia.
Tra gli elementi significativi del film c’è l’arredamento dei diversi ambienti nei quali Julieta va ad abitare, suddividendo in fasi diverse la sua vita. Dalla casa del pescatore in Galizia, con finestre verso il mare, che a volte si presenta smagliante di colori, altre volte nero per la tempesta, alla casa vecchio stile nel cuore di Madrid, dove si trasferisce con Antía, che vuole andare ad abitare vicino a Bea (Michelle Jenner), la sua inseparabile amica. L’appartamento di periferia con le pareti bianche, privo di ornamenti, che rispecchia il suo vuoto interiore.
Quando Julieta decide di lasciare Madrid per non tornarvi mai più (l’abbiamo vista mentre preparava i pacchi per il trasloco), un incontro fortuito in strada con Bea, che non vede da anni, la spinge a cambiare improvvisamente programma. Bea racconta di aver incontrato per caso Antía sul lago di Como. Le ha detto che sua madre vive ancora a Madrid.
Le notizie che Julieta riceve da Bea sono scarne (Antía è sposata, ha tre figli…), ma sufficienti per cambiare radicalmente i suoi piani. Rompe il rapporto con il nuovo compagno Lorenzo (Darío Grandinetti) senza dargli alcuna spiegazione. Uno dei tanti silenzi che si susseguono lungo il film. Torna nel condominio dove aveva condiviso l’appartamento con la figlia e tenta di riprendere contatto con il suo fantasma, scrivendole una lunga lettera, nella quale le racconta tutto quello che non le ha detto quando vivevano insieme.
Nel 2016 Julieta cammina per gli stessi luoghi dove passeggiava con la figlia nel 1998, dopo il loro trasferimento a Madrid. Si aggira per le strade dello stesso quartiere, sosta nel campo di basket dove accompagnava Antía con la sua amica Bea… Possiamo immaginare che, come Julieta, anche Almodóvar, tornando nei luoghi dove, a partire dall’inizio degli anni Ottanta del secolo passato, ha cominciato a girare i primi film, cerchi di rimettere in moto la macchina del tempo. Non è difficile seguirlo nelle sue fantasticherie…

