(NPG 1973-08/09-26)
Che significa «famiglia aperta»?
Abbiamo offerto una risposta teorica, costruita a tavolino nel confronto dei pareri e delle riflessioni.
Ora ribaltiamo il quadro: la stessa meta è individuata a partire dalla vita vissuta. Ad alcuni amici, abbiamo chiesto: qual è il progetto di famiglia che cercate faticosamente di costruire giorno su giorno?
Sono nate le risposte che trascriviamo di getto dal registratore.
Ci siamo accorti di un fatto: il progetto di famiglia che ogni coppia ha maturato per sé filigrana tanto le singole banali cose quotidiane da trovare difficile il tentativo di concettualizzazione che l'intervista richiedeva. La vita era vissuta tanto intensamente, da non apparire neppure come un interrogativo.
Alcune cose vanno premesse, comunque, per rendere comprensibile appieno la rassegna: sono le chiavi di lettura con cui sono state scelte e riscritte le singole esperienze.
• Il progetto di famiglia aperta traspare dall'insieme delle esperienze: ciascuna offre una tessera di un più largo mosaico. Assolutizzarne una, come parametro per le altre, significa tradire l'insieme.
• Per molti, le esperienze potranno essere avvertite... dall'altra sponda, tanto sembrano lontane dal logorio delle cose di tutti i giorni. Potrebbe essere vero, anche se un'interpretazione del genere offenderebbe i singoli protagonisti. L'impressione può dipendere dalla necessaria coagulazione di valori, che costringe a sfuocare i contorni e a stemperare le distanze: quando una vita è ridotta a poche battute, le sfumature non possono trovare accoglienza.
• Molte esperienze indicano soprattutto l'equilibrio raggiunto piuttosto che le fatiche spese per raggiungerlo. Questo lavoro di interpretazione è nelle mani dell'educatore.
Egli offre ai suoi giovani un modello, capace di mettere sull'attenti perché affascinante. Ma assieme, in una rincorsa di contributi, legge tra le righe per evidenziare scelte e motivazioni, fatiche e sussulti, tranquillità conquistata e quotidiana ricerca.
E così nessuno diventerà modello definitivo per l'altro. Ma ciascuno potrà inventare un progetto di sé utilizzando, come materiale di costruzione, le proposte che queste pagine condensano.
I PRIMI PASSI DI UNA FAMIGLIA APERTA
Elisabetta e Sergio sono sposati da pochi mesi. Impegnatissimi prima del matrimonio, non hanno voluto tirare i remi in barca neppure dopo. La vita quotidiana rulla i progetti. Giorno per giorno si è costretti a fare i conti con le mille cose che intralciano i grossi sogni.
A contatto con la realtà, l'utopia si stinge, si ridimensiona, fino a diventare qualcosa di serio, di «vivibile».
L'esperienza è stimolante proprio per questo continuo sapore di concreto.
Sposandovi, avete progettato di costruire una famiglia aperta. Dopo qualche mese di matrimonio, che significa famiglia aperta? Quali difficoltà avvertite?
Lo spazio del nostro impegno più serio e più ampio è la scuola. Insegniamo tutti e due, nella stessa scuola media. Ci era stata offerta la possibilità di inserirsi nell'università. Abbiamo fatto un piccolo consiglio di famiglia... E abbiamo detto di no. Abbiamo detto di no anche all'industria. Le proposte non coincidevano con la nostra scala di valori. Cerchiamo un contatto umano, semplice, per vivere una proposta educativa a livello semplice...
Nella scuola la nostra testimonianza sta nella ricerca di un rapporto umano e personale tra allievo e insegnante. Sta nel tentativo di creare uno spazio di amicizia.
All'interno di questa dimensione, cerchiamo di progettare una scuola «diversa», per contenuti che mettiamo in circolazione e per gli atteggiamenti a cui vogliamo educare.
Accanto alla scuola, abbiamo cercato di conservare un contatto di servizio con l'oratorio, attraverso la partecipazione con responsabilità ai gruppi e la catechesi ai ragazzini. Sta nascendo un tentativo di doposcuola. Certo che prima del matrimonio, o magari nei nostri sogni di fidanzati, le cose apparivano diverse. Sembrava tutto più facile e più roseo.
Le difficoltà si accavallano. Ci sono i problemi soliti: quelli di tutte le famiglie. Non pensiamo alla macchina più grossa, a guadagnare di più, alla casa sempre più bella. Queste prospettive le abbiamo scartate in partenza. Però in casa ci sono un sacco di lavori da fare... e il poco tempo libero se ne va. Sembra quasi di rubare tempo al servizio agli altri.
Quando facevamo i nostri progetti, sulle ali della poesia, queste cose non entravano mai all'ordine del giorno. Ma era un grosso errore.
Come fate rimbalzare le vostre attività e i vostri problemi all'interno della famiglia?
