Piet Schoonenberg
(NPG 1973-6/7-73)
Pastorale in difficoltà
«Rivelazione, Parola di Dio, Messaggio divino»: vocaboli che diventano oggi sempre più difficili da pronunciare. Sembra che si riferiscano a cose superflue e lontane dal nostro mondo. Prima di tutto, dal punto di vista formale, che significato può avere l'espressione «Dio parla» e «di che cosa» può Dio parlare? E poi, in prospettiva di contenuto, che significano i termini «Regno di Dio, Grazia, Redenzione»? Che senso ha parlare di Gesù Cristo, della chiesa e dei sacramenti? D'accordo, Cristo fu in ogni tempo «segno di contraddizione» e occasione di scandalo. Sarebbe anormale che avesse smesso di esserlo oggi...
Il problema non è qui. Il problema è che né Cristo né Dio, per la maggior parte dei nostri contemporanei, sono avvertiti come «scandalo». Dio e Cristo - meglio: i loro nomi - hanno perso di significato ai loro occhi. Il messaggio cristiano, ai nostri contemporanei, non appare assurdo o problematico ma semplicemente quasi privo di senso.
Si può tentare di spiegare il fatto partendo dalla secolarizzazione montante al giorno d'oggi. Letto da un certo punto di vista, il rapporto tra la pastorale e il processo di secolarizzazione in corso, può presentare motivi di un certo ottimismo, se non altro per il fatto che la secolarizzazione ha radici cristiane e può essere finalizzata ad una migliore comprensione del messaggio divino.
Se le cose stanno così, sarebbe troppo ottimistico pretendere di aver già inventato il linguaggio adatto per la proclamazione della Buona Novella! Del resto, è problematico definire il luogo stesso in cui l'uomo - il giovane soprattutto - può essere accessibile a questa proclamazione: la famiglia, la chiesa, la scuola? Il problema è aperto.
È facile costatare come i giovani che sono sensibili alla riflessione, al silenzio, alla vita religiosa, scelgono con preferenza le religioni o le tecniche psicologiche orientali come il buddismo Zen... invece di progettare un ritorno in massa verso il cristianesimo.
Quindi non dovrebbe meravigliare che la catechesi attuale tenti di affrontare la situazione in contropiede, cercando di sintonizzarsi con l'esperienza viva dei suoi presunti uditori. Questo aspetto è sempre stato esigito da una retta metodologia didattica e pedagogica. Che senso avrebbe proclamare un messaggio i cui termini fossero privi di senso per coloro cui sono destinati? Sempre quindi ci sono stati catecheti e pastori che si sono sforzati di impattare la loro catechesi con l'esperienza stessa degli ascoltatori. Purtroppo la preoccupazione era relativa quasi esclusivamente al mondo giovanile. Il celebre «metodo di Monaco» fu, ai suoi tempi, un modello di un tentativo di contatto, di «ponte gettato» tra il messaggio dottrinale e l'esperienza.
L'esperienza personale come contenuto pastorale
Da quei tempi ad oggi, di passi se ne sono percorsi... L'esperienza personale allora rappresentava «una testa di ponte» in vista della proclamazione del messaggio. Oggi è diventata contenuto, tema principale della catechesi stessa. Essa è quindi diventata interpretazione dell'esperienza, illuminazione dell'esistenza: si noti «dell'esperienza», cioè dell'esistenza concreta degli ascoltatori immediati di «questa» catechesi. I documenti ufficiali parlano ormai in questi termini.
Di fatto, possiamo fare queste costatazioni su realtà certe: prima di tutto il fatto di una catechesi intesa come interpretazione dell'esperienza e illuminazione dell'esistenza acquista diritto di cittadinanza lungo gli anni 60; secondo, questo fatto pone il problema del rapporto tra questa interpretazione e la proclamazione del messaggio. Quale è il luogo proprio di questa proclamazione? Problema posto qualche volta in forma alternativa: annuncio o interpretazione dell'esperienza, nella pastorale catechistica?
Ho l'impressione che questa alternativa sia erronea nella misura in cui un aspetto sia esclusivo dell'altro, riducendo la catechesi alla sola interpretazione dell'esperienza di colui che ascolta o al massimo, dell'uomo d'oggi. Non si tratta di esprimere adeguatamente questa esperienza. Si tratta di introdurre delle chiavi di lettura che derivino dal messaggio divino. Del resto, il messaggio, la rivelazione proclamata, rappresentano una esperienza vissuta, cioè il vissuto dell'avvenimento di Cristo. Quindi rivelazione e parola di Dio da una parte e esperienza personale dall'altra sono complementari.
Ed è ciò che desidero dimostrare, analizzando per parti, prima la rivelazione e poi l'esperienza.
LA RIVELAZIONE
Che cosa intendiamo per «parola di Dio»?
Rivelazione e parola di Dio sono usabili come sinonimi. Quest'ultima espressione è suscettibile di una riflessione che, pur essendo soprattutto d'ordine filosofico, non è meno utile all'aspetto teologico del problema. Poniamo i termini dell'interrogativo: «Che significa parola di Dio?». Come possiamo concepire un Dio che parla? Certamente non parla attraverso l'emissione di suoni e neppure come un interlocutore che si intrometta in un gruppo di discussione.
Dio non agisce mai secondo le modalità delle cause intra-mondane né si sostituisce ad esse. Egli non tiene il posto di un interlocutore umano. Dio è la Causa universale: è Lui che fa esistere la parola e l'azione, di chiunque agisca o parli. Affermare che Dio ci parla, facendo irraggiare la sua voce dall'alto dei cieli, può essere una bella immagine. Che tale avvenimento possa realizzarsi così come suona e che Dio imprima all'aria delle modulazioni e vibrazioni tali da costruire umane parole... è una possibilità che non siamo in grado di negare anche se ci appare difficilmente intelligibile. Parola e messaggio di Dio potrebbero anche significare che Dio fa parlare un uomo. Ma Dio si servirà degli organi vocali di questo intermediario umano come potrebbe «suonare un organo»? Un simile modo di fare ci fa, evidentemente, problema.
