Dieci anni di «storia» per capire l'attuale situazione della scuola


Germano Proverbio

(NPG 1973-06/07-05)

I DIECI ANNI PIÙ LUNGHI DELLA SCUOLA ITALIANA

Che la scuola italiana abbia attraversato «il decennio più lungo» della sua storia non esistono dubbi: in questo arco di tempo sono esplose infatti le contraddizioni e le inadempienze che la scuola andava trascinando da decenni; le attese hanno reso più lento lo scorrere del tempo, anche quando si è data loro una qualche risposta con riforme dimostratesi ben presto scarsamente operanti, ma soprattutto quando le aspettative sono rimaste deluse; alcuni rimedi e interventi hanno generato uno stato di agonia senza sbocco; l'immobilismo delle strutture, sfidate continuamente dall'irruzione della tecnologia e dall'esplosione demografica, ha contrassegnato la scuola d'un volto senza tempo; e infine, come nota più rilevante e conseguente del «decennio lungo», gli avvenimenti della contestazione giovanile hanno aggravato lo spessore del tempo, per una incapacità di accoglierne gli stimoli più validi e di assumerne criticamente i modi, con una partecipazione che non fosse viziata dal calcolo o dalla strumentalizzazione.
A prova che in questo decennio si siano riversati i grandi ritardi del passato, basterebbe citare il caso della scuola materna, ignorata completamente dalla legge Casati (1859), e istituita come scuola statale solo nel 1968, con un carattere tuttavia ancora ambiguo tra una funzione di assistenza alla famiglia e una funzione educativa propriamente intesa, e con un ruolo di presenza ausiliaria accanto alle scuole materne, ancora prevalentemente private. Il ritardo dell'intervento ha fatto sì che la scolarità, a questo livello, raggiungesse solo il 46,5% dei bambini in età fra i tre e i cinque anni, con le punte più basse nelle regioni meridionali e insulari [1].
Così nella scuola elementare si risente del suo vizio di origine e della sua successiva storia: nella legge Casati infatti (come già nel progetto di legge Bon-Compagni del 1848) essa era considerata più come propedeutica alla scuola secondaria che non come istruzione popolare obbligatoria. La legge Gentile del 1923 non fece mutare di fatto la situazione, se proprio in quegli anni il 30% degli allievi veniva colpito o fermato dalle bocciature, lasciando così che la scuola elementare rimanesse ancora per i «destinati» a proseguire gli studi. I successivi interventi legislativi del 1928 (alla fine della seconda guerra mondiale un quarto della popolazione italiana era analfabeta o semianalfabeta) e, più recentemente, del 1957, non hanno liberato completamente la scuola da questo carattere selettivo, convalidando soprattutto la prassi dei turni e delle pluriclassi, viva ancora in tanta parte del territorio nazionale durante il decennio in questione, se si pensa che nel 1966 il 14% degli alunni frequentava scuole pluriclassi. Si aggiunga che annualmente ancora 100.000 alunni di scuola elementare vengono bocciati.
Ma la nostra attenzione intende rivolgersi ora particolarmente alla scuola secondaria inferiore e superiore, non senza qualche richiamo agli sbocchi verso l'università e verso la professione.