Abbiamo deciso di dividere tutto per due e di compartecipare a tutto. E cerchiamo di tener duro.
A casa discutiamo della scuola, il nostro «secondo» mondo. Ci si scambia le impressioni. Si progettano le soluzioni. Con una preoccupazione di fondo: di non ridurre mai l'esperienza familiare a valvola di scarico delle tensioni immagazzinate a scuola. È facile consolarsi reciprocamente... Ma allora praticamente la famiglia diventa motivo di integrazione. Questo non lo vogliamo proprio.
È facile adagiarsi. Basta non reagire e tutto fila via liscio. La famiglia diventa una remora, un limite. Una piccola calda culla di egoismo. Per fortuna ci siamo posti questi problemi già da fidanzati. Ci siamo detti, con decisione: ci sposiamo per aiutarci reciprocamente ad impegnarci di più, a liberarci di più... Lo stare assieme deve diventare per noi un aiuto reciproco a fare le cose meglio e con più slancio. Non sempre ci troviamo in sintonia: ciascuno di noi cerca di pensare le cose con la propria testa. Solo a questa condizione, ci pare di sentirci liberi, nell'amore che ci portiamo.
L'impegno dei genitori si riflette sui figli. Genitori superimpegnati, non hanno mai un briciolo di tempo per i figli. Genitori disimpegnati prospettano un modello consumista. Nei vostri progetti, come avvertite il problema?
Ci stiamo pensando. Crediamo che, come sempre, le cose vadano previste alla lontana, per non essere ingoiati dal trantran.
I bimbi avvertono istintivamente le scelte dei loro genitori. Se percepiscono che i genitori sono occupati da molti impegni seri... tutto questo è una proposta educativa precisa anche se implicita.
Se invece le preoccupazioni dei genitori sono di mettersi in mostra, di arrampicarsi su per la scala sociale, di agire sotto la spinta dell'egoismo... C'è una condizione, cui crediamo. I bimbi devono partecipare, come possono, alle attività e ai progetti dei genitori. Abbiamo deciso di renderli il più possibile partecipi alle nostre esperienze, condividendo con loro azioni e significati.
Tutto questo... per il momento è a livello di progetti.
Ma un po' di progetti, magari colorati di sogno, non guastano mai.
FACCIAMO OMG PER NON DIVIDERCI!
Cari papà e mamma. Scusate il tono confidenziale ma da quando ci avete fatto il regalo della Claudia, io vi considero tali anche per me e vi voglio sinceramente bene. Vi scrivo due righe per parlarvi di un capitolo della vostra vita che diversamente vi resterebbe un po' sconosciuto.
Forse eravate un po' perplessi prima che la Claudia partisse per l'Equador, circa la riuscita del suo lavoro, conoscendone il carattere a volte un po' duro. Bene. lo devo tranquillizzarvi su tutto. La fortuna del nostro gruppo è stata quella di ritrovarvi gente di buon senso.
La Claudia per me è stata molto buona con tutti. Mai di peso a nessuno. Non si è mai offesa per niente. La cosa che mi ha impressionato di più di lei: la serenità. L'ho vista sorridere sempre. Una serenità non fatta di superficialità. Un sorriso che le nasceva dentro. Non credo che non abbia avuto difficoltà o amarezze. Tutti ne abbiamo avute. Però posso dire che ha sempre conservato la sua pace. Questa le nasce da valori che ha ben radicati nel cuore. Che a sprazzi non le riusciva di tener nascosti solo per sé. Mi sono reso conto che questa ricchezza, anche se spesso nascosta, è stata la ricchezza del gruppo.
Avrei tante altre cose da dirvi. Ma non era mia intenzione farvi un panegirico. Volevo solo ringraziarvi, cari papà e mamma, perché ci avete fatto un bel regalo. Grazie».
Abbiamo scelto qualche battuta di una lettera per situare una esperienza. Descrive, per riverbero, una famiglia dove la totale disponibilità agli altri è il perno del calore familiare.
(L'OMG – Operazione Mato Grosso –, di cui si parla in questa esperienza ed in una successiva, è un movimento di servizio al Terzo Mondo che organizza «spedizioni» in America Latina, con l'appoggio dei gruppi operanti in Italia. Al suo interno stanno sorgendo esperienze di volontariato a lungo termine).
In Italia, tutti i gruppi dell'OMG conoscono la vostra casa, almeno di fama... Sanno che, a qualunque ora del giorno e della notte, si trova la porta aperta. Certo, tutto questo è bello, è poetico... ma pone un sacco di problemi! Perché l'OMG è diventato un affare di famiglia?
Noi vogliamo stare uniti, sempre e a tutti i costi.
Stringi stringi, possiamo dire che abbiamo incominciato a fare OMG per poter stare assieme, per non dividerci.
Ci spieghiamo.