Labirinti

Labirinto di passioni (Laberinto de pasiones, 1982) è una sorta di fiaba dove una strega cattiva, Toraya (Helga Liné), separa l’uno dall’altra due preadolescenti, Riza Niro (Imanol Arias) e Sexilia (Cecilia Roth), che si amano di un amore privo di malizia. Il trauma provocato da quell’esperienza negativa spinge i due a intraprendere strade sbagliate. Lui si scopre omosessuale, lei ninfomane.
Li troviamo anni dopo nei locali notturni di Madrid, dove si scatena la movida. Nessuno dei due trova una posizione giusta. Ma saranno proprio i loro percorsi sghembi, ricchi di imprevisti e di scambi di persona, a farli incontrare di nuovo, ad aiutarli a rimuovere le inibizioni prodotte dal vecchio trauma e a riportarli sul terreno di un rapporto armonioso.
Il film contiene una rievocazione molto colorita della vita notturna madrilena all’inizio degli anni Ottanta, che lo stesso Almodóvar ha contribuito ad animare mescolando, da eclettico uomo di spettacolo, esperienze pop, rock e funk. Il regista, allora all’inizio di quella che sarebbe diventata una folgorante carriera, seminò sconcerto tra i benpensanti, concedendosi libertà — nell’esibizione di situazioni scabrose e nell’uso di un linguaggio scurrile — che erano state a lungo represse dal conformismo ufficiale della Spagna franchista.
L’indiscreto fascino del peccato (Entre tinieblas, 1983). È un film che ha irritato il pubblico e la critica, tanto per il contenuto irriverente (un piccolo monastero femminile mostrato più sul versante delle debolezze umane che su quello delle virtù religiose), sia per i modi della ripresa, che è stata ritenuta rozza, incline a una certa faciloneria e non esente dall’aggressività nei confronti dello spettatore (quelle vomitate in faccia alla macchina da presa…).
Almodóvar si difende dall’accusa di anticlericalismo, dicendo che la religione consiste, secondo lui, nel guardare con occhio di misericordia le persone che vivono in difficoltà, e in particolare le donne, esposte più dei maschi a subire angherie di ogni genere, sia che si tratti di donne respinte ai margini della società, costrette a svolgere i ruoli più umilianti per sopravvivere, sia che si tratti di religiose recluse negli spazi angusti di un monastero, dove non è facile mantenersi in equilibrio tra i limiti imposti dalla regola e l’insorgere di pulsioni incontrollate.
Incline alla metafora, Almodóvar inserisce nel monastero un tigrotto, accolto dalle suore quando era un cucciolo e coccolato come se fosse un loro figliolo. Adesso ha tre anni. Nutrito di carne anche quando le suore digiunano, sa quello che vuole e come riuscire a ottenerlo.
La legge del desiderio (La ley del deseo, 1987) è un vero e proprio melodramma al maschile. Pablo (Eusebio Poncela), sceneggiatore e regista di successo, è innamorato di Juan (Miguel Molina), ma non disdegna altre avventure e intreccia una relazione con Antonio (Antonio Banderas). Questi vorrebbe Pablo tutto per sé e uccide Juan. Pablo ne è sconvolto. La vicenda ha un finale tragico.
Secondo Almodóvar, la passione amorosa, quella omosessuale come quella eterosessuale, non può essere dominata. Nessuno assicura però a chi ne è vittima di trovare un’anima gemella con cui condividerla. Questa è la sorte comune di Pablo e di Antonio, entrambi innamorati, ma privi di reciprocità.
La condizione di Pablo, regista cinematografico e teatrale oltre che scrittore, consente di inserire nella vicenda squarci metalinguistici, come una messinscena del monologo femminile La voix humaine di Cocteau, interpretato da Tina (Carmen Maura), sorella transessuale di Pablo. Sul palcoscenico interviene anche Ada (Manuela Velasco), una bambina alla quale Tina fa da madre, che canta in play-back la canzone Ne me quitte pas di Jacques Brel, interpretata da Marisa Matarazzo.
Sia il testo di Cocteau, sia la canzone di Brel portano fino al diapason il tema caro ad Almodóvar della forza distruttrice della passione. Lo spettacolo nello spettacolo segna anche il fallimento di Pablo, che, come regista, non riesce a sublimare nell’arte le sue sofferenze d’amore.
In occasione di un incidente stradale che gli ha provocato una temporanea perdita di memoria, Pablo riesce a stabilire un rapporto con Tina, dalla cui bocca apprende storie segrete della sua famiglia, aspetti della realtà che ignorava e con i quali d’ora in avanti dovrà cominciare a fare i conti.