Il solo modo di «parlare» per Dio potrà consistere nell'utilizzare un parlare realmente e specificamente umano, ma nel senso che Dio può riempire della sua presenza divina un uomo, permettergli di fare esperienza di questa presenza di salvezza: l'uomo tenterà quindi di esprimerla attraverso il suo linguaggio. Colui che esprime questa esperienza di salvezza, esprimerà di fatto Dio stesso.
È difficile concepire onestamente la parola di Dio se non sotto forma di una «esperienza di Dio», vissuta e tradotta da un uomo. Ne consegue che la parola di Dio implica essenzialmente e necessariamente l'esperienza umana.
La Bibbia conferma il risultato di questa riflessione di tipo filosofico, quando presenta la parola di Dio come emanazione di un uomo, il «profeta». Il linguaggio divino è spessissimo presentato sotto forma di una voce che interpella l'uomo a nome di Dio. Così furono interpellati Mosè ed Elia; così Ezechiele e Isaia, nel momento della loro vocazione, sentirono il suono delle parole divine. A Cristo, nelle acque del Giordano, ha parlato una voce celeste; lo stesso è capitato ai discepoli sul monte della Trasfigurazione.
Quando i profeti, nei loro interventi, ripetono «Così parla Jahvè» oppure «Oracolo di Jahvè», non necessariamente la formula va compresa secondo il suo senso letterale, come se si trattasse di una parola di Dio direttamente indirizzata ad essi: questi uomini sono e restano inviati da Dio, personalmente. Inoltre, la mentalità semitica assimila il mandato ad un «altro io» del mandante, intendendo in ciò quasi un prolungamento della sua persona. Quindi, la formula «Così parla Jahvè» corrisponde all'affermazione che il Signore si esprime attualmente attraverso il profeta, servendosi delle sue labbra e della sua esperienza.
Due teologie bibliche
Abbiamo appena fatto allusione a due modalità di rappresentazione della parola di Dio nella Bibbia. È un dato acquisito universalmente oggi che nell'Antico e nel Nuovo Testamento, uno stesso avvenimento di salvezza è suscettibile d'essere riferito secondo modalità diverse: questo dà origine a interpretazioni teologiche diverse.
A proposito di queste nostre affermazioni, è importante avanzare una distinzione, adeguata soprattutto all'Antico Testamento, tra una teologia profetica ed una apocalittica: ne ha parlato recentemente anche J. Moltmann.
I profeti interpretano l'azione di salvezza di Dio in funzione del contesto storico in cui essi vivono. Questa storia è considerata sempre come aperta su due prospettive: può portare alla rovina a causa del peccato degli uomini ma la proposta di salvezza di Dio continua a restare valida; se il popolo accoglie con confidenza questa proposta, il Signore condurrà la storia verso un futuro di liberazione.
Gli autori apocalittici sono gli eredi delle promesse profetiche: sanno che esse sono estensibili a tutto il cosmo e, mediante qualcosa che trascende la storia, oltre le frontiere della morte. Tutto ciò è simbolizzato in uno schema speciale: la storia del mondo è predeterminata e quindi prestabilita per la rovina dei cattivi e la salvezza dei buoni. Questi avvenimenti prenderanno corpo in un mondo post-storico differente dall'attuale, in un eone futuro, separato dall'attuale cattivo in forza di una catastrofe universale. In altre parole, l'apocalisse è un profetismo composito in una sintesi armonica tra predestinazione divina e dualismo degli eoni - attuali e futuri.
Tutti sanno che il genere apocalittico riveste una importanza considerevole nel Nuovo Testamento. Qualcuno l'ha chiamata la «prima teologia». Non è presente solo nell'Apocalisse di Giovanni o nei brani di intonazione apocalittica come Mc 13. Il suo influsso si estende a tutta una parte dei discorsi di Gesù sul Regno di Dio e alla predicazione apostolica sulla risurrezione e glorificazione di Gesù.
Teologia apocalittica e teologia evangelica
Nonostante ciò, fin dall'inizio della predicazione di Gesù, è facile notare l'apparizione di un'altra prospettiva, di un'altra teologia cioè parallela a quella apocalittica. Agli occhi di Gesù, il Regno di Dio - presunto per la fine dei tempi dagli scrittori apocalittici - è già arrivato: si realizza ogni qual volta Gesù scaccia i demoni nello Spirito di Dio. Questo regno è offerto ai poveri, Gesù ne descrive lo spirito e le esigenze, appare come il futuro che sta già realizzandosi nel presente. Si può caratterizzare questa prospettiva teologica neotestamentaria con una espressione particolarmente cara a Paolo e a Marco: il vangelo, la «notizia», la buona novella. Mentre la teologia apocalittica ci offre un quadro d'insieme a partire dal cielo che va schiudendosi, la teologia evangelica ci parla di ciò che sta capitando qui-ora, con gli occhi di Dio, invitando tutta la terra a partecipare a questi avvenimenti.
Ci sono dunque nell'Antico e nel Nuovo Testamento molte teologie. Si può formulare questa costatazione in una affermazione: l'unica rivelazione si traduce in diverse teologie. Ciò significa che il contenuto e il tenore dell'unica rivelazione è oggetto di espressioni differenti, mentre il processo formale è designato dalla nozione univoca di rivelazione.
Le considerazioni precedenti, relative all'apocalisse, al profetismo e alla teologia dell'euangelion, ci dischiudono a più vasti orizzonti.
In effetti, il processo trascritto sotto il vocabolo «rivelazione» deriva il suo nome da una sola di queste teologie, la teologia apocalittica. L'espressione «rivelazione» equivale alla traduzione corrente dei termini apokalypsis e revelatio che letteralmente significano l'operazione di «togliere il velo». Quindi la rivelazione risulta come la manifestazione di un segreto o di un mistero nascosto in Dio. Questa conoscenza «svelata» è spesso accordata ad un «veggente» il quale decifra, attraverso visioni simboliche, la storia del mondo e il suo esito finale.