La nostra è un po' una famiglia ideale: almeno così la pensiamo noi. Abbiamo tre figli, tutti distanziati nel tempo. Questo ci ha permesso di perpetuare la famiglia quasi all'infinito. Viviamo sempre in uno spirito giovane: perché c'è sempre un ragazzo giovane che porta giovinezza in casa. Uno va all'università. L'altro fa le superiori. Il terzo le elementari. Claudia ha scoperto l'OMG. E ce l'ha portato in casa.
In un primo tempo questo fatto ha creato un po' di crisi.
Papà e mamma ci siamo detti: o la lasciamo fare e allora se ne va per suo conto e addio famiglia. O ci coinvolgiamo anche noi: facciamo dell'OMG un affare di famiglia. Abbiamo scelto la seconda strada. Fare degli affari dei ragazzi un affare di tutta la famiglia è un impegno serio. Bisogna rinunciare a tante cose. Bisogna diventare un po' diversi. Certo, oggi non torneremmo indietro.
Molte cose sono cambiate. Le nostre amicizie sono sparse in tutta Italia.
Abbiamo aumentato a dismisura il numero dei nostri figliuoli. Perché ci sono tanti ragazzi che si buttano nell'impegno per recuperare un po' di quell'affetto e fiducia, che in famiglia non hanno trovato. Quando scoprono una famiglia in cui poter credere... non si staccano più: diventano figliuoli a pieno diritto.
In casa la pace, nel senso normale del termine, è un sogno, ormai... Ci sono dei giorni che è un via vai continuo. Qualche volta dormiamo accampati, tanto la casa è piena.
Soprattutto è cambiata la gerarchia dei valori. Non viviamo e lavoriamo per avere soldi, per consumare. Viviamo per essere e rendere felici. Conosciamo i genitori di un ragazzo coetaneo di nostro figlio. Vivono affaccendati mattino e sera. Lo coprono di regali, per compensarlo del tempo che gli rubano. A nostro figlio di regali ne facciamo pochi: non ha ancora la bici nuova. Ma condivide tutto quello che circola in famiglia.
Con un ritmo del genere, non c'è il pericolo di svuotarsi? La famiglia lentamente diventa un albergo, dove sì va a mangiare e a dormire e basta. Avvertite questo rischio? Quali momenti mettete in programma per coltivare, nell'intimità familiare, l'impegno e la disponibilità verso tutti?
Se avvertiamo il rischio? Lo sentiamo vivamente, giorno per giorno. Ogni tanto la mamma che è la più sensibile, alza le braccia in segno di resa. Dopo una settimana di traffico più intenso del solito, grida: «Basta! Fuori tutti!». È uno sfogo: un proposito che finisce al primo squillo di campanello.
D'altra parte, in questi momenti di pace conquistata, viviamo fino in fondo la nostra intimità familiare. Sono questi momenti che ci danno la spinta a continuare. A spalancare nuovamente la porta al primo che bussa. Ci sono altre cose, piccole cose, a cui teniamo tanto.
Spesso noi discutiamo, magari con calore. Sembra una cosa da nulla. In queste discussioni vengono fuori tutti i problemi: le cose di uno diventano patrimonio di tutti.
Le nostre discussioni avvengono normalmente a tavola. I pasti sono un momento importante per la nostra intimità familiare: sono un punto fisso di incontro. Ci si aspetta sempre, per pranzare tutti assieme. Chi è fuori, interrompe gli impegni per giungere a casa a tempo. Se ci sono ritardi, un colpo di telefono rassicura e invita ad attendere. È una forma di rispetto. Soprattutto è la ricerca di uno spazio tranquillo, proprio per permettere di incontrarci e di condividere.
Tutto questo è possibile perché abbiamo cercato di educare i ragazzi a due atteggiamenti complementari: a non avere paura di nulla e tanto meno di papà e mamma e quindi a portare in casa tutto.
La sincerità è lo spazio fondamentale dei nostri rapporti. A papà e mamma i ragazzi dicono sempre tutto. Preferiamo saperli nel pericolo, piuttosto che non sapere nulla.
Con questo modo di fare, le cose dei figli sono di papà e mamma, e viceversa. Claudia ha scoperto l'OMG. È diventata una cosa di tutti.
Claudia, la più grande, interrompe papà e mamma. Vuole confermare. A 20 anni c'è il rischio di voler scappare dal valori familiari per sentirsi liberi, per sentirsi realizzati...
Non ho paura dei miei genitori. Posso sbagliare tante volte. La prima persona cui chiedo una mano è papà e mamma. Perché cercare altrove? Perché nascondere qualcosa?
Abbiamo fatto una vera comunione di valori: i valori di papà e mamma sono i nostri e viceversa.
Avevo un amico. E morto di cancro due mesi fa. Da amico mio è diventato amico di tutta la mia famiglia. Passava ore e ore in casa, anche quando io non c'ero. Così per tutti gli altri. A don Ugo ho detto: devi venire a casa mia. Se non partecipo alla mia famiglia quello che vivo, mi pare di viverlo solo per metà.