LA RIFORMA DELLA SECONDARIA INFERIORE

Si ebbe una parvenza di riforma nel 1939, durante il regime fascista, con l'istituzione di una scuola media che unificava i corsi inferiori dei ginnasi, degli istituti magistrali e degli istituti tenici, escludendo l'avviamento professionale, per non creare, secondo il pensiero dell'allora ministro Bottai, «illusorie ambizioni» a quanti erano chiamati al lavoro delle mani «come prezzo di elevazione sociale». La legge del 1962 riparava a questa ingiustizia sociale, con l'istituzione della scuola media unica, o scuola dell'obbligo, per collocare tutti i ragazzi uscenti dalla scuola elementare su un piano di eguaglianza di partenza, dando avvio così al momento della democratizzazione della scuola italiana.
Il dettato della legge e le premesse ai programmi rispondevano ad obiettivi sulla cui positività non si è mai dubitato, se si pensa particolarmente all'estensione dell'obbligo, all'unicità, alla articolazione tra discipline obbligatorie e facoltative, richiesta dal carattere orientativo conferito alla secondaria inferiore. Anche le indicazioni sulla necessità di individualizzare e di socializzare il processo didattico-educativo tendevano a controllare i rischi che una scuola «per la massa» avrebbe comportato, rilevando l'esigenza di adeguare l'insegnamento ai ritmi personali, per una promozione delle attitudini potenziali di ciascuno in un rapporto interpersonale e socializzante.
Ad una eguaglianza di opportunità di partenza doveva corrispondere insomma una eguaglianza di opportunità di arrivo, che è quanto dire portare tutti gli allievi, attraverso differenziazioni di metodi e di interventi destinati al riscatto e al recupero dai condizionamenti personali e familiari (culturali e socio-economici), al conseguimento del diploma della scuola dell'obbligo nell'arco dei tre anni.
A tale scopo, ossia per liberare la scuola da ogni forma di selettività, si davano suggerimenti di carattere metodologico – evitare, per esempio, la «grammaticalizzazione» che gravava sull'insegnamento linguistico; evitare di procedere dall'astratto; recuperare la storia e la geografia nell'ambito delle «scienze umane» o dello studio dell'uomo – e, soprattutto, la legge contemplava l'istituzione delle classi differenziali per alunni scolasticamente disadattati, delle classi di aggiornamento per alunni bisognosi di particolari cure in prima media o per alunni che non avessero conseguito la licenza; e, fatto innovativo che avrebbe dovuto assumere particolare rilievo, l'istituzione del doposcuola «previo accertamento delle possibilità locali».
Il dettato della legge sul doposcuola – vaghissimo e fortemente limitativo – ha trovato scarsissima risposta; mentre il ricorso alla classi differenziali divenne una soluzione sempre più comoda, arbitrariamente impiegata, per liberarsi da soggetti che avrebbero richiesto un'azione «individualizzata» da parte dell'insegnante all'interno di un contesto di scuola normale: con le classi differenziali si crearono così, secondo una espressione usata, dei «ghetti» nelle scuole.

Meccanismi selettivi

La tradizione a selezionare riemerse perciò attraverso altre forme, che portarono a conservare bocciature e ripetenze, a provocare ritardi e abbandoni in quella che avrebbe dovuto essere la «scuola per tutti». La conferma può venire da alcuni dati abbastanza recenti (1968) : i tassi di eliminazione nelle prime due classi vanno dal 18,4% al 22,7% (secondo una indicazione più recente, nel 1970 il fenomeno delle ripetenze ha colpito il 28% degli alunni della prima media). I tassi di abbandono – collegati alle ripetenze, alle condizioni precarie delle famiglie, alle insoddisfazioni derivanti dalla scuola – raggiungono il 35% nei primi due anni e il 20% nel terzo anno. Globalmente, risulta che gli alunni che lasciano la scuola media prima di giungere alla licenza costituiscono ancora più di un quarto della popolazione scolastica.
Infine, un dato preliminare rispetto a quelli riferiti, riguarda il grave fenomeno delle inadempienze o dell'evasione dall'obbligo: in alcune regioni si arriva al 50%, e nella stessa Lombardia si raggiunge il 30%. Come indicazione più precisa può valere quella relativa agli anni 1966-67, quando solo il 74% dei ragazzi di 13 anni risultava scolarizzato, di cui però il 23% era ancora iscritto nella scuola elementare, per ritardi subiti. È evidente che i meccanismi selettivi colpiscono prevalentemente le classi sociali inferiori, per fattori esterni alla scuola – in particolare le condizioni culturali e socio-economiche delle famiglie – e per fattori interni, cui si è più sopra accennato.
Una interpretazione dei dati riferiti induce a concludere che la riforma attuata risente di un certo sistema di mobilità sociale competitiva, cui appartiene, per alcuni aspetti, anche la nostra società. Mentre infatti in un sistema di mobilità sociale cooptativa l'élite dominante sceglie le nuove reclute molto precocemente servendosi di un meccanismo palese di selezione scolastica (come poteva essere l'esistenza di una scuola di avviamento professionale accanto ad una scuola media prima del 1962), in un sistema di mobilità sociale competitiva non esiste apparentemente una discriminazione di partenza, il «premio» è promesso a tutti, come in un avvenimento sportivo «in cui molti gareggiano per pochi premi messi in palio» [2]; l'eliminazione avverrà attraverso meccanismi occulti di selezione, di cui gli stessi gestori – gli insegnanti – non hanno spesso coscienza o non sono responsabili, se non di una responsabilità che si può far risalire ad una loro insufficiente preparazione e ad una conseguente resistenza a innovazioni radicali.
Che i meccanismi occulti selettivi abbiano agito lo dimostrano i fatti e i dati relativi; quanti e quali siano, al di là dei casi macroscopici come il ricorso arbitrario alle classi differenziali e il rifiuto del doposcuola, non è facile dirlo: dovremmo entrare nel «mondo chiuso», nel «luogo separato», destinato agli «addetti ai lavori», qual è ancora la scuola. Vi troveremmo le materie privilegiate (tra le quali non è escluso il latino) che esercitano un forte potere discriminante; la «repressione linguistica» che, attraverso i modelli colti e letterari, blocca anziché promuovere la verbalizzazione; gli stereotipi storici; e soprattutto i metodi di valutazione, destinati a creare la competizione, la corsa al posto nella graduatoria, a colpire quindi, generando forme di ansia e di rifiuto, quanti non saranno mai gratificati dai «voti».