La teologia centrata sulla profezia e sul vangelo ha un'espressione linguistica molto diversa. In essa, Dio è colui che agisce all'interno degli avvenimenti terrestri e della nostra storia quotidiana: questa stessa azione divina è vissuta e proclamata nella fede.
Lo scenario dell'apocalisse è generalmente il cielo, la nostra quotidiana storia è presente e ci è presentata sulla base del libro celeste della divina prescienza. Lo scenario della teologia profetica è invece la nostra terra, quella su cui abitiamo e viviamo.
La teologia apocalittica si presenta come la rassegna di una serie di visioni e di annunci; l'altra, invece, è la testimonianza di una esperienza e di un'emozione vissuta, sotto lo choc dell'avvenimento.
Rivelazione ed esperienza
La riflessione filosofica, basata sui dati biblici, ci ha guidato ad affermare che la rivelazione è molto di più della parola di Dio che risuona ai nostri orecchi dall'alto dei cieli; più ancora della conoscenza dei segreti e delle decisioni sepolte in Dio e nei cieli, grazie ad alcune visioni e ad alcuni annunci. Un aspetto della rivelazione riguarda la proclamazione dell'avvenimento di salvezza sperimentato e vissuto.
Ciò che noi abitualmente chiamiamo «rivelazione» indica sia l'aspetto apocalittico che l'evangelo. Sotto la guida delle riflessioni precedenti, possiamo considerare il primo aspetto più come dato simbolico e metaforico ed il secondo più realistico. Il vangelo è più vicino alla realtà terrestre e nello stesso tempo - ed è importante sottolinearlo - è più vicino a Dio nella realtà terrestre. Il vangelo suppone direttamente l'esperienza di Dio, vissuta mediante la dimensione terrestre della nostra storia umana. L'evangelista è il testimone di ciò che ha visto, udito e toccato del Verbo incarnato (1 Gv 1,1-3).
Il luogo specifico dell'apocalisse è la comunità che vive questa esperienza: ma anche se rende una testimonianza entusiasmante di quella speranza che nasce da questa esperienza, essa l'esprime in forma più indiretta. Mediante il caratteristico linguaggio simbolico, essa conserva una certa distanza dall'esperienza: un po' come il dogma in forza di una formulazione di tipo metafisico.
Il progetto di rivelazione presente nella Bibbia ci mette dunque a contatto con una esperienza.
Di quale esperienza di tratta?
Penso di poter parlare di illuminazione dell'esistenza umana come attività di salvezza da parte di Dio. Il problema ritorna: di quale esperienza umana intendiamo parlare? Forse dell'esistenza umana in generale? Questa non è certamente esclusa.
Secondo la Bibbia, ogni esistenza umana deve essere interpretata come azione di salvezza da parte di Dio. Il Dio di Gesù Cristo vuole essere il padre di tutti gli uomini. È un'affermazione chiara e mai sconfessata: a tutti dona i suoi benefici (Atti 14,17) e non è lontano da nessun uomo (Atti 17,24). Dobbiamo cercar di capire il senso di questa presenza salvifica universale e la possibilità di una esperienza generale di Dio.
Dobbiamo prima di tutto sottolineare che il messaggio di salvezza trasmesso dalla Bibbia è relativo ad una determinata esperienza e ad una fase precisa della storia della salvezza. Basta pensare all'Antico Testamento: le solennità della primavera e della mietitura - come la festa del pane a Pasqua e la settimana festiva di Pentecoste - furono sempre più «comprese» nel quadro dell'avvenimento dell'Esodo e del Sinai. Due fatti che progressivamente costituiscono le esperienze decisive dell'esistenza d'Israele, quasi garanzia dell'intervento di salvezza, attuale e futuro, di Dio.
Il Nuovo Testamento attende con fiduciosa confidenza, un intervento divino salvifico definitivo, nell'ultimo giorno: Dio però è già attualmente in azione attraverso lo Spirito, suo dono per eccellenza. Questi avvenimenti hanno quindi come perno un avvenimento di salvezza fondamentale: l'avvenimento «Cristo», l'esistenza terrestre, la morte e la glorificazione di Gesù.
Cristo Gesù, centro dell'esperienza di salvezza
A questo proposito, è interessante notare che Gesù si identifica con il Figlio dell'uomo, atteso alla fine dei tempi; che, ancora, il giorno di Jahvè è diventato il giorno di Cristo; che il Cristo, che è vissuto sulla terra, è atteso con l'invocazione «maranatha».
Del resto, è ancora più rilevante il fatto che la grande speranza vissuta dalla giovane comunità, l'azione dello Spirito Santo, siano sempre collegati alla persona di Cristo. Lo Spirito gli rende testimonianza: da lui proviene la capacità di testimoniare: «Gesù è il Signore!» (1 Cor 12,3). È sempre lo Spirito che, comunicando i suoi doni ai fedeli, fa di essi un unico corpo: il corpo di Cristo, Cristo stesso. Lo Spirito è lo Spirito di Gesù e reciprocamente: «Il Signore è lo Spirito» (2 Cor 3,17). Il Signore è sempre presente, ma questo Signore non è un qualunque essere divino: è il Cristo storico, quel «Gesù che voi avete crocifisso» (Atti 2,36).
Facendo perno quindi sulla presenza permanente dell'esperienza di salvezza, sempre da interpretare, l'elemento fondamentale e prioritario è la proclamazione di un avvenimento di salvezza preciso e determinato: quello che si è realizzato in Gesù.
Se è assente questo avvenimento irrepetibile, l'esperienza attuale di salvezza propria dei cristiani, non solo diventa priva di una capacità espressiva e comunicativa, ma del suo fondamento di realtà. In parole povere: non esisterebbe affatto.