Non ci riesco a tenere qualcosa per me.
Non è che le idee combacino sempre. Anzi. Spesso piantiamo delle litigate favolose. Eppure ci ritroviamo sempre d'accordo. Anche perché ci siamo messi d'accordo su un punto, fondamentale per noi e per l'OMG: ascoltare sempre l'ultimo. È difficile, quando si ha «esperienza», si crede di sapere qualcosa, ascoltare l'ultimo...
Ogni tanto qualcuno mi dice: tu sei fortunata; hai dei genitori che ti capiscono. Rispondo sempre così, ci credo profondamente: tu parli con i tuoi genitori? Dici loro tutto? Li fai partecipare alla tua vita? Se li tieni fuori, con la forza, perché ti lamenti che non ti capiscono?
Nei tre mesi che ho passato in Equador, la cosa che mi mancava di più era la mia famiglia: il distacco fisico, il non poterci più parlare.
Di rimbalzo parte Walter, il secondo dei figli. Racconta un episodio, l'ultimo in ordine di tempo. Le parole fluiscono veloci, come quando si ragiona sulle cose di tutti i giorni.
Eravamo a Milano, all'aeroporto per accogliere il gruppo che veniva dall'Equador. Con un gippone, carico degli amici della zona. Alle 10 di sera tutto è concluso. Si tratta di decidere: pernottiamo a Milano e ripartiamo al mattino o ci mettiamo in viaggio subito? Una nebbia feroce consigliava di fermarsi: il ritorno significa 5 o 6 ore di macchina, molte delle quali in mezzo al nebbione.
Impegni urgenti chiamano qualcuno del gruppo a casa nella prima mattinata. Quindi, decidiamo di partire subito.
Problema: telefoniamo a casa? Diciamo che ci fermiamo a Milano e invece ripartiamo?
La decisione è subito raggiunta: ripartiamo e diciamo che ci fermiamo; così i genitori non stanno in pensiero.
Io mi sono opposto. Mi pareva una cosa stranissima. Mentire?
Non posso tacere nulla a papà e mamma. So che preferiscono sapermi in viaggio tra la nebbia e passare una notte insonne, piuttosto che sapermi al sicuro... ma falsamente!
Separiamo le responsabilità. Io telefono a casa e comunico come stanno le cose. Papà e mamma si impegnano a non dire nulla ai genitori degli altri amici.
Per me è inconcepibile mentire in casa: significherebbe aver paura di mio padre e di mia madre. Sarebbe come tradire una comunione che abbiamo faticosamente costruito giorno per giorno, tutti assieme.
LA NOSTRA FAMIGLIA NEL MONDO CHE CI STA ATTORNO
«Sono trent'anni che lavoro in fabbrica. Anche mia moglie lavora. È tornata al lavoro per una scelta maturata assieme. Il bilancio familiare non quadrava. I dirigenti mi avevano offerto di diventare capo-reparto: lo scatto di stipendio sarebbe stato prezioso. Ma mi pareva un tradimento nei confronti dei miei compagni di lavoro. E così sono rimasto semplice operaio. Mia moglie arrotonda lo stipendio con il suo lavoro.
L'ambiente di fabbrica è duro. Ho passato dei momenti tremendi: per affrontare una società che non volevo accettare.
Poi mi sono tirato su le maniche. Abbiamo costruito il consiglio di fabbrica: ci siamo trovati in una decina di amici, tutti credenti.
Adesso le cose sono abbastanza cambiate. Mi pare che questa situazione nuova, più pulita, che abbiamo creato, sia un buon segno della nostra fede. I miei figli, quando entreranno in fabbrica, non troveranno più il clima che ho trovato io. Con il nostro lavoro sindacale abbiamo fatto spazio perché i nostri figli si inseriscano meglio nel mondo del lavoro.
Non c'è quindi distinzione tra la mia famiglia e la fabbrica: è inutile che, mia moglie e io, lavoriamo per farci un cantuccio felice in casa, quando poi la fabbrica è un inferno...
Lo stesso vale per il quartiere: domenica scorsa ho fatto giocare i bambini del rione. Poi abbiamo pregato un po'. Si crea, lentamente, una dimensione più umana. La mia famiglia si allarga, per i miei bambini...».
Una coppia di operai, di una semplicità e concretezza incantevole.
In una serata da ricordare, ci hanno parlato del loro impegno «fuori», per la verità del loro volersi bene, in famiglia.
A bruciapelo: quattro parole per descrivere il vostro progetto di famiglia. Che cosa vuol dire, per voi e per i vostri due bambini, essere «famiglia» oggi?
Una famiglia chiusa è un fallimento. Essere «universale», aperta, è una esigenza della famiglia stessa. La nostra bambina ha bisogno degli altri. Se non facciamo qualcosa per il rione, trascuriamo una parte delle nostre responsabilità nei confronti dei bambini.