Una gestione sociale per la scuola?

Le riforme non faranno che razionalizzare i sistemi selettivi e consolidare la scuola nel suo isolazionismo, perpetuando il vecchio costume per il quale gli insegnanti – gli operatori diretti – si ritengono insindacabili nell'esercizio della loro professione, complici i genitori che ad essi hanno concesso una delega assoluta e incondizionata.
Qui si dovrebbe aprire il discorso sulla gestione sociale della scuola, come soluzione che coinvolga e corresponsabilizzi tutte le componenti della scuola, per sottrarla alla funzione di «apparato ideologico di stato», per liberarla dalla sua condizione di isola separata dal contesto sociale, per far prendere coscienza agli uomini della scuola dei meccanismi selettivi che essi mettono in atto e per aiutarli a ricercare e ad applicare forme alternative, umanizzanti e liberanti. Ma il discorso ci pone già nella prospettiva di una scuola del futuro; ora intendiamo soltanto considerare l'atteggiamento e il comportamento assunto dagli insegnanti nei confronti della istituzione della scuola dell'obbligo, rilevandone alcune cause che gli insegnanti stessi hanno esplicitamente o implicitamente denunciato.

GLI INSEGNANTI E LA SCUOLA DELL'OBBLIGO

I dati si ritrovano nelle ricerche condotte in questi ultimi anni. In particolare ci riferiremo alla ricerca di V. CESAREO (Insegnanti, Scuola e Società, Milano, Vita e Pensiero, 1968), condotta su un campione di 720 insegnanti delle scuole medie statali di Milano (480) e di Bari (240) [3].
La ricerca si conclude con una tipologia dei soggetti intervistati: il riformista (103 soggetti), l'integrato (140), il conformista (56), il tecnicista (51), il legalista (81), il tradizionalista (70), l'innovatore radicale (34), il formalista (28), il conservatore impegnato (151); da cui risulta – con una palese contraddizione tra atteggiamenti manifesti e atteggiamenti latenti – che soltanto un insegnante su tre (249 su 720 intervistati) ha accettato completamente la riforma e si è adoperato ad applicarla coerentemente: si tratta dei riformisti (che accettano la riforma ed esprimono insieme una proposta di tipo innovativo) e degli integrati (che accettano la riforma e ne propongono la piena applicazione). E indicativo il fatto che accanto ad un certo atteggiamento favorevole, abbastanza diffuso, verso l'estensione dell'obbligo, si riscontri un netto rifiuto della unicità della scuola media, della soluzione data alla «questione del latino», e si ritrovino motivi di sospetto – che per un numero notevole sono anche di rifiuto – nei confronti dei nuovi metodi didattici, che tenderebbero ad eliminare «lo sforzo», «il sacrificio»...
Alla base di tutto sta una serie di fattori che costituiscono quella che è ormai riconosciuta come «la crisi degli insegnanti», di cui essi stessi hanno espresso i momenti e gli aspetti più gravi nel corso delle inchieste: momenti ed aspetti che della crisi possono essere insieme causa ed effetto. Una percentuale notevole di essi (421 sul campione della ricerca di Cesareo) rispondendo al questionario, conferma, ad esempio, quella che costituiva un'ipotesi dell'indagine che la professione dell'insegnante cioè, più che una scelta libera ed espressiva dei fini propri e peculiari della professione del docente, sia una scelta di ripiego, in quanto determinata da fini estranei alla professione o divenuti prioritari rispetto a quelli che ne costituiscono la natura. E una scelta di ripiego, o strumentale, quella motivata da ragioni economiche, dalla ricerca di un impegno che consenta l'esercizio di altre attività o che si concili con situazioni familiari, con particolari stati di salute, ecc.