L'esistenza cristiana si esprime solo quando l'esistenza umana è stata «elevata» mediante la proclamazione della salvezza e salvata grazie alla fede nella parola proclamata.[1]
Su questo aspetto desidero soffermarmi, prendendo l'abbrivio dall'esperienza.
L'ESPERIENZA
L'esperienza, oggetto della pastorale
Sottolineo ancora una volta che la pastorale catechistica attuale non considera più l'esperienza personale come «testa di ponte» per la proclamazione, ma la prende come tema centrale. È facile avvertire che mi trovo in pieno accordo con questa affermazione. È necessario quindi precisare il doppio carattere di questa esperienza.
Da una parte, questa esperienza è già un'esperienza cristiana: la catechesi si offre come interpretazione dell'esperienza.
Dall'altra, però, questa esperienza è aperta ad un'attesa di «più essere» e ad un «incontro» con un avvenimento preciso della storia della salvezza e della persona di Cristo. Il fatto che l'esperienza dell'uditore - contemporaneamente uditore attivo e interlocutore - diventi il tema della catechesi ha senso naturalmente per i cristiani, giovani o adulti, che, in qualche modo, nell'educazione ricevuta, sono entrati in contatto con il cristianesimo.
Ma questo vale anche per molti uomini, nostri contemporanei, che di fatto oggi non si riconoscono più cristiani. Mi fa problema però ridurre ogni uomo ad un «cristiano anonimo». A questo proposito preferisco, con Dorothée Solle, parlare di una chiesa «di fatto» non coincidente con la chiesa della dottrina e dei sacramenti. O, con termini più adeguati, parlare di una persistenza nella nostra attuale società di un'ispirazione cristiana e biblica (cosa che non equivale certo ad affermare che tutto il bene che oggi si compie tragga le sue origini da una «causa cristiana»). Tocca alla pastorale catechistica interpretare queste diverse situazioni con discrezione e senza velleitarismi usurpatori... Molto spesso, è facile mostrare l'origine cristiana dei fatti in oggetto o la loro concordanza con il vangelo. Sotto quest'angolo prospettico, è possibile interpretare l'esistenza umana come storia della salvezza. Se ci mettiamo in attento ascolto degli avvenimenti attuali, si può tranquillamente costatare che la stragrande maggioranza sono in sintonia con il vangelo, ne sono «buoni frutti». La faccenda diventa evidente quando sono in causa contestazioni contro le stridenti ingiustizie sociali.
Riconosco pure un appello autenticamente evangelico nella tensione a realizzare una «macro-etica», una morale delle strutture. Oggi, il cristianesimo è chiamato a scoprire che le strutture sono il campo di intervento proprio dello Spirito Santo, come da tempo avevamo coscienza che lo era il corpo umano (e ce n'è ancora di strada da fare a questo riguardo...). Queste note possono giustificare una catechesi dell'esperienza.
Necessità della proclamazione
Una catechesi centrata sull'esperienza è preziosa, indispensabile, ma non è l'ultima parola. I giovani e gli adulti, coloro che vivono ai margini della fede o ne vivono - o credono di viverne - nel cuore, tutti costoro, tutti noi, abbiamo bisogno di redenzione: abbiamo bisogno di Cristo.
L'esperienza del nostro tempo è molto lontana dall'essere totalmente cristiana: ha bisogno di salvezza e di conversione. Essa può - e deve - rivestirsi di un carattere sempre più cristiano.
In poche parole, la catechesi d'interpretazione non può eliminare la catechesi di proclamazione. La tensione a questo riduzionismo generalmente dipende da due motivi. O si ha paura di scivolare verso una proclamazione senza alcuna presa sul reale; si ha timore cioè di creare una catechesi la cui terminologia biblica sia tanto fuori dal mondo quanto lo era quella di tipo dogmatico.
D'altra parte, si concepisce il «più essere» e l'«incontro» con Dio - oggetto dell'annuncio - come elementi che appartengono ad un eone totalmente diverso o ad un livello «soprannaturale» della realtà. Se spendo parole per sottolineare questa seconda motivazione teologica, lo faccio perché ho l'impressione che questa teologia a due livelli o a due piani sia una rappresentazione deficitaria del carattere gratuito e «grazioso,» dei doni di Dio.
Se Dio stesso non è solo il Dio-in-alto, ma prima di tutto un Dio-che-precede, la grazia non è un «secondo piano», ma il futuro che ci è donato: a queste condizioni essa è contestazione del presente e promessa di futuro.
La contestazione alle nostre strutture - a dispetto delle mille ragioni evangeliche che la possono ispirare - ha bisogno, a sua volta, di sottostare alla contestazione evangelica. Se la chiesa smette di predicare la conversione del cuore, mentre si lavora per migliorare le strutture, essa espone il mondo al grave rischio di sostituire soltanto una ideologia ad un'altra.
In fin dei conti, il nostro «annuncio» non può cessare di mettere in contestazione profetica la chiesa-istituzione, stando ben attento però a non istituzionalizzare la contestazione!
La chiesa è una Promessa, una Promessa del regno di Dio che supera sempre nella nostra storia ciò che è stato realizzato, che è più avanti dei nostri passi più avanzati. Una Promessa che è un futuro sempre nuovo, pronto a diventare realtà definitiva oltre le frontiere della morte.
NOTE
[1] Abbiamo già visto che la rivelazione include l'esperienza. Non si tratta quindi di una tensione tra rivelazione ed esperienza, ma di una tensione all'interno della stessa esperienza di salvezza, di una tensione tra esperienza personale determinata da Cristo e esperienza generale di salvezza. È' possibile inoltre situare questa tensione all'interno della rivelazione e della storia della salvezza. In effetti, si tratta di una relazione tra rivelazione generale e rivelazione particolare in Cristo, o tra storia generale di salvezza e l'avvenimento di Cristo.
(*) L'autore ha pubblicato questo articolo, che offre motivi interessanti di stimolo a progettare un rapporto tra scuola e educazione alla fede, originariamente sulla rivista Vérité et vie.