Può sembrare strano. Lavorare nel rione per essere vicini ai nostri bambini... Eppure, per noi è così. Ormai abbiamo una certa esperienza alle spalle che ci fa concludere non esistere altra possibilità.
I nostri vicini di casa sono i primi amici dei nostri figli. Se essi non condividono con noi un certo modo di pensare alla vita e al domani, come possiamo educare veramente i nostri figli? In casa sentono una cosa e fuori il contrario...
Lo stesso vale per la fabbrica. Domani i bambini andranno a lavorare in fabbrica. Che ambiente troveranno? Quello che noi faticosamente abbiamo costruito oggi. Quindi scegliere di lavorare a fondo nei sindacati, per cambiare quello che si può cambiare, significa essere vicinissimi con i fatti ai nostri bambini.
Però bisogna essere concreti e non vivere di sogni.
Lo sbaglio di sognare ad occhi aperti l'abbiamo fatto anche noi, prima di sposarci e appena sposati. Non avevamo i piedi per terra. Dicevamo: tutto per gli altri. E ci dimenticavamo di essere prima di tutto «coppia». La nostra casa, arredata con il minimo indispensabile per sopravvivere, era una piccola comunità, tante erano le persone che ci abitavano e che giravano per casa. L'entusiasmo...
Ma poi ci siamo trovati vuoti. E oggi sentiamo il dovere di recuperare. Anche il contrario è un grosso errore: una famiglia chiusa diventa subito egoista e non educa i figli, anche se sembra che tutto il tempo sia per loro. Bisogna inventare il giusto equilibrio: costruirsi come coppia e lanciarsi.
Ci vuole un'infinità di tempo per imparare a conoscersi e quindi a costruirsi come coppia. Quante volte uno interpreta l'altro... sbagliando tutto.
La famiglia non è stare in casa: perché i bambini hanno bisogno del rione e della fabbrica. Ma prima di tutto «famiglia»: quindi effusione, capirsi, raggiungere, magari a fatica, un'unità di azione tra marito e moglie,
Se ho capito bene, la famiglia si fa cercando di raggiungere un modo comune di vedere e di pensare, mentre ci si apre a tutto quello che sta attorno...
È verissimo. Noi vogliamo, come coppia, essere d'accordo su un fatto piccolo ma tanto grande: che significa essere e vivere felici... Da questo dipende tutto il resto.
Il nostro sforzo più attento, proprio come coppia, è di non lasciarci prendere dai soldi. Vogliamo lavorare quel tanto che ci basta per vivere. Abbiamo cercato di disporre le cose in modo da poter vivere tranquillamente. Abbiamo due bambini e lavoriamo tutti e due. Ma abbiamo sfasato i turni: in modo da poter essere sempre vicini ai nostri bambini, mezza giornata per uno. Non possiamo concederci tanti lussi... ma è la nostra scelta e non abbiamo rimpianti. Non vogliamo dimenticare i bambini per essere schiavi delle cose da comprare.
Purtroppo, anche nell'ambiente operaio, sta facendosi strada un'ansia di soldi: il bambino diventa presto l'ultima cosa. Prima c'è la macchina, il mobile più bello, magari la pelliccia.
Bisogna capire: è facile giudicare e condannare stando fuori.
L'operaio ha sofferto nel passato. Ci basta tornare un po' indietro nel tempo per convincerci: quante cose, anche indispensabili, non abbiamo mai avuto... E quindi cerca di dare al figlio quello che lui non ha avuto. Ma non è questa la soluzione.
Il bambino ha bisogno prima di tutto dei genitori: cerca i genitori e non ci sono, perché sono al lavoro, forse per guadagnare qualcosa di più da donare ai figli.
È un modo sbagliato di dare ai figli... La nostra grande fortuna, quando eravamo piccoli, era la presenza continua dei genitori. Il resto ci è mancato. Ma che importanza ha?
Su questi temi tanto importanti, discutete tra voi? I problemi che ciascuno avverte nel suo ambiente di lavoro (perché, mi pare, voi lavorate in luoghi diversi...) rimbalzano sulla vostra vita a coppia?
Sì, per forza! Altrimenti non riusciremmo a trasmettere ai figli le nostre scelte.
Qualsiasi cosa capiti sul lavoro, ce lo raccontiamo a vicenda. I nostri bimbi sono sempre presenti. Sono molto piccoli. Magari non avvertono bene il senso delle cose che diciamo. Ma i punti importanti rimangono loro impressi dentro, più di tutte le cose che imparano a scuola.
Domani diranno: «Papà o mamma hanno fatto così... Quindi anch'io...». L'ultimo episodio. In un giorno di sciopero, un amico viene a trovare papà. Non è in casa. La mamma dice che è al lavoro. Interviene immediatamente la bambina (5 anni) e pronta: «Papà non è a lavorare. È a tener fuori dalla fabbrica quelli che vorrebbero andare a lavorare nel giorno di sciopero!».