Attività extra insegnamento

A riprova, almeno in molti casi, dell'insegnamento come scelta di ripiego, si registra tra i dati dell'inchiesta di Cesareo una tendenza largamente diffusa ad associare l'insegnamento con attività di tipo lavorativo, che non concorrono in alcun modo a una migliore professionalizzazione dell'insegnante, sia nell'ambito specifico della propria disciplina, sia per quanto concerne l'aspetto pedagogico e didattico. Dal secondo lavoro assunto dagli insegnanti, estraneo a qualsiasi tipo di incentivazione a «crescere» professionalmente, non si escludono le cosiddette ripetizioni private, non tanto per motivi inerenti alla loro natura, quanto piuttosto per il modo con cui vengono elargite sino a costituire una vera e propria industria.
Quanto poi ad altre attività extraprofessionali, pertinenti almeno in parte all'esercizio dell'insegnamento (associazioni culturali, informazione attraverso libri e riviste, corsi di aggiornamento, ecc.), gli atteggiamenti e i comportamenti degli insegnanti rivelano una scarsa sensibilità ed adesione, o almeno una partecipazione non adeguatamente motivata. Si nota, ad esempio, che il livello degli interessi culturali degli insegnanti – indicato dal genere dei libri e delle riviste che costituiscono le loro letture – non supera il livello degli interessi delle persone di media cultura (solo un quarto dell'intero campione presenta una elevata informazione culturale); mentre d'altro lato un interesse più specifico, quando esiste, rimane nell'ambito dei contenuti propri della disciplina o delle discipline insegnate, senza una corrispondente preoccupazione per una migliore professionalizzazione sotto l'aspetto pedagogico e didattico.
La stessa considerazione vale per i corsi di aggiornamento (solo un insegnante su tre ha partecipato, durante la sua carriera, ad almeno un corso), riguardo ai quali si rivela un certo conflitto tra atteggiamento e comportamento; mentre da un lato infatti gli insegnanti denunciano la loro impreparazione professionale, dall'altro non dimostrano una decisa volontà a superare le difficoltà per partecipare a iniziative promosse per il loro aggiornamento, come quando richiedono che i corsi vengano effettuati solo nei tempi lavorativi, escludendo quindi i tempi di vacanza.