Donne da copertina

Donne sull’orlo di una crisi di nervi (Mujeres al borde de un ataque de nervios, 1987) si apre con titoli di testa fantasiosi, ispirati alla grafica dei rotocalchi femminili e alla cartellonistica degli anni Sessanta.
Acconciature laccate, labbra cariche di rossetto, immagini convenzionali della «donna da copertina» fanno da preludio all’entrata in scena di Pepa (Carmen Maura), attrice che lavora in televisione ed è impegnata nel doppiaggio di un film americano.
È lei la donna sull’orlo di una crisi di nervi. Mentre sta per essere abbandonata dal suo convivente Ivan (Fernando Guillén), anche lui attore, impegnato nel doppiaggio dello stesso film, si accorge di essere rimasta incinta. Vorrebbe farglielo sapere, ma non riesce a mettersi in contatto con lui.
Il film la sorprende mentre è in pieno sonno, provocato da dosi massicce di sonniferi dei quali fa uso. Non valgono a destarla la mezza dozzina di sveglie che circondano il suo letto. Arriverà tardi al lavoro. Sogna in bianco e nero Ivan intento a civettare con tutte le donne che incontra per strada, sussurrando a ciascuna una frase da film.
Nella sala di doppiaggio il rullo della pellicola gira. Dettagli tecnici sul meccanismo che produce i «sogni artificiali». Pepa e Ivan doppiano separatamente Joan Crawford e Sterling Hayden in un western «fiammeggiante» di Nicholas Ray (Johnny Guitar, 1954).
Vita e cinema non sono in sintonia. Ci si mette di mezzo anche il telefono che, invece di avvicinare gli interlocutori, crea nuove barriere con l’intervento della segreteria telefonica.
Messa in moto così la vicenda, non resta che farla procedere a ritmo incalzante, tra un colpo di scena e un altro, come se si trattasse di un «balletto meccanico». All’intraprendente Pepa, sempre in azione, fanno da contrappunto altre donne, interpretate dalle attrici Julieta Serrano, Rossy de Palma, María Barranco, Kiti Manver, Loles León, tutte in ghingheri, tacchi alti, calze a rete, gonne strette, gioielli vistosi, cappellini bizzarri… Ogni volta che Pepa sta per mettersi in contatto con Ivan, succede qualcosa di imprevisto. Alla fine, sapendolo in pericolo per via di una delle sue ex che, impazzita, lo cerca per ammazzarlo, riesce a raggiungerlo e a salvargli la vita. Ora che lo ha rivisto, però, decide di lasciarlo andare, tenendo per sé il suo segreto e il suo bambino.
Il fiore del mio segreto (La flor de mi secreto, 1993). Leocadia, detta Leo (Marisa Parédes), scrive romanzi rosa usando lo pseudonimo di Amanda Gris, ma nel privato è tormentata dal fallimento del suo matrimonio.
Ama alla follia Paco (Imanol Arias), suo marito, un ufficiale della Nato, sempre in missione, del quale soffre la mancanza fino allo spasimo. Ma Paco si cura poco di lei. È innamorato di un’altra donna, Betty (Carme Elías), psicologa, amica intima e unica confidente di Leo. Quest’ultima scoprirà l’amara verità attraverso una serie di colpi di scena che vanno di pari passo con gli equivoci determinati dalla falsa identità dietro la quale si nasconde la sua attività letteraria.
Crisi depressiva, tentativo di suicidio, salvataggio in extremis operato dalla madre di Leo, una vecchia di origine contadina, che detesta la vita congestionata di Madrid e porta con sé la figlia a rimettersi in sesto respirando l’aria dei luoghi di origine.
La vicenda di Leo — che troverà un lieto fine con lo sbocciare di un nuovo idillio tra la scrittrice e un giornalista, Ángel (Juan Echanove), che redige la pagina letteraria di El País — si intreccia con quella di Blanca (Manuela Vargas), cameriera appassionata di flamenco, il cui figlio Antonio (Joaquín Cortés), ballerino e coreografo squattrinato, rubando il manoscritto di un romanzo che Leo ha cestinato ritenendolo impubblicabile, è riuscito a venderlo al regista Bigas Luna, che vuole trarne un film. Con il ricavato ha montato uno spettacolo, dove mette in mostra straordinarie capacità artistiche danzando con la madre, a riprova che la vita ha sempre in serbo qualche lieta sorpresa per chi non si abbandona allo sconforto e ha fiducia nell’avvenire.