Non contano le cose che riempiono la casa; conta l'amore. Quando mancano le cose ma c'è l'amore, l'amore salva. «Ho una mamma che mi vuol bene»: se si è amati da bambini, si è salvi.
I bambini devono imparare dai loro genitori una cosa grandissima: il valore e il rispetto per l'uomo, fino in fondo. Ce n'è un gran bisogno, anche nella fabbrica dove l'uomo spesso è valutato solo in base a ciò chefa...
Quando incontro il mio principale, mi viene sempre spontanea questa preghiera, che mi preoccupo di insegnare ai miei bambini: «Ti ringrazio, Signore, di essere rimasto povero, perché se non avessi passato tutta una vita così, non avrei imparato a capire l'uomo, a capire fino in fondo la lotta per l'uomo. Davvero beati i poveri di spirito!».
6 FIGLI E TANTISSIMI IMPEGNI...
L'agenda di una settimana. Una delle tante. Tutte le sere occupate. Tranne il giovedì, per ora. Incontro di équipe. Una sera con i fidanzati, per il CPM. Sabato con un gruppo di giovani che vuole pensare alla famiglia partendo dai fatti. Quattro chiacchiere con un gruppo di sacerdoti interessati alla pastorale prematrimoniale. Partecipazione alla commissione «catechesi e famiglia» dell'U.C.D. Per sopportare un impegno così carico, senza farlo pesare a scapito dei 6 figli, dall'agenda settimanale è stato tolto il cinema, il teatro e i concerti.
Eppure è una famiglia felice. Perché?
Con tanti impegni sulle spalle, non c'è il rischio di perdere lentamente l'intimità della famiglia?
Il rischio c'è. Ed è forte.
Ma non è l'unico. Sul piatto opposto della bilancia è incombente il tentativo di chiudere il cerchio tra famiglia e lavoro. Ci sentiremmo molto limitati. Probabilmente si finirebbe per lasciarsi assorbire tutto dal lavoro, a scapito del nostro amore.
Quindi benvenuti tutti questi impegni!
Il problema è un altro: riuscire a trovare un equilibrio tra i due poli opposti. Tra il lasciarsi mangiare da tante attività e la ricerca dell'intimità familiare.
L'equilibrio non l'abbiamo ancora trovato. Ci sono però delle linee di tendenza: certe cose in cui crediamo e che ci sorreggono.
Quali? È difficile dirlo a parole.
Prima di tutto abbiamo la convinzione radicata che se noi fossimo «chiusi», dedicati solo alla famiglia, se, in altre parole, mettessimo la famiglia in primo piano, impoveriremmo non solo noi ma anche i nostri figli. Certo, ai figli togliamo un po' di vicinanza fisica... I nostri impegni ci fanno diversi, diventiamo diversi, come speranza, come tensione, come sensibilità. Tutto questo si riversa su di loro. Essi lo respirano. Con noi maturano la nostra stessa sensibilità: nell'impegno, nel servizio agli altri, nella coscienza della responsabilità sociale.
C'è una seconda tensione in cui crediamo. Tutto quello che facciamo, sempre lo compiamo assieme, come coppia. Non c'è nulla che il padre faccia a cui la mamma non compartecipi o viceversa. Magari si fanno cose diverse, per tante ragioni. Ma la sostanza, quella, viene sempre creata assieme: ci prepariamo assieme, gli argomenti sono maturati assieme, gli ideali che sottostanno ad ogni attività sono creati e condivisi assieme. E questo, anche senza volerlo, si riversa sui nostri figli. Sentono che papà e mamma si vogliono bene, fino a condividere proprio tutto.
E c'è una terza cosa, che vogliamo sottolineare, perché ci crediamo molto. I figli non sono «nostri», non sono il nostro terreno di dominio. Ci sono affidati. Dobbiamo accompagnarli. Non farli come siamo noi. E una grossa responsabilità, perché comporta il pieno rispetto della loro libertà. Non tanto della loro libertà di bambini, quanto della loro libertà di uomini in crescita.
In un certo senso, noi ci sentiamo al servizio della nostra famiglia quasi nella stessa maniera con cui siamo al servizio dei fidanzati, dei giovani che incontriamo...
Noi due ci sentiamo molto più marito e moglie che genitori... Ci spieghiamo. Tra noi c'è un legame totale, fortissimo. Il fatto di essere in due, noi due, è il sostegno di tutta la nostra vita.
Nei confronti dei figli viviamo invece soprattutto in atteggiamento di servizio, di un amore che non è viscerale, che non è possessivo. I nostri figli sono degli uomini, anche se la maggiore ha solo 10 anni. Un uomo che ora vediamo bambino, con tutte le crisi, i difetti, i problemi che questo comporta. Verso quest'uomo in crescita abbiamo una responsabilità enorme. Evidentemente la prima e la prioritaria. Li vediamo come un dono che ci impegna. Perché sono un arricchimento, una gioia, una disperazione.