Piet Schoonenberg
(NPG 1973-6/7-73)
Pastorale in difficoltà
«Rivelazione, Parola di Dio, Messaggio divino»: vocaboli che diventano oggi sempre più difficili da pronunciare. Sembra che si riferiscano a cose superflue e lontane dal nostro mondo. Prima di tutto, dal punto di vista formale, che significato può avere l'espressione «Dio parla» e «di che cosa» può Dio parlare? E poi, in prospettiva di contenuto, che significano i termini «Regno di Dio, Grazia, Redenzione»? Che senso ha parlare di Gesù Cristo, della chiesa e dei sacramenti? D'accordo, Cristo fu in ogni tempo «segno di contraddizione» e occasione di scandalo. Sarebbe anormale che avesse smesso di esserlo oggi...
Il problema non è qui. Il problema è che né Cristo né Dio, per la maggior parte dei nostri contemporanei, sono avvertiti come «scandalo». Dio e Cristo - meglio: i loro nomi - hanno perso di significato ai loro occhi. Il messaggio cristiano, ai nostri contemporanei, non appare assurdo o problematico ma semplicemente quasi privo di senso.
Si può tentare di spiegare il fatto partendo dalla secolarizzazione montante al giorno d'oggi. Letto da un certo punto di vista, il rapporto tra la pastorale e il processo di secolarizzazione in corso, può presentare motivi di un certo ottimismo, se non altro per il fatto che la secolarizzazione ha radici cristiane e può essere finalizzata ad una migliore comprensione del messaggio divino.
Se le cose stanno così, sarebbe troppo ottimistico pretendere di aver già inventato il linguaggio adatto per la proclamazione della Buona Novella! Del resto, è problematico definire il luogo stesso in cui l'uomo - il giovane soprattutto - può essere accessibile a questa proclamazione: la famiglia, la chiesa, la scuola? Il problema è aperto.
È facile costatare come i giovani che sono sensibili alla riflessione, al silenzio, alla vita religiosa, scelgono con preferenza le religioni o le tecniche psicologiche orientali come il buddismo Zen... invece di progettare un ritorno in massa verso il cristianesimo.
Quindi non dovrebbe meravigliare che la catechesi attuale tenti di affrontare la situazione in contropiede, cercando di sintonizzarsi con l'esperienza viva dei suoi presunti uditori. Questo aspetto è sempre stato esigito da una retta metodologia didattica e pedagogica. Che senso avrebbe proclamare un messaggio i cui termini fossero privi di senso per coloro cui sono destinati? Sempre quindi ci sono stati catecheti e pastori che si sono sforzati di impattare la loro catechesi con l'esperienza stessa degli ascoltatori. Purtroppo la preoccupazione era relativa quasi esclusivamente al mondo giovanile. Il celebre «metodo di Monaco» fu, ai suoi tempi, un modello di un tentativo di contatto, di «ponte gettato» tra il messaggio dottrinale e l'esperienza.
L'esperienza personale come contenuto pastorale
Da quei tempi ad oggi, di passi se ne sono percorsi... L'esperienza personale allora rappresentava «una testa di ponte» in vista della proclamazione del messaggio. Oggi è diventata contenuto, tema principale della catechesi stessa. Essa è quindi diventata interpretazione dell'esperienza, illuminazione dell'esistenza: si noti «dell'esperienza», cioè dell'esistenza concreta degli ascoltatori immediati di «questa» catechesi. I documenti ufficiali parlano ormai in questi termini.
Di fatto, possiamo fare queste costatazioni su realtà certe: prima di tutto il fatto di una catechesi intesa come interpretazione dell'esperienza e illuminazione dell'esistenza acquista diritto di cittadinanza lungo gli anni 60; secondo, questo fatto pone il problema del rapporto tra questa interpretazione e la proclamazione del messaggio. Quale è il luogo proprio di questa proclamazione? Problema posto qualche volta in forma alternativa: annuncio o interpretazione dell'esperienza, nella pastorale catechistica?
Ho l'impressione che questa alternativa sia erronea nella misura in cui un aspetto sia esclusivo dell'altro, riducendo la catechesi alla sola interpretazione dell'esperienza di colui che ascolta o al massimo, dell'uomo d'oggi. Non si tratta di esprimere adeguatamente questa esperienza. Si tratta di introdurre delle chiavi di lettura che derivino dal messaggio divino. Del resto, il messaggio, la rivelazione proclamata, rappresentano una esperienza vissuta, cioè il vissuto dell'avvenimento di Cristo. Quindi rivelazione e parola di Dio da una parte e esperienza personale dall'altra sono complementari.
Ed è ciò che desidero dimostrare, analizzando per parti, prima la rivelazione e poi l'esperienza.
LA RIVELAZIONE
Che cosa intendiamo per «parola di Dio»?
Rivelazione e parola di Dio sono usabili come sinonimi. Quest'ultima espressione è suscettibile di una riflessione che, pur essendo soprattutto d'ordine filosofico, non è meno utile all'aspetto teologico del problema. Poniamo i termini dell'interrogativo: «Che significa parola di Dio?». Come possiamo concepire un Dio che parla? Certamente non parla attraverso l'emissione di suoni e neppure come un interlocutore che si intrometta in un gruppo di discussione.
Dio non agisce mai secondo le modalità delle cause intra-mondane né si sostituisce ad esse. Egli non tiene il posto di un interlocutore umano. Dio è la Causa universale: è Lui che fa esistere la parola e l'azione, di chiunque agisca o parli. Affermare che Dio ci parla, facendo irraggiare la sua voce dall'alto dei cieli, può essere una bella immagine. Che tale avvenimento possa realizzarsi così come suona e che Dio imprima all'aria delle modulazioni e vibrazioni tali da costruire umane parole... è una possibilità che non siamo in grado di negare anche se ci appare difficilmente intelligibile. Parola e messaggio di Dio potrebbero anche significare che Dio fa parlare un uomo. Ma Dio si servirà degli organi vocali di questo intermediario umano come potrebbe «suonare un organo»? Un simile modo di fare ci fa, evidentemente, problema.