Stati di crisi

Altri aspetti della crisi che investe il corpo docente, appartengono piuttosto ad una sfera che si potrebbe chiamare psicologica. Al primo posto va collocata forse la sensazione di essere defraudati di un detenuto prestigio (580 su tutto il campione), derivato dalla classe medio-borghese da cui gli insegnanti provengono o in cui tendono a collocarsi – solo tra le ultime generazioni il fenomeno è meno accentuato – o da un concetto di autorità, di cui il docente ha sempre creduto di essere investito a pieno diritto. In una ricerca delle cause, gli insegnanti intervistati, agendo sotto la spinta di un meccanismo psicologico di rimozione delle responsabilità, le hanno indicate nello scadimento di alcuni valori della tradizione, nella responsabilità dei poteri costituiti nell'interno del sistema, divenuti troppo deboli per difendere la classe insegnante, e così via.
Sempre all'interno degli aspetti di tipo più propriamente psicologico connessi con la situazione di crisi degli insegnanti, stanno certamente le difficoltà che gli elementi più giovani incontrano nel momento in cui devono entrare in quella che si può considerare l'istituzione più macchinosa e più burocratica della società italiana. Invitati ad individuarne le cause, un numero percentualmente rilevante degli insegnanti raggiunti dall'inchiesta (quasi il 20%), ha riconosciuto la propria limitata preparazione soprattutto per quanto riguarda la conoscenza della pedagogia e della didattica, e la mancanza di un certo tirocinio che avrebbe dovuto abilitarli all'esercizio della professione. E qui si manifesta la contraddizione tra il riconoscere d'essere insufficientemente preparati e d'altro lato la scarsa disponibilità, più sopra rilevata, a colmare questa lacuna.
A un altro livello, il difficile inserimento nel mondo della scuola viene attribuito, da circa un terzo degli intervistati, ad una situazione conflittuale che si crea tra i docenti e il capo istituto, il preside, il quale esercita istituzionalmente due ruoli: quello amministrativo-burocratico e quello educativo. Quasi sempre il primo ruolo soffoca il secondo; l'equilibrio è difficilmente raggiunto, a danno della conduzione della scuola come luogo veramente educativo, e a danno dei rapporti tra i colleghi e, soprattutto, degli allievi e delle loro famiglie.
Una situazione conflittuale si registra inoltre, sino a creare veri stati di frustrazione, nel «mondo» del singolo insegnante, che si trova impegnato nella ricerca di un difficile equilibrio tra queste coppie di alternative: collaboratore degli allievi o collaboratore dei genitori; aiuto nella formazione globale degli allievi o soltanto nella formazione intellettuale; amico degli allievi o giudice. Mentre gli insegnanti dichiarano di optare per gli allievi nei confronti dei genitori, per il ruolo di educatore e non per quello di trasmettitore di nozioni, per la parte di amico anziché per quella di giudice degli allievi, denunciano poi di non poter aderire a queste loro scelte, vittime – essi dicono – delle richieste del sistema e condizionati socialmente da inveterati pregiudizi. Dove si vede una manifesta razionalizzazione di un comportamento, che è in aperto contrasto con gli atteggiamenti solo formalmente dichiarati.
E per ultimo, un altro aspetto del disadattamento sociale degli insegnanti è provocato da quella che è stata definita «la scuola parallela», ossia la scuola non istituzionalizzata, ma che con le sue agenzie di socializzazione e di informazione, che lo sviluppo tecnologico ha creato – televisione, radio, film, ecc. – si è posta in un rapporto competitivo con la scuola istituzionale. Mentre gli insegnanti sono unanimi nell'ammettere la priorità della radio-televisione, ad esempio, come fonte di informazione, d'altro lato soprattutto i più anziani non nascondono uno stato di incertezza e di preoccupazione d'essere emarginati dall'avvento delle nuove tecnologie, che, a loro parere, stanno generando una autentica crisi di identità nel corpo docente. Solo pochi insegnanti infatti si rendono conto che, con l'irruzione delle nuove tecnologie educative, ad essi competerà un nuovo ruolo: non più quello di trasmettitori di segmenti di cultura, ma quello di educatori, liberi dai compiti meccanici e ripetitivi, che potranno essere affidati a metodologie programmate e a strumenti, come le macchine per insegnare; e insieme quello di mediatori di cultura, in grado di stimolare e di sollecitare le capacità critiche e creative degli allievi.

Come riqualificare gli insegnanti?

Questa rassegna dei sintomi e delle componenti di una crisi – l'insegnamento come scelta di ripiego; l'esercizio di attività extraprofessionali; uno scadimento del prestigio degli insegnanti; le difficoltà di inserimento nel mondo della scuola; i conflitti di ruolo; il confronto con «la scuola parallela» – provoca certamente l'impressione di un quadro piuttosto allarmante e genera gravi preoccupazioni per il futuro della scuola italiana, se si ripensa – almeno come momento esemplare di riflessione – ad un passo di una lettera che Gramsci scriveva dal carcere alla cognata, nel dicembre del 1931: «Anche i metodi più affascinanti diventano inerti se manca il personale capace di vivificarli in ogni momento della vita scolastica ed extrascolastica, e tu sai che proprio i migliori tipi di scuola sono falliti per la deficienza degli insegnanti» [4]. E in uno dei numerosi quaderni scritti in carcere (4 - XIII, 1930-1932 p. 10), dopo aver affermato che «la lotta contro la vecchia scuola era giusta, ma si trattava di una questione di uomini», precisa, anticipando un tema di estrema attualità, che non intende parlare «degli uomini che sono immediatamente maestri, ma di tutto il complesso sociale di cui gli uomini sono espressione» [5]. Per questo anche la formazione degli insegnanti è un problema che riguarda «tutto il complesso sociale», che dovrebbe assicurarsi un sistema formativo (scuola secondaria superiore e università) atto a preparare il corpo docente.