L'amore che noi due ci portiamo serve ai nostri figli. La nostra è una famiglia felice.
Le suggestioni sono molto interessanti. Il problema però rimane: il tempo è quello che è: sempre poco... I vostri figli sono ancora molto piccoli. Non avete l'impressione che le molte attività vi saranno un giorno rimproverate dai bambini cresciuti... come tempo «tolto» a loro?
Non crediamo di togliere molto tempo ai nostri figli. E d'altra parte ci fidiamo della Provvidenza.
Siamo a contatto con molte famiglie: alcune impegnatissime e altre un po' di meno. Il rapporto con i figli... non dipende generalmente dal volume di impegni!
Non è questione di tempo, ma di disponibilità. È importante essere attenti a parlare con loro, quando ne hanno bisogno.
Attenti e preparati.
Ritorna quanto si diceva prima.
Il tipo di lavoro che noi facciamo ci porta a stare molto con i giovani. Questo ci aiuta a capirli, a conoscerli, a comprendere i mutamenti. Abbiamo la speranza di essere «preparati» a parlare con i nostri figli, a capirli di più domani, a non restare scavalcati.
Un'altra cosa ci pare importante.
Già da adesso noi cerchiamo di fare partecipare i nostri figli a tutto quello che facciamo: nei limiti del possibile, a tutta la nostra vita. Pregano spesso con noi. Sanno dei nostri problemi e delle nostre preoccupazioni. I nostri amici sono i loro amici.
I nostri figli e i nostri impegni sono cresciuti assieme, nel tempo. Sono un dono.
Voi parlate spesso con giovani fidanzati. C'è qualcosa che vi sta molto a cuore, che vorreste comunicare a tutti i costi?
Sono tante le cose che vorremmo dire. Le abbiamo imparate dalla nostra vita.
Ci pare importante partire dall'insistenza sul valore della coppia: essere sempre in due a fare tutto. L'isolamento è la morte.
E poi la fede...: la vita è difficile. Senza un briciolo di fede, ci sono giornate buie, impossibili.
Insistiamo spesso e volentieri sulla necessità di non isolarsi. Perché da soli, anche se si è in due, è difficile farcela. Non basta avere dei buoni amici. Ci vuole qualcosa di più. Nei nostri gruppi (équipes Notre-Dame e CPM) siamo tutti dei buoni amici. Ma c'è quel di più. Sentiamo la presenza del Signore: è la vita di fede che scorre nella comunità. La comunità non è prima di tutto il vivere nella stessa casa, lo scambio dei beni... sono cose secondarie. Comunità è totale disponibilità, è accettazione dell'altro, la coscienza di essere fratelli, perché l'hai capito sulla tua pelle. In un gruppo che vive così, la coppia viene alimentata in quanto coppia. Può sembrare strano. La nostra esperienza lo conferma. Assieme agli altri, ci sentiamo più uniti. Ci scopriamo più «noi». Impariamo a volerci più bene. Ad amare di più.
LA NOSTRA CASA È IL TERZO MONDO
«Ho incominciato a lavorare nell'Azione Cattolica. Poi il servizio militare e le prime crisi. L'attività nell'Azione Cattolica non mi bastava più. Mi pareva non quadrasse a puntino con le mie attese. Con alcuni amici abbiamo deciso di tentare strade nuove. Abbiamo conosciuto l'OMG. E ci siamo buttati anima e corpo. Sono partito.
È stata un'esigenza normale, una cosa giovane: guardarsi attorno, stufarsi di quello che si ha d'intorno, credere nella necessità di lavorare per coloro che sono privi di tutto. E partire. Cinque mesi nel Mato Grosso. Poi, il ritorno. L'esigenza di cercare, di trovare qualcosa che ti riempisse dentro si faceva sempre più forte.
Discorsi politici? Ne abbiamo fatto tanti. Ma ho preso bastonate dentro, da tutte le parti. Mi sono sempre trovato più vuoto e più solo.
Ho avvertito la tentazione di sentirmi apposto, perché strapieno di parole grosse. Ho deciso di fermarmi. Di non tornare. DI lavorare e basta.
Ho conosciuto Rosita. Ci siamo fidanzati e poi sposati.
In due, la ricerca dì qualcosa che ci riempisse dentro è diventata più insistente e più facile. Ci siamo fermati due anni. In febbraio ritorneremo. Per quanto tempo? Non lo so. Ritorniamo e basta! Ritorniamo e poi vedremo!».
Per volersi bene è necessario fare dei progetti assieme, condividere un quadro di valori, un modo profondo di rapportarsi con gli altri e le cose. Se qualcuno vi chiedesse a bruciapelo: qual è il vostro progetto di famiglia... che risposta dareste?