Il solo modo di «parlare» per Dio potrà consistere nell'utilizzare un parlare realmente e specificamente umano, ma nel senso che Dio può riempire della sua presenza divina un uomo, permettergli di fare esperienza di questa presenza di salvezza: l'uomo tenterà quindi di esprimerla attraverso il suo linguaggio. Colui che esprime questa esperienza di salvezza, esprimerà di fatto Dio stesso.
È difficile concepire onestamente la parola di Dio se non sotto forma di una «esperienza di Dio», vissuta e tradotta da un uomo. Ne consegue che la parola di Dio implica essenzialmente e necessariamente l'esperienza umana.
La Bibbia conferma il risultato di questa riflessione di tipo filosofico, quando presenta la parola di Dio come emanazione di un uomo, il «profeta». Il linguaggio divino è spessissimo presentato sotto forma di una voce che interpella l'uomo a nome di Dio. Così furono interpellati Mosè ed Elia; così Ezechiele e Isaia, nel momento della loro vocazione, sentirono il suono delle parole divine. A Cristo, nelle acque del Giordano, ha parlato una voce celeste; lo stesso è capitato ai discepoli sul monte della Trasfigurazione.
Quando i profeti, nei loro interventi, ripetono «Così parla Jahvè» oppure «Oracolo di Jahvè», non necessariamente la formula va compresa secondo il suo senso letterale, come se si trattasse di una parola di Dio direttamente indirizzata ad essi: questi uomini sono e restano inviati da Dio, personalmente. Inoltre, la mentalità semitica assimila il mandato ad un «altro io» del mandante, intendendo in ciò quasi un prolungamento della sua persona. Quindi, la formula «Così parla Jahvè» corrisponde all'affermazione che il Signore si esprime attualmente attraverso il profeta, servendosi delle sue labbra e della sua esperienza.
Due teologie bibliche
Abbiamo appena fatto allusione a due modalità di rappresentazione della parola di Dio nella Bibbia. È un dato acquisito universalmente oggi che nell'Antico e nel Nuovo Testamento, uno stesso avvenimento di salvezza è suscettibile d'essere riferito secondo modalità diverse: questo dà origine a interpretazioni teologiche diverse.
A proposito di queste nostre affermazioni, è importante avanzare una distinzione, adeguata soprattutto all'Antico Testamento, tra una teologia profetica ed una apocalittica: ne ha parlato recentemente anche J. Moltmann.
I profeti interpretano l'azione di salvezza di Dio in funzione del contesto storico in cui essi vivono. Questa storia è considerata sempre come aperta su due prospettive: può portare alla rovina a causa del peccato degli uomini ma la proposta di salvezza di Dio continua a restare valida; se il popolo accoglie con confidenza questa proposta, il Signore condurrà la storia verso un futuro di liberazione.
Gli autori apocalittici sono gli eredi delle promesse profetiche: sanno che esse sono estensibili a tutto il cosmo e, mediante qualcosa che trascende la storia, oltre le frontiere della morte. Tutto ciò è simbolizzato in uno schema speciale: la storia del mondo è predeterminata e quindi prestabilita per la rovina dei cattivi e la salvezza dei buoni. Questi avvenimenti prenderanno corpo in un mondo post-storico differente dall'attuale, in un eone futuro, separato dall'attuale cattivo in forza di una catastrofe universale. In altre parole, l'apocalisse è un profetismo composito in una sintesi armonica tra predestinazione divina e dualismo degli eoni - attuali e futuri.
Tutti sanno che il genere apocalittico riveste una importanza considerevole nel Nuovo Testamento. Qualcuno l'ha chiamata la «prima teologia». Non è presente solo nell'Apocalisse di Giovanni o nei brani di intonazione apocalittica come Mc 13. Il suo influsso si estende a tutta una parte dei discorsi di Gesù sul Regno di Dio e alla predicazione apostolica sulla risurrezione e glorificazione di Gesù.
Teologia apocalittica e teologia evangelica
Nonostante ciò, fin dall'inizio della predicazione di Gesù, è facile notare l'apparizione di un'altra prospettiva, di un'altra teologia cioè parallela a quella apocalittica. Agli occhi di Gesù, il Regno di Dio - presunto per la fine dei tempi dagli scrittori apocalittici - è già arrivato: si realizza ogni qual volta Gesù scaccia i demoni nello Spirito di Dio. Questo regno è offerto ai poveri, Gesù ne descrive lo spirito e le esigenze, appare come il futuro che sta già realizzandosi nel presente. Si può caratterizzare questa prospettiva teologica neotestamentaria con una espressione particolarmente cara a Paolo e a Marco: il vangelo, la «notizia», la buona novella. Mentre la teologia apocalittica ci offre un quadro d'insieme a partire dal cielo che va schiudendosi, la teologia evangelica ci parla di ciò che sta capitando qui-ora, con gli occhi di Dio, invitando tutta la terra a partecipare a questi avvenimenti.
Ci sono dunque nell'Antico e nel Nuovo Testamento molte teologie. Si può formulare questa costatazione in una affermazione: l'unica rivelazione si traduce in diverse teologie. Ciò significa che il contenuto e il tenore dell'unica rivelazione è oggetto di espressioni differenti, mentre il processo formale è designato dalla nozione univoca di rivelazione.
Le considerazioni precedenti, relative all'apocalisse, al profetismo e alla teologia dell'euangelion, ci dischiudono a più vasti orizzonti.
In effetti, il processo trascritto sotto il vocabolo «rivelazione» deriva il suo nome da una sola di queste teologie, la teologia apocalittica. L'espressione «rivelazione» equivale alla traduzione corrente dei termini apokalypsis e revelatio che letteralmente significano l'operazione di «togliere il velo». Quindi la rivelazione risulta come la manifestazione di un segreto o di un mistero nascosto in Dio. Questa conoscenza «svelata» è spesso accordata ad un «veggente» il quale decifra, attraverso visioni simboliche, la storia del mondo e il suo esito finale.