LA SCUOLA SECONDARIA SUPERIORE: UNA RIFORMA DIFFICILE

Dopo le considerazioni sulla situazione degli insegnanti, per spiegarci le loro reazioni nei confronti della istituzione della scuola dell'obbligo, riprendiamo l'esame del nostro sistema scolastico, fermandoci alla fascia della scuola secondaria superiore, cui spetta anche, come si diceva, un ruolo non irrilevante per la formazione degli stessi docenti.
Anche sulla secondaria superiore grava il peso del passato: la legge Casati prevedeva infatti una netta separazione tra le istituzioni destinate alla formazione culturale (i licei) e le istituzioni destinate alla preparazione professionale (gli istituti magistrali e gli istituti tecnici per la preparazione a medio termine degli insegnanti elementari e dei tecnici; e gli istituti professionali per il rapido inserimento di personale esecutivo nel mondo del lavoro). La riforma Gentile, con la sua concezione aristocratica della cultura, non rimediò alla strutturazione dicotomica, che si ritrova ancora negli attuali cinque ordini di scuola superiore: il liceale, il magistrale, il tecnico, l'artistico e il professionale (non dimenticando gli otto indirizzi dell'istituto tecnico e le 31 sottospecializzazioni del tecnico industriale, a riprova del carattere professionalizzante di questo ordine di scuola, sempre pronto ad adeguarsi alle esigenze condizionanti del mondo produttivo).

Chi sceglie la scuola superiore?

La popolazione scolastica della secondaria superiore, dopo l'istituzione della scuola dell'obbligo e la più recente liberalizzazione degli accessi all'università (1969), ha segnato una notevole espansione: se negli anni 1956-60 solo il 24% dei licenziati dalla scuola media si iscriveva a un ordine di scuola secondaria superiore, in questi ultimi anni gli iscritti hanno raggiunto il 50%; da che si dimostra peraltro che il raggiungimento del compimento dell'obbligo scolastico costituisce ancora per molti ragazzi il punto di arresto degli studi.
La distribuzione della popolazione scolastica dipende dai condizionamenti ambientali: nel mezzogiorno si registra il 96,0% di iscritti rispetto al 79,3% delle regioni nord-occidentali, all'81,5% di quelle nord-orientali e all'89,5% delle regioni centrali. Il fatto è spiegato dalla più forte selezione nella scuola dell'obbligo e dal modesto sviluppo economico del sud che induce i giovani a proseguire gli studi. Ciò non toglie che nelle stesse regioni economicamente meno elevate si registrino le percentuali più alte di ritardi e di abbandoni; questi ultimi, che si verificano prevalentemente nelle zone rurali, si spiegano anche per la forte concentrazione delle scuole medie superiori nei grossi centri urbani.
Altri fattori di condizionamento dipendono dalla posizione della famiglia, particolarmente dal lato culturale, rilevato anche soltanto in base al titolo di studio del capofamiglia. Si registra infatti una scolarizzazione del 97,6% tra i figli di laureati, dell'82,3% tra i figli di genitori forniti di licenza media, del 47,4% tra i figli di genitori forniti di licenza elementare, del 18,9% tra i figli di genitori analfabeti.
La posizione socio-economica della famiglia influisce in modo piuttosto determinante anche sulla scelta dell'indirizzo di studio. Mentre i diplomati provenienti dai licei classici e scientifici appartengono infatti a famiglie di imprenditori, liberi professionisti, dirigenti e impiegati, i diplomati degli istituti tecnici e magistrali provengono da famiglie di lavoratori dipendenti. Dove si vede che, pur verificandosi una tendenza all'aumento dei figli di lavoratori dipendenti tra gli studenti medi superiori, le classi sociali più elevate continuano a conservare le loro posizioni: si trascina insomma la distinzione tra i corsi formativi destinati alle classi più abbienti e i corsi professionalizzanti destinati alle classi socialmente e culturalmente meno elevate.