Dalla commedia al dramma

Tutto su mia madre (Todo sobre mi madre, 1999). Manuela (Cecilia Roth), infermiera che si occupa di trapianti, perde il figlio diciottenne Esteban (Eloy Azorín) in un incidente. Il ragazzo muore investito da un’auto mentre insegue Huma Rojo (Marisa Paredes), attrice protagonista di un allestimento del dramma Un tram che si chiama desiderio, di Tennessee Williams. Dopo la tragedia, Manuela decide di tornare a Barcellona, sua città di origine, per informare della morte del figlio il suo ex marito Esteban, un travestito che si fa chiamare Lola (Toni Cantó).
Spettacolare è l’arrivo di Manuela a Barcellona. La città dominata dalle guglie della Sagrada Familia, vista dall’alto, suggerisce un’idea del paradiso. Subito dopo, il taxi che conduce Manuela dall’aeroporto all’albergo attraversa una sorta di bolgia infernale.
Spaccio di sesso e droga, dove alle prostitute «normali» si affiancano travestiti, transessuali e altri personaggi equivoci in un’accozzaglia che qualche critico definisce «felliniana», ma che sarebbe più giusto indicare come «alla Bosch».
Qui Manuela incontra Agrado (Antonia San Juan), un’amica di vecchia data, che lei salva da una pericolosa aggressione. Agrado mette Manuela in contatto con suor Rosa (Penélope Cruz), una giovane religiosa che lavora nel sociale e può metterla in contatto con Lola.
Nello sviluppo del film, che tende al melodramma e non risparmia allo spettatore colpi di scena, Manuela, accompagnata da Agrado, incontra l’attrice Huma, legata alla sua assistente Nina (Candela Peña). Nasce un quartetto che consente molteplici scambi di ruoli.
Nel frattempo, si viene a sapere che suor Rosa è rimasta incinta di Lola (già Esteban, padre del giovane Esteban che abbiamo visto morire), che l’ha inoltre contagiata con l’aids, di cui è portatore.
La famiglia di Rosa, il cui conformismo è stigmatizzato nel film con una descrizione impietosa, non è in grado di occuparsi della figlia. Assistita da Manuela e Agrado, Rosa muore di parto. Nasce un bambino (il terzo Esteban), che ha bisogno di cure speciali per eliminare la malattia che ha ereditato dal padre.
Manuela adotta il piccolo. Torna così a essere madre. Durante il funerale di Rosa, si fa vivo il primo dei tre Esteban (ora Lola), in veste di angelo della morte. Il male inesorabile di cui soffre lo sta logorando a poco a poco. Ha giusto il tempo di riconciliarsi con il suo passato prima di accomiatarsi dalla vita. Il piccolo Esteban reagisce positivamente alle cure ed elimina dal suo corpo ogni traccia del precedente contagio.
Raccontata così, la trama del film può sembrare ridondante e barocca. La storia è resa convincente dalla sobrietà dello stile. Si dice che nel catalogo delle sofferenze umane non ci sia nulla di paragonabile al dolore di una madre per la perdita di un figlio. Durante le riprese di Tutto su mia madre, Almodóvar non faceva che ripetere all’attrice Cecilia Roth: «Piangi meno che sia possibile. Tieni il tono della voce basso». Anche alle altre interpreti diceva: «Secco, secco, secco…».
La frase chiave del film è tratta da una battuta del dramma Un tram che si chiama desiderio, dove un personaggio (Blanche Dubois) dice di avere fiducia nella bontà degli estranei. La solidarietà tra donne è l’argomento centrale. Un aiuto reciproco sorge spontaneo da parte di donne che vivono in condizioni di disagio. Manuela, che soffre più di tutte, è quella che si prodiga maggiormente per aiutare le altre.

I vivi e i morti

Parla con lei (Hable con ella, 2002). Da sempre alla ricerca di casi limite, Almodóvar s’imbatte questa volta nei corpi inerti (ma vivi) di due donne in coma. Due coppie (maschio e femmina) vivono situazioni che procedono su percorsi paralleli, ma in direzione opposta.
Le due donne, a causa di incidenti traumatici, giacciono sospese tra la vita e la morte. I due uomini che le assistono, uniti ad esse da intensi legami affettivi, si incontrano nei corridoi dell’ospedale dove sono state ricoverate in camere attigue.
Uno dei due, Benigno (Javier Cámara), parla con la sua donna, Alicia (Leonor Watling), convinto che lei capisca e condivida tutto quello che lui dice. L’altro, Marco (Darío Grandinetti), davanti al corpo della donna amata, Lydia (Rosario Flores), incapace di reagire, non trova le parole adatte per esprimere i propri sentimenti. Alicia, la donna alla quale Benigno parla, esce dal coma e sopravvive.
Lydia, quella alla quale Marco non parla, muore.
Succedono cose gravi nel film. Benigno, che lavora come infermiere nell’ospedale ed è un po’ debole di mente, si lascia cogliere da un raptus e mette incinta Alicia. Il bambino nascerà morto prima che la mamma si risvegli, ma il misfatto costa a Benigno il carcere, dove, senza sapere del risveglio di Alicia, muore suicida.
Bisogna dare atto ad Almodóvar della delicatezza con la quale ha saputo trattare la materia scabrosa e dello sforzo compiuto per portare il discorso a un alto livello espressivo, avvalendosi, tra l’altro, del contributo di personalità eccezionali come la coreografa Pina Bausch e il musicista Caetano Veloso, che entrano a far parte del tessuto del film interpretando in brevi camei il ruolo che esercitano come icone nella realtà della vita, e chiamando a far parte del cast la figlia d’arte Geraldine Chaplin.