Siamo partiti dalla ricerca di qualcosa che ci cambiasse dentro, che ci liberasse.
Ci sono crollati addosso un sacco di sogni: ideali che si frantumano perché non sono veri, il lavoro, la gente, le cose...
Ti rendi conto che sei vuoto dentro, che non sei niente. Che non puoi dare niente di serio agli altri, perché non sei e non hai niente. Lentamente abbiamo scoperto che dovevamo fare prima di tutto un discorso dal di dentro. Volevamo liberare gli altri (i soliti... rivoluzionari!), ma liberarli usando le macchine, i soldi, la forza. Non serve. L'abbiamo toccato con mano.
Dopo due anni di Mato Grosso, ci fa paura la gente del nostro paese. Sembra impazzita. Corrono a destra e a sinistra. Non sanno più fermarsi. Gente che crede nelle cose che tocca. Se gli mancano quelle cose, si disperano...
Abbiamo scoperto la necessità di raggiungere, di cercare disperatamente una tranquillità interiore. Una tranquillità strana. Che non ti lascia tranquillo. Ti rigira continuamente dentro. Ti butta per aria, fino a farti rifiutare tutte le cose che gli altri adorano... Questa è stata la nostra liberazione profonda. Un abito nuovo. Il nostro abito di nozze.
Ci piacerebbe che in tanti la pensassero come voi. Vorremmo liberarli, aiutandoli a vedere le cose così. Ma non per questo ci impalchiamo a dare consigli a destra e a sinistra. Si arrangino... facciano qualcosa: provino e sbattano la testa, come l'abbiamo picchiata noi. Questa è la liberazione. E questo è il sogno della nostra famiglia.
Questi discorsi sono stati maturati all'interno del vostro amore?
La domanda ha un risvolto più ampio. Ci sono un sacco di giovani che partono sparati. Poi si fidanzano. Si sposano. E tirano i remi in barca. Il matrimonio coincide con l'integrazione più nera.
Tutto questo è mancanza di coraggio.
Noi crediamo «assieme», a tutte le cose che abbiamo detto. Eppure abbiamo la convinzione che la famiglia non deve toccare queste cose. La famiglia, in quanto famiglia, per noi non c'entra. Può sembrare strano. Per noi la famiglia né lega né sostiene.
La cosa importante è la comunità: più larga e più vasta della famiglia. Questi discorsi li abbiamo maturati nella comunità: in quattro o cinque amici, con cui si condivide il lavoro e i progetti.
La famiglia è una «cosa» dentro la comunità. Uno spazio della comunità, dove forse è più facile capire fino in fondo le cose che girano nella comunità.
Mai la nostra famiglia è stata una cosa staccata dalla comunità. Eravamo tutti assieme: lavoravamo, mangiavamo, discutevamo, litigavamo, assieme. C'è un altro fatto.
Sempre ci vuole qualcuno che creda più degli altri, per trasmettere attorno a sé i valori cui crede. Si tratta di un discorso personale che si trasmette: dal marito alla moglie o dalla moglie al marito. Qualcuno deve «convertire» l'altro.
La nostra esperienza nei confronti di uno dei fatti cui crediamo di più? La povertà: una cosa in cui crediamo radicalmente. Una povertà vera, completa. Non discutiamo di povertà, tra di noi. Quando c'è una spesa da fare, la valutazione di povertà è istintiva. Non c'è bisogno di giudicare, di fare consigli... E un fatto talmente schiacciante che la moglie non ha bisogno di dire nulla al marito. È inutile parlare di quelle cose. Ci si crede e basta.
D'accordo: ci si dà una mano, quotidianamente. Ma può essere anche un amico che ti dà una mano. Può essere, come di fatto è, la comunità che ti dà una mano.
Se sei vuoto dentro, che cosa regali a tua moglie? La macchina, la pelliccia, la bella casa, tanti o pochi bambini... Ma che cosa sono? Che cosa dai? Per donare qualcosa, ci si deve aiutare reciprocamente ad essere poveri. Il futuro?
Torneremo giù, nel Mato Grosso. Per starci. Fino a quando? Non lo sappiamo. Non ci interessa. Andiamo per vivere in povertà. Non la povertà degli stranieri. Non vogliamo soldi. Vogliamo vivere con la gente del posto. Vogliamo pregare e pensare un po' alle cose, nel silenzio. Come S. Paolo: è stato tre anni nel deserto, prima di andare in giro a predicare... Cioè ha voluto indossare lui l'«uomo nuovo», prima di andare in giro a parlarne, prima di portare le «macchine», cioè lo sviluppo, l'educazione, la liberazione.
«Il resto vi sarà dato in soprappiù!». È una conseguenza di quello che siamo diventati. E il dono del Padre al nostro impegno di diventare un po' più persone libere. Per liberare.