Prospettive per una riforma

Questa rassegna di dati, con relativi rilievi, dimostra quanto sia necessario ed urgente – e insieme difficile – attuare una riforma della scuola media superiore. Il decennio ultimo, dopo l'istituzione della scuola media unica, ha visto nascere e fallire vari tentativi: la sorte delle più recenti proposte sarà decisa nei prossimi mesi.
Indichiamo alcune tappe di questo faticoso cammino. Dopo la conclusione dei lavori di una Commissione di indagine istituita nel 1962, il ministro Gui elaborò una serie di progetti di riforma, contenute nelle «Linee direttive del piano di sviluppo» (1964) : esse prevedevano una istruzione tecnica (biennio unitario e cinque tipi di trienni differenziati: commerciale, industriale, nautico, agrario, femminile), un'istruzione liceale (liceo classico, scientifico, linguistico, magistrale, artistico con biennio avente programmi sostanzialmente affini), una scuola magistrale per educatrici materne e L'istruzione artistica. I progetti non vennero proposti al Parlamento.
Al Parlamento fu presentato invece nel 1968 un progetto di riforma (il progetto Donati), che proponeva l'estensione dell'obbligo a 16 anni costituendo delle scuole biennali unitarie negli indirizzi tecnici, classici e magistrali. Il progetto tuttavia non fu mai attuato.
Prospettive sostanzialmente nuove emersero nel maggio 1970 nell'incontro di Frascati, convocato dal Governo italiano in collaborazione con l'OCSE-CERI (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo - Centro per la Ricerca e l'Innovazione nell'Educazione) sotto la spinta di una delle conclusioni più importanti della Sesta Conferenza dei Ministri Europei dell'Educazione (maggio 1969) : «Il est indispensable de poursuivre les efforts visant à adapter les structures et les programmes de l'enseignement afin que la spécialisation intervienne le plus tard possible et que la souplesse du système soit assez grande pour éviter que les élèves ne s'engagent dans des vois sans issue». L'incontro si concluse con un documento («i dieci punti di Frascati») che mise a fuoco i due principi ispiratori per la creazione di una scuola nuova a carattere culturale: la struttura quinquennale, onnicomprensiva e unitaria; e l'esclusione di ogni compito professionalizzante della secondaria superiore, proprio invece di previsti corsi biennali o triennali a livello universitario.
Una interpretazione rigorosa delle condizioni di Frascati portò alla formulazione di un progetto, che prevedeva un quinquennio articolato, quanto a struttura, in due cicli biennali più un anno terminale e, quanto a contenuti, in «campi interdisciplinari» (letterario-linguistico-espressivo; matematico-scientifico-tecnologico; scienze dell'uomo). All'interno di ogni campo erano previsti contenuti comuni, estesi a tutto l'arco del quinquennio; contenuti opzionali, a partire dal secondo biennio o da una fase avanzata del primo; contenuti specializzati, riservati all'ultimo anno, considerato come anno propedeutico o pre-professionalizzante, in vista cioè della scelta di un corso universitario, o di un corso parauniversitario che abiliti all'esercizio di una professione [6].

Progetti (e la realizzazione?)