La teologia centrata sulla profezia e sul vangelo ha un'espressione linguistica molto diversa. In essa, Dio è colui che agisce all'interno degli avvenimenti terrestri e della nostra storia quotidiana: questa stessa azione divina è vissuta e proclamata nella fede.
Lo scenario dell'apocalisse è generalmente il cielo, la nostra quotidiana storia è presente e ci è presentata sulla base del libro celeste della divina prescienza. Lo scenario della teologia profetica è invece la nostra terra, quella su cui abitiamo e viviamo.
La teologia apocalittica si presenta come la rassegna di una serie di visioni e di annunci; l'altra, invece, è la testimonianza di una esperienza e di un'emozione vissuta, sotto lo choc dell'avvenimento.
Rivelazione ed esperienza
La riflessione filosofica, basata sui dati biblici, ci ha guidato ad affermare che la rivelazione è molto di più della parola di Dio che risuona ai nostri orecchi dall'alto dei cieli; più ancora della conoscenza dei segreti e delle decisioni sepolte in Dio e nei cieli, grazie ad alcune visioni e ad alcuni annunci. Un aspetto della rivelazione riguarda la proclamazione dell'avvenimento di salvezza sperimentato e vissuto.
Ciò che noi abitualmente chiamiamo «rivelazione» indica sia l'aspetto apocalittico che l'evangelo. Sotto la guida delle riflessioni precedenti, possiamo considerare il primo aspetto più come dato simbolico e metaforico ed il secondo più realistico. Il vangelo è più vicino alla realtà terrestre e nello stesso tempo - ed è importante sottolinearlo - è più vicino a Dio nella realtà terrestre. Il vangelo suppone direttamente l'esperienza di Dio, vissuta mediante la dimensione terrestre della nostra storia umana. L'evangelista è il testimone di ciò che ha visto, udito e toccato del Verbo incarnato (1 Gv 1,1-3).
Il luogo specifico dell'apocalisse è la comunità che vive questa esperienza: ma anche se rende una testimonianza entusiasmante di quella speranza che nasce da questa esperienza, essa l'esprime in forma più indiretta. Mediante il caratteristico linguaggio simbolico, essa conserva una certa distanza dall'esperienza: un po' come il dogma in forza di una formulazione di tipo metafisico.
Il progetto di rivelazione presente nella Bibbia ci mette dunque a contatto con una esperienza.
Di quale esperienza di tratta?
Penso di poter parlare di illuminazione dell'esistenza umana come attività di salvezza da parte di Dio. Il problema ritorna: di quale esperienza umana intendiamo parlare? Forse dell'esistenza umana in generale? Questa non è certamente esclusa.
Secondo la Bibbia, ogni esistenza umana deve essere interpretata come azione di salvezza da parte di Dio. Il Dio di Gesù Cristo vuole essere il padre di tutti gli uomini. È un'affermazione chiara e mai sconfessata: a tutti dona i suoi benefici (Atti 14,17) e non è lontano da nessun uomo (Atti 17,24). Dobbiamo cercar di capire il senso di questa presenza salvifica universale e la possibilità di una esperienza generale di Dio.
Dobbiamo prima di tutto sottolineare che il messaggio di salvezza trasmesso dalla Bibbia è relativo ad una determinata esperienza e ad una fase precisa della storia della salvezza. Basta pensare all'Antico Testamento: le solennità della primavera e della mietitura - come la festa del pane a Pasqua e la settimana festiva di Pentecoste - furono sempre più «comprese» nel quadro dell'avvenimento dell'Esodo e del Sinai. Due fatti che progressivamente costituiscono le esperienze decisive dell'esistenza d'Israele, quasi garanzia dell'intervento di salvezza, attuale e futuro, di Dio.
Il Nuovo Testamento attende con fiduciosa confidenza, un intervento divino salvifico definitivo, nell'ultimo giorno: Dio però è già attualmente in azione attraverso lo Spirito, suo dono per eccellenza. Questi avvenimenti hanno quindi come perno un avvenimento di salvezza fondamentale: l'avvenimento «Cristo», l'esistenza terrestre, la morte e la glorificazione di Gesù.
Cristo Gesù, centro dell'esperienza di salvezza
A questo proposito, è interessante notare che Gesù si identifica con il Figlio dell'uomo, atteso alla fine dei tempi; che, ancora, il giorno di Jahvè è diventato il giorno di Cristo; che il Cristo, che è vissuto sulla terra, è atteso con l'invocazione «maranatha».
Del resto, è ancora più rilevante il fatto che la grande speranza vissuta dalla giovane comunità, l'azione dello Spirito Santo, siano sempre collegati alla persona di Cristo. Lo Spirito gli rende testimonianza: da lui proviene la capacità di testimoniare: «Gesù è il Signore!» (1 Cor 12,3). È sempre lo Spirito che, comunicando i suoi doni ai fedeli, fa di essi un unico corpo: il corpo di Cristo, Cristo stesso. Lo Spirito è lo Spirito di Gesù e reciprocamente: «Il Signore è lo Spirito» (2 Cor 3,17). Il Signore è sempre presente, ma questo Signore non è un qualunque essere divino: è il Cristo storico, quel «Gesù che voi avete crocifisso» (Atti 2,36).
Facendo perno quindi sulla presenza permanente dell'esperienza di salvezza, sempre da interpretare, l'elemento fondamentale e prioritario è la proclamazione di un avvenimento di salvezza preciso e determinato: quello che si è realizzato in Gesù.
Se è assente questo avvenimento irrepetibile, l'esperienza attuale di salvezza propria dei cristiani, non solo diventa priva di una capacità espressiva e comunicativa, ma del suo fondamento di realtà. In parole povere: non esisterebbe affatto.
