Società sportiva, luogo di maturazione globale

Inserito in NPG annata 1974.


Vittorio Peri

(NPG 1974-11-15)

Sullo sport abbiamo già parlato in gennaio e marzo 1974.
Per evitare fraintendimenti, è importante ricordare una premessa già altre volte sottolineata. Questi articoli non sono una trattazione sistematica sul rapporto sport-pastorale, né tanto meno una fabbrica di buone ricette per i molti gruppi sportivi che annaspano alla ricerca di uno spazio più umanizzante della loro esperienza.
All'autore abbiamo sottoposto alcuni problemi, quelli che da un giro d'orizzonte, fatto più di «fiuto» che di rassegna esemplare, ci è parso di cogliere.
Non hanno un collegamento organico. Né affrontano il tema a puntate. Sono una batteria di flash. Nelle mani degli animatori dei gruppi e delle società sportive. Perché chi ha le mani in pasta, trovi le «sue» concrete soluzioni.
Una linea, che stimiamo importante, percorre però tutti gli articoli. Ed è la traduzione al livello di «uno» specifico interesse giovanile (lo sport) delle scelte pastorali in cui ci riconosciamo.
Crediamo allo sport, in prospettiva pastorale: perché se ci sono giovani cui interessa, lì è in azione il dono insondabile dell'Amore che salva.
Fare «spazio alla salvezza» significa prima di tutto innescare all'interno del fatto tecnico, tutto un lungo e impegnativo lavoro di umanizzazione. Per questo abbiamo parlato di rifiuto di una certa selettività e competitività; per questo, la «squadra» è ricostruita, in questo articolo, con alcune caratteristiche «nuove».
All'interno del processo di umanizzazione si inserisce l'annuncio della radicale e sconvolgente «novità» dell'amore che salva, del Padre in Cristo e per lo Spirito.
Questi articoli sono quindi emblematici. Non tanto sulla sponda strettamente tecnico-sportiva; ma su quella umano-sportiva, in vista dell'educazione alla fede dei giovani che fanno sport.
Sono, in altre parole e con i limiti di ogni esemplificazione, un tentativo interessante di impostare il difficile raccordo tra «evangelizzazione e realtà profane» (si confrontino, come altro esempio importante, le riflessioni sulla scuola, soprattutto in collegamento con l'articolo programmatico di Gatti in 1974 /2).

Quante sono in Italia le società sportive e quanti sono i ragazzi e le ragazze che ne fanno parte? È difficile saperlo. Non ci sono censimenti ufficiali e, soprattutto, c'è una grande difficoltà a farli perché le società giovanili sono molto instabili: ogni anno ne nascono a centinaia e quasi altrettante scompaiono. Talvolta perché mancano i mezzi per andare avanti, più spesso perché — come vere comunità — non erano mai nate. Una cosa comunque è certa: se le società sportive sono poche, la richiesta di fare sport e il bisogno di ritrovarsi insieme sono grandi. L'indagine compiuta dall'ISVET nel 1971 su «La condizione giovanile in Italia» ha rilevato che nel tempo libero l'attività più gradita ai giovani tra i 14 e i 25 anni è conversare e stare con gli amici. Un'analoga ricerca francese ha messo in luce la stessa esigenza.
La tendenza dei giovani verso gruppi spontanei su taglia dei loro gusti è crescente. Se l'indagine statistica può rivelarne la consistenza, il problema vero per gli educatori è però di sapere che cosa significhi il fatto che i giovani vogliono stare insieme. Più che conoscere il numero delle società sportive è importante sapere perché nascono e perché scompaiono. Il fenomeno associativo, che è un segno dei nostri tempi, esige una interpretazione attenta per capire le motivazioni [1] in base alle quali dovrà essere impostato il modello associativo capace di rispondere al loro appello.