«La mala educación»

Ne La mala educación (2004) la vicenda si sviluppa su tre linee temporali tra loro collegate dal montaggio parallelo.
1980. Il regista cinematografico Enrique Godel (Fele Martínez) riceve la visita di un suo ex compagno di collegio, Ignacio (Gael García Bernal), che afferma di essere un attore e di chiamarsi in arte Ángel. Enrique stenta a riconoscerlo. Ignacio/Ángel, in realtà, è Juan, fratello minore del vero Ignacio, morto quattro anni prima.
Ángel propone a Enrique un soggetto cinematografico che si intitola «La visita».
La storia di cui parla il soggetto attiva la seconda linea temporale del film. Nel 1977 il travestito Zahara (cioè Juan/Ignacio/Ángel) si reca nel collegio dove suo fratello, il vero Ignacio, ha studiato da ragazzino come interno assieme al suo coetaneo Enrique, e fa leggere al direttore, padre Manolo (Daniel Giménez Cacho), un racconto scritto da suo fratello, che denuncia gli abusi subiti da parte del religioso, al fine di ricattarlo.
La lettura del manoscritto apre la terza linea temporale. Nel 1964 il piccolo Ignacio fa amicizia con Enrique, compagno di collegio, e subisce le attenzioni morbose di padre Manolo.
Nella parte iniziale del film la vicenda si avvita su se stessa, facendo perdere allo spettatore il senso dello scorrere del tempo. I personaggi si confondono tra loro, tanto da rendere difficile capire cosa sia accaduto davvero e cosa appartenga al regno dell’artificio. Dove si trova la verità? Nel 1980, nel 1977 o nel 1964? Non lo sapremo mai.
Tutti i personaggi sono divisi tra più vite, più storie, più volti. La lacerazione si concretizza nell’immagine di Ignacio bambino, che, inseguito durante una gita in campagna da padre Manolo, cade battendo la testa. Almodóvar approfitta del rivolo di sangue, che scorre lungo il volto del ragazzino, per strappare il fotogramma dall’alto in basso. Da quel momento Ignacio diventa cosciente della sua ambiguità. «Un filo di sangue divideva la mia fronte in due e ho avuto il presentimento che lo stesso sarebbe successo con la mia vita: sarebbe stata sempre divisa e io non avrei mai potuto fare niente per evitarlo».
Volver (2006). In un paese della Mancia, regione dalla quale proviene il regista, le donne puliscono con cura le lapidi del cimitero.
Una panoramica laterale da destra a sinistra descrive minuziosamente il loro lavoro e, nello stesso tempo, enuncia il tema proposto dal film, che consiste nell’illustrare il rapporto che intercorre tra i vivi e i morti, come era vissuto fino a qualche tempo fa (e forse, almeno in parte, ancora adesso) nella Spagna rurale.
Due sorelle, Raimunda (Penélope Cruz) e Soledad detta «Sole» (Lola Dueñas), assieme a una bambina, Paula (Yohana Cobo), figlia di Raimunda, si recano da Madrid al paesello natio per far visita a una vecchia zia, Paula (Chus Lampreave), sorella della loro madre e nonna, ritenuta morta, ma che di fatto non lo è.
A Madrid, Sole fa la parrucchiera in casa. Raimunda fa le pulizie dove la chiamano. Ha un marito fannullone, Paco (Antonio de Torres), che, in assenza della moglie, tenta di violentare Paula, la quale, afferrato un coltello da cucina, quasi senza rendersene conto, lo uccide. Paco non è il vero padre di Paula. Raimunda, prima di conoscere il futuro marito, era stata messa incinta da suo padre.
Paco aveva accettato di attribuirsi la paternità della piccola.
Il film procede con una serie di complicazioni. Raimunda, prima di tutto, deve far scomparire il cadavere di Paco. Nel frattempo, le viene affidata la custodia di un ristorante chiuso, durante la breve assenza del padrone. Una troupe cinematografica, che lavora nei paraggi, chiede di essere rifocillata, e Raimunda, molto intraprendente, prepara pasti succulenti per una trentina di persone, compresa la cena finale.
Nel paese muore zia Paula. Funerale solenne al quale né Raimunda, né la piccola Paula possono partecipare, perché occupate in altre faccende. Partecipa Sole, la quale, senza avvedersene, riporta a Madrid, nel bagagliaio dell’automobile, la vecchia madre Irene (Carmen Maura), creduta morta, mentre invece era nascosta nella casa della sorella, che ha assistito nell’ultima malattia.
D’ora in avanti Irene si aggirerà tra i vivi come se fosse un fantasma.
Un’amica di famiglia, Agustina (Blanca Portillo), condannata da un male incurabile, vuole sapere dal fantasma se sua madre, scomparsa senza lasciare tracce, è viva o morta. Seguendo il filo di questa sua richiesta, si scopriranno a poco a poco segreti inconfessabili della famiglia, che i morti hanno portato con sé nella tomba, e che i vivi fanno rivivere, intrattenendo con i morti un rapporto che durerà finché dura la loro memoria.