L'esistenza cristiana si esprime solo quando l'esistenza umana è stata «elevata» mediante la proclamazione della salvezza e salvata grazie alla fede nella parola proclamata.[1]
Su questo aspetto desidero soffermarmi, prendendo l'abbrivio dall'esperienza.
L'ESPERIENZA
L'esperienza, oggetto della pastorale
Sottolineo ancora una volta che la pastorale catechistica attuale non considera più l'esperienza personale come «testa di ponte» per la proclamazione, ma la prende come tema centrale. È facile avvertire che mi trovo in pieno accordo con questa affermazione. È necessario quindi precisare il doppio carattere di questa esperienza.
Da una parte, questa esperienza è già un'esperienza cristiana: la catechesi si offre come interpretazione dell'esperienza.
Dall'altra, però, questa esperienza è aperta ad un'attesa di «più essere» e ad un «incontro» con un avvenimento preciso della storia della salvezza e della persona di Cristo. Il fatto che l'esperienza dell'uditore - contemporaneamente uditore attivo e interlocutore - diventi il tema della catechesi ha senso naturalmente per i cristiani, giovani o adulti, che, in qualche modo, nell'educazione ricevuta, sono entrati in contatto con il cristianesimo.
Ma questo vale anche per molti uomini, nostri contemporanei, che di fatto oggi non si riconoscono più cristiani. Mi fa problema però ridurre ogni uomo ad un «cristiano anonimo». A questo proposito preferisco, con Dorothée Solle, parlare di una chiesa «di fatto» non coincidente con la chiesa della dottrina e dei sacramenti. O, con termini più adeguati, parlare di una persistenza nella nostra attuale società di un'ispirazione cristiana e biblica (cosa che non equivale certo ad affermare che tutto il bene che oggi si compie tragga le sue origini da una «causa cristiana»). Tocca alla pastorale catechistica interpretare queste diverse situazioni con discrezione e senza velleitarismi usurpatori... Molto spesso, è facile mostrare l'origine cristiana dei fatti in oggetto o la loro concordanza con il vangelo. Sotto quest'angolo prospettico, è possibile interpretare l'esistenza umana come storia della salvezza. Se ci mettiamo in attento ascolto degli avvenimenti attuali, si può tranquillamente costatare che la stragrande maggioranza sono in sintonia con il vangelo, ne sono «buoni frutti». La faccenda diventa evidente quando sono in causa contestazioni contro le stridenti ingiustizie sociali.
Riconosco pure un appello autenticamente evangelico nella tensione a realizzare una «macro-etica», una morale delle strutture. Oggi, il cristianesimo è chiamato a scoprire che le strutture sono il campo di intervento proprio dello Spirito Santo, come da tempo avevamo coscienza che lo era il corpo umano (e ce n'è ancora di strada da fare a questo riguardo...). Queste note possono giustificare una catechesi dell'esperienza.
Necessità della proclamazione
Una catechesi centrata sull'esperienza è preziosa, indispensabile, ma non è l'ultima parola. I giovani e gli adulti, coloro che vivono ai margini della fede o ne vivono - o credono di viverne - nel cuore, tutti costoro, tutti noi, abbiamo bisogno di redenzione: abbiamo bisogno di Cristo.
L'esperienza del nostro tempo è molto lontana dall'essere totalmente cristiana: ha bisogno di salvezza e di conversione. Essa può - e deve - rivestirsi di un carattere sempre più cristiano.
In poche parole, la catechesi d'interpretazione non può eliminare la catechesi di proclamazione. La tensione a questo riduzionismo generalmente dipende da due motivi. O si ha paura di scivolare verso una proclamazione senza alcuna presa sul reale; si ha timore cioè di creare una catechesi la cui terminologia biblica sia tanto fuori dal mondo quanto lo era quella di tipo dogmatico.
D'altra parte, si concepisce il «più essere» e l'«incontro» con Dio - oggetto dell'annuncio - come elementi che appartengono ad un eone totalmente diverso o ad un livello «soprannaturale» della realtà. Se spendo parole per sottolineare questa seconda motivazione teologica, lo faccio perché ho l'impressione che questa teologia a due livelli o a due piani sia una rappresentazione deficitaria del carattere gratuito e «grazioso,» dei doni di Dio.
Se Dio stesso non è solo il Dio-in-alto, ma prima di tutto un Dio-che-precede, la grazia non è un «secondo piano», ma il futuro che ci è donato: a queste condizioni essa è contestazione del presente e promessa di futuro.
La contestazione alle nostre strutture - a dispetto delle mille ragioni evangeliche che la possono ispirare - ha bisogno, a sua volta, di sottostare alla contestazione evangelica. Se la chiesa smette di predicare la conversione del cuore, mentre si lavora per migliorare le strutture, essa espone il mondo al grave rischio di sostituire soltanto una ideologia ad un'altra.
In fin dei conti, il nostro «annuncio» non può cessare di mettere in contestazione profetica la chiesa-istituzione, stando ben attento però a non istituzionalizzare la contestazione!
La chiesa è una Promessa, una Promessa del regno di Dio che supera sempre nella nostra storia ciò che è stato realizzato, che è più avanti dei nostri passi più avanzati. Una Promessa che è un futuro sempre nuovo, pronto a diventare realtà definitiva oltre le frontiere della morte.
NOTE
[1] Abbiamo già visto che la rivelazione include l'esperienza. Non si tratta quindi di una tensione tra rivelazione ed esperienza, ma di una tensione all'interno della stessa esperienza di salvezza, di una tensione tra esperienza personale determinata da Cristo e esperienza generale di salvezza. È' possibile inoltre situare questa tensione all'interno della rivelazione e della storia della salvezza. In effetti, si tratta di una relazione tra rivelazione generale e rivelazione particolare in Cristo, o tra storia generale di salvezza e l'avvenimento di Cristo.
(*) L'autore ha pubblicato questo articolo, che offre motivi interessanti di stimolo a progettare un rapporto tra scuola e educazione alla fede, originariamente sulla rivista Vérité et vie.