Riprendendo le indicazioni di Frascati e i tentativi di formulazioni concrete contenuti nel progetto richiamato, la Commissione Biasini, nominata dal Ministro della Pubblica Istruzione con il compito di delineare le prospettive di riforma della scuola secondaria italiana, nel documento conclusivo [7] riproponeva il modello di una scuola unitaria che, «intorno ad un'area di esperienze culturali-educative comune a tutti, si articoli in gruppi di opzioni», integrati da «discipline facoltative e attività complementari libere». Nella indicazione delle linee operative, come «obiettivo nuovo e impegnativo di riforma» viene suggerita l'ipotesi di una scuola «onnicomprensiva», da affidare alla sperimentazione, rilevando tuttavia la necessità di sperimentare – dopo il primo biennio onnicomprensivo –anche soluzioni «pluricomprensive» (cioè «comprensive ad ampiezza variabile»), con riferimento a due criteri:
♦ un criterio binario, che prevede due tipi di istruzioni pluricomprensive. Per esempio:
a) l'indirizzo linguistico (classico e moderno) - storico - scientifico;
b) l'indirizzo tecnologico (tecnico-professionale) - antropologico; oppure:
a) l'indirizzo linguistico (classico e moderno) - storico-antropologico;
b) l'indirizzo scientifico-tecnologico (tecnico-operativo);
♦ un criterio ternario, che prevede un massimo di tre tipi di istruzioni pluricomprensive. Per esempio:
a) l'indirizzo linguistico (classico e moderno) - storico;
b) l'indirizzo scientifico-antropologico;
c) l'indirizzo scientifico-tecnologico (tecnico-professionale).
Una riforma articolata in questi termini, sia pure con i limiti che la sperimentazione e la gradualità dell'applicazione avrebbero potuto correggere, si annunciava come un radicale cambiamento di struttura e di metodi, che avrebbe colmato il distacco tra formazione culturale e formazione professionale.
Allo stato attuale delle cose, dopo due interventi del Ministro Scalfaro (1° agosto - 14 settembre 1972) è in esame al Consiglio dei Ministri un progetto di legge che contempla un biennio unico e tre indirizzi nel triennio: umanistico, tecnico e scientifico.
«In sostanza – scrive P. Reguzzoni su La Civiltà Cattolica del 21 ottobre 1972 – la scuola secondaria superiore dovrebbe rimanere quale essa è attualmente». È caduto il progetto di una scuola unitaria, che escludesse ogni forma di professionalizzazione.

PROBLEMI DELLA SCUOLA E DELLA DIDATTICA
Germano Proverbio
Collana «Quaderni di Pedagogia Catechistica» - pp. 136 - L. 1.000

Un aspetto certamente positivo dei modi di affrontare oggi i problemi della società, è quello di attribuire alla scuola – e in senso più lato e più vero all'educazione – un'importanza che non tocca soltanto alcune persone (gli uomini di scuola), ma la comunità tutta.
Questo interesse nuovo alla scuola e ai problemi che vi sono implicati, segna la linea che attraversa l'intero volume, anche là dove l'Autore affronta gli aspetti più tecnici dell'argomento.
Superati i pregiudizi che viziano i discorsi sulla scuola, per un errato modo di intendere il processo storico in cui è coinvolta, si indica il suo ruolo precipuo che è di promuovere la liberazione dell'uomo, attraverso la denuncia di ogni forma di manipolazione e l'annuncio di una nuova umanizzazione, fondata sulla comunione e sull'amore: l'essere della scuola è l'utopia e la profezia.
Il processo di liberazione comporta un'attenzione unica alla persona e alla società; un atteggiamento critico nei confronti della cultura frammentata in discipline e depositata in soluzioni confezionate; una ricerca di forme alternative rispetto alle tradizionali strutture della lezione e della classe; una partecipazione di tutte le componenti della comunità alla gestione della scuola, che restituisca le istituzioni scolastiche – e gli insegnanti in particolare – all'intero complesso sociale di cui devono essere espressione.

Editrice L.D.C. - 10096 - Torino-Leumann.

NOTE

[1] Questi e i successivi dati, con opportuni aggiornamenti quando richiesti, sono ripresi da A. L. FADIGA ZANATTA, Il sistema scolastico italiano, Bologna, Il Mulino, 1971.
[2] Cfr. R. H. TURNER, «Mobilità cooptativa e sistemi scolastici: Inghilterra e Stati Uniti», in: M. BARBAGLI (Ed.), Scuola, potere e ideologia, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 37-57.
[3] Cfr. anche M. BARBAGLI, M. DEI, Le vestali della classe media, Bologna, Il Mulino, 1970.
[4] M. A. MANACORDA, Il principio educativo in Gramsci, Roma, Armando Editore, p. 127.
[5] M. A. MANACORDA, op. cit., p. 327.
[6] Cfr. MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE - COMITATO TECNICO PER LA PROGRAMMAZIONE, Proposte per il nuovo piano della scuola, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1971, pp. 155-173.
[7] Cfr. «Annali della Pubblica Istruzione», XVII (1971), 6, pp. 607-632.