Gioco di specchi

Gli abbracci spezzati (Los abrazos rotos, 2009). Il cinema, in quanto tecnica audiovisiva, è considerato come un prolungamento della vista e dell’udito. Ma i sensi sono ingannevoli. La perfezione tecnica del cinema, usata con abilità, può cambiare le carte in tavola: far apparire vero ciò che è falso, oppure rendere falso ciò che è vero. Abbiamo già visto negli altri film come Almodóvar ami giocare muovendosi su più piani, cercando nel cinema quello che non si trova nella vita, rendendo visibile nel cinema ciò che nella realtà non si vede, trovando nel cinema il rovescio della realtà, cioè la prova inconfutabile dell’ambiguità del reale.
Mateo (Lluís Homar), regista cinematografico sempre in cerca di quattrini, ama la bella Lena (Penélope Cruz), che lo ricambia con passione. Ma Lena è la donna di Ernesto (José Luis Gómez), facoltoso industriale dalle disponibilità economiche illimitate. Ernesto ama Lena di un amore possessivo e distruttivo che, naturalmente, non è ricambiato.
Mateo fa di Lena la protagonista del film che sta girando. Ernesto, per non lasciarsi sottrarre la donna, diventa produttore (cioè padrone) del film e affida al figlio, Ernesto come il padre (Rubén Ochandiano), il compito di filmare un backstage della lavorazione in corso. Servendosi del materiale girato dal figlio, Ernesto senior, con l’aiuto di un’esperta in lettura dei movimenti labiali (Lola Dueñas), riesce a carpire le confidenze che Lena e Mateo si scambiano ai margini del set. Viene così a sapere che la donna, non solo non lo ama, ma lo detesta, Un film (il backstage) su un film (quello di Mateo) che confluisce in un terzo film (quello di Almodóvar), dove si gioca sul rapporto tra suono e immagine (il movimento delle labbra che richiede l’intervento di un esperto per poter essere interpretato...). Il groviglio è tale da fare impazzire di gioia un accanito studioso di scienze della comunicazione.
Lena si accorge che Ernesto junior la sta spiando per conto del padre. Dopo aver tentato invano di strappargli di mano la cinepresa, si rivolge direttamente all’obiettivo e, dallo schermo, dice a Ernesto senior quello che pensa di lui.
Nella sala in cui il padre sta guardando il filmato del figlio, si presenta Lena di persona. «Mettimi a fuoco!». Adesso è lei che, autodoppiandosi, presta la sua voce al film muto. Sullo schermo si alternano i primi piani di lei muta, doppiata da se stessa, e quelli di lei che parla in voce. Mirabile gioco di specchi tra la realtà «rubata» dal cinema, e la finzione, che distrugge la realtà apparente per andare alla ricerca di quella vera.
Un altro momento emozionante del film è quello nel quale Lena e Mateo, consapevoli della precarietà della loro condizione di amanti clandestini, guardano alla televisione una sequenza del film Viaggio in Italia di Rossellini, quella dove due coniugi in crisi (interpretati da George Sanders e Ingrid Bergman) assistono negli scavi di Pompei al rinvenimento del calco in gesso dei corpi di due coniugi morti abbracciati durante l’eruzione del Vesuvio. Lena, vedendo quell’abbraccio reso eterno dalla lava, dice a Mateo che anche lei vorrebbe morire così. Mateo prende un apparecchio fotografico e, con l’autoscatto, fotografa se stesso abbracciato con Lena. Sarà questa la loro eternità?
La pelle che abito (La piel que habito, 2011). Il dottor Ledgard (Antonio Banderas), stimato chirurgo plastico, è un uomo di potere, sicuro e determinato. Erede dello «scienziato pazzo», che appare di tanto in tanto nei film «di paura», Ledgard è uno stregone che nel segreto del suo laboratorio si spinge oltre le regole della scienza.

Decide pertanto di ignorare il rispetto dell’etica medica in nome di una terribile vendetta personale.
Il discorso di Almodóvar sul transito di identità e sulle metamorfosi del corpi si unisce in questo film al discorso sul potere, sul controllo e sulla prevaricazione.
Nel corso di una festa un po’ movimentata, il giovane Vicente (Jan Cornet) tenta di violentare Norma (Blanca Suárez), figlia minorenne di Ledgard, la quale, traumatizzata, si uccide. Da qui la vendetta del padre, che cattura Vicente e, avvalendosi di procedimenti scientifici avanzati, che sconfinano nella fantascienza, lo trasforma in una ragazza, che chiama Vera (Elena Anaya), alla quale conferisce i lineamenti di sua moglie, morta anch’essa suicida.
Il rapporto di sottomissione e di sadismo che si stabilisce tra il medico e la sua vittima, sequestrata in una villa lussuosa, subisce però una trasformazione a mano a mano che il novello pigmalione s’innamora della sua opera.
Il film si muove tra realtà e sogno, nella cupa atmosfera del thriller, con l’intrecciarsi di diversi flashback. Una vera e propria discesa all’inferno nella mente dello scienziato, che rivive il ritrovamento del corpo violato della figlia in un bosco degno di una fiaba horror.
All’atmosfera tenebrosa del bosco si contrappone, in un altro flashback, quella asettica ed eccessivamente illuminata della sala operatoria, dove Vicente, da giovane uomo, dedito alle droghe e al sesso predatorio, viene trasformato nel «capolavoro» dello scienziato, che s’improvvisa artista.
L’amore che nutre per Vera non porta fortuna a Ledgard. La ragazza, già ragazzo, ne approfitta per riprendersi la sua libertà, anche se, d’ora in avanti, dovrà accontentarsi di vivere in una pelle che non è la sua.

Sull’arca di Noè

È giunto il momento di tornare a Julieta. Avevamo lasciato la donna sconsolata mentre osserva le ragazze che giocano a basket.
Un nuovo incontro casuale con Bea le reca qualche altra notizia della sua Antía, che vive in Svizzera con la famiglia ed è venuta a sapere che sua madre abita ancora nel vecchio edificio di Madrid.
Ava, l’amica scultrice, colpita da un male incurabile, mette Julieta al corrente del ruolo negativo svolto da Marian (Rossy de Palma), la domestica di Xoan, segretamente innamorata del padrone e gelosa della nuova padrona, che ha seminato zizzania tra la madre e la figlia.
Alla fine Julieta riceve una lettera da Antía, la quale le comunica che il maggiore dei suoi tre figli, un maschietto di 9 anni, ha perso la vita mentre faceva il bagno in un torrente. Straziata dal dolore, Antía si rende conto del dolore che lei stessa ha provocato alla madre quando l’ha lasciata senza dire una parola.
Julieta parte subito per la Svizzera. A Lorenzo, che l’accompagna in automobile, dice: «Non farò domande. Non dirò nulla. Cercherò soltanto di starle vicino, se me lo consente…». «È lei che ha messo il suo indirizzo nella lettera», dice Lorenzo.
Termina così l’ultimo film di Almodóvar. Uno spiraglio di luce si apre nella vita di una donna che una sinistra fatalità ha reso prigioniera dei giudizi formulati sul suo conto, ma mai resi espliciti a parole, espressi con sguardi enigmatici e severi da parte di persone che hanno travisato le sue azioni, attribuendole intenzioni che non le sono mai passate per la mente.
Questo rapido excursus attraverso il cinema di Almodóvar non finisce con il suo ultimo film, ma, facendo un passo indietro, con un ritorno al penultimo, Gli amanti passeggeri (Los amantes pasajeros, 2013). Un banale incidente causato da due impiegati dell’aeroporto di Madrid provoca un’avaria ai carrelli dell’aereo diretto a Città del Messico. Sospesi nei cieli sopra Toledo, in attesa di poter tornare al punto di partenza, i passeggeri e l’equipaggio si confrontano e si scontrano intrecciando i loro destini. Per calmare gli animi, gli steward e le hostess aggiungono qualche goccia di sonnifero, mescolato con sostanze stupefacenti, alle bevande servite ai passeggeri, che si addormentano.
Sull’aereo sono presenti i personaggi più svariati: Norma (Cecilia Roth), maestra del bondage, in pericolo perché sullo stesso velivolo viaggia un killer da incaricato di ucciderla; Bruna (Lola Dueñas), veggente ansiosa di perdere la sua verginità; Ricardo (Guillermo Toledo), divo di telenovelas, che continua a comunicare con la terraferma attraverso telefonate alle sue ex; il signor Más (José Luis Torrijo), banchiere in fuga per una serie di operazioni finanziarie illegali; una coppia di sposini tossicodipendenti in viaggio di nozze (Miguel Ángel Silvestre e Laya Martí).
Il tempo passa e sull’aereo ne succedono di cotte e di crude.
Dopo aver consumato il carburante in eccedenza, il velivolo atterra nello stesso aeroporto da dove era partito. Non è successo nulla.
Ma la momentanea sospensione dei freni inibitori, per effetto del sonnifero e della droga, fa sì che qualcosa sia cambiato nella vita di tutti i sopravvissuti.
L’aereo degli Amanti passeggeri è come una metaforica arca di Noè, che si presta ad accogliere un campionario dei casi disparati che Almodóvar ha descritto nei suoi film, dipingendoli con colori grotteschi, ma senza trascurare il senso tragico della vita che si nasconde dietro ciascuno di essi.
Su questo aereo potrebbero trovare posto gli squilibrati eroi della movida di Labirinto di passioni, le religiose di Entre tinieblas, con il loro tigrotto viziato, gli amanti tragici de La legge del desiderio, le eccentriche Donne sull’orlo di una crisi di nervi, Leo spaesato in una città con la madre amante dell’aria sana dei campi del Fiore del mio segreto, le amiche premurose di Tutto su mia madre, le donne in coma di Parla con lei, i collegiali maltrattati de La mala educación, i fantasmi di Volver, gli amanti che cercano l’immortalità tra le rovine di Pompei ne Gli abbracci spezzati, lo scienziato pazzo e le sue vittime ne La pelle che abito, senza dimenticare Julieta e Antía, madre e figlia finalmente ricongiunte.

(La Civiltà Cattolica 2016 IV 340-355 | 3994 - 26 novembre 2016)