UNA PRIMA ESIGENZA: VIVERE CON E PER GLI ALTRI

L'essere con e per gli altri appartiene al nucleo stesso della persona. La mia vita è legata all'appello dell'altro che vuol essere qualcuno davanti a me e che m'invita ad essere qualcuno davanti a lui nell'amore e nella costruzione di un comune progetto. La relazione con l'altro è una dimensione costitutiva dell'uomo.
Non però qualunque relazione, ma solo quella che ci fa essere e ci fa percepire gli altri come persone. La società industriale tende a distruggere le comunità e a creare organizzazioni dove gl'individui sono depersonalizzati, ridotti a ruoli. Se domando a qualcuno «chi sei?» sento spesso rispondere «sono un operaio, uno studente, ecc.». Ci identifichiamo con la funzione. Siamo dunque anonimi titolari di ruoli in una organizzazione sempre più massificante.
Eppure, ciascuno ha bisogno di essere riconosciuto per quel che è prima che per ciò che fa: ciascuno ha bisogno di uscire dall'anonimato per integrarsi in una comunità. Le parole di Charlie Brown «ho tanto bisogno di amici» focalizzano un fondamentale bisogno dell'uomo.

La risposta: una società sportiva-comunità

Il piccolo gruppo offre la possibilità di apparire senza le maschere dei ruoli e di vivere in un ambiente dove i valori di libertà, fraternità e uguaglianza dell'antica trilogia non sono un traguardo di arrivo ma un punto di partenza.
Perché la società sportiva risponda a questi bisogni è necessario che sia primaria.
La vita offre molti esempi di gruppi primari, a cominciare dalla famiglia: gruppo naturale, non scelto e non sostituibile. Vi sono gruppi ideologici fondati su comuni interessi culturali, gruppi religiosi fondati sull'adesione alla stessa fede, ecc. che sono primari in quanto i vincoli che uniscono i membri sono fortemente affettivi, comportano rapporti spontanei e formano unità psicologica. In essi ciascuno conosce direttamente l'altro e può stabilire relazioni «a faccia a faccia».
Il gruppo secondario è invece fondato non su valori affettivi, ma sugli impegni operativi dei membri il cui valore è misurato razionalmente secondo le capacità di contribuire al conseguimento dei fini sociali. In essi la coscienza dell'esistenza degli altri è cosa vaga, l'appartenenza al gruppo fa parte del sapere più che del sentire.
Un animatore che voglia offrire un servizio di autentica crescita ai giovani deve dunque impegnarsi perché il gruppo si evolva in comunità, perché da secondario diventi primario.
Nel primo ci sono atleti che stanno insieme soprattutto o solo per fare sport, nell'altro ci sono amici che fanno sport soprattutto o solo per stare insieme. Nella comunità i giovani vivono insieme e si sentono amici, nella collettività vivono l'uno accanto all'altro: stanno insieme, ma non partecipano agli altri la loro vita né partecipano alla vita degli altri.
Il gruppo sportivo secondario è una realtà viva solo quando gli atleti sono insieme negli allenamenti o nelle gare, mentre la società sportiva primaria è una realtà operante anche quando i giovani sono tra loro lontani, perché ognuno si sente parte viva della comunità. In essa il gusto di stare insieme è più importante del fine tecnico da raggiungere.
Nella società sportiva comunità c'è un qualcosa che ne regge l'intelaiatura pur senza appartenere all'organizzazione: è l'amicizia, anima di un corpo fatto di allenamenti e gare, trasferte e cartellini, tattiche reclami magliette e cent'altre cose tutte importanti, ma decisamente subordinate a quel valore fondamentale che sta alla comunità come l'amore sta alla famiglia. Le migliaia di ragazzi che ogni anno firmano un cartellino e indossano una maglietta numerata vogliono certamente giocare e forse evadere dalla vita familiare e scolastica: ma oltre a questo, e per lo più inconsciamente, cercano un ambiente fatto di amicizia.
Il valore autentico di una società sportiva educante sta proprio in questa offerta d'incontro dal quale nasce la conoscenza, il dialogo, la stima, l'amicizia, l'amore. Sta nell'offrire un luogo in cui poter vivere l'uno con l'altro, l'uno per l'altro.
A coloro che sentono o che già vivono questo valore umano nella società sportiva l'operatore della pastorale può far scoprire il «più» rivelato da Cristo e cioè:

• La misura nuova dell'amore la quale si realizza quando esso è donato a tutti, per sempre, senza limiti. Il confronto con la Parola aiuterà a capire meglio questi tre aspetti della nuova dimensione dell'amore cristiano.
— Donato a tutti: «Ma io vi dico: amate anche i vostri nemici, pregate per coloro che vi perseguitano» (Mt. 5,44).
— Donato per sempre: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate l'un l'altro, come io ho amato voi» (Gv. 13-34).
— Donato senza limiti: «Nessuno ha amore più grande di colui che sacrifica la propria vita per i suoi amici» (Gv. 14,13).

• Il valore nuovo dell'amore, in quanto costituisce il metro del nostro giudizio («Venite, benedetti dal Padre mio, prendete possesso del Regno preparato per voi [...] perché ebbi fame e mi deste da mangiare» Mt. 25,34) è l'essenza stessa della vita umana («Chi non ama resta nella morte» 1 Gv. 3,14).

UNA SECONDA ESIGENZA: GESTIRE LA PROPRIA VITA

La protesta giovanile esplosa negli ultimi tempi in situazioni politiche e sociali diverse esprime sostanzialmente il rifiuto della società oligarchica. I giovani vi si trovano a disagio e cercano nuovi modelli che permettano una effettiva partecipazione alla vita sociale e la gestione della propria esistenza.
Vogliono essere titolari, non riserve nel gioco della vita. Come gli atleti in una squadra. Solo che in questa, quasi sempre, anche i titolari sono gregari: parte di un «gregge» guidato da presidenti, managers, tecnici, ecc., tutti a servizio del successo e dei soldi che esso procura.
Per aumentare la produttività di questi «beni» le società sportive si organizzano come le industrie: da una parte i dirigenti che programmano, dall'altra gli atleti che eseguono. Quando tutto va bene ci sono i premi di produzione, nei periodi di vacche magre si esonera l'allenatore.
Ma se il diagramma del successo sportivo è molto oscillante, quello della maturazione umana è piuttosto piatto. E il motivo è semplice: un'organizzazione guidata dall'alto, con criteri efficientistici, è incapace di far crescere le persone, di aiutarle nel cammino verso la maturità. In un gruppo condotto con metodi autoritari o comunque verticistici i giovani non sono sollecitati ad esprimersi, ma costretti a camminare su binari prefissati. Ciò produce disinteresse, atrofia intellettuale, apatia psicologica.
Un gruppo sportivo nel quale il mecenate o il fondatore ha il monopolio delle decisioni non aiuta i giovani a diventare capaci di scelte personali e a sviluppare la loro creatività: il loro io trova rifugio nel ruolo formale dell'adulto e resta in perpetua sudditanza.

La risposta: una comunità sportiva autogestita

Il metodo che meglio risponde alle esigenze di partecipazione nel gruppo è l'autogoverno. Esso esige, innanzi tutto, che nel gruppo non vi siano
da una parte quelli che pensano e dirigono e, dall'altra, gli esecutori passivi delle decisioni altrui.
L'autogoverno garantisce ogni membro dalle forme di autoritarismo e di paternalismo, e interpella ciascuno ad una costante partecipazione diretta e responsabile.
Nella forma di autogoverno i progetti, le decisioni e le attività non sono prerogativa di uno o di pochi, ma il risultato dell'impegno di tutti. In questo modo anche il risultato più modesto assume un valore speciale, non paragonabile a quello di un risultato anche maggiore, ma ottenuto con l'impegno di pochi.
L'autorità (da «augeo») aiuta a crescere verso la maturità, mentre l'autoritarismo, che è abuso di autorità, blocca la spontaneità e la partecipazione.
Certo, è necessaria molta fiducia nei giovani e una profonda convinzione che essi sono i primi — anche se non i soli — autori della loro liberazione. Il compito dell'animatore è dunque pedagogico: non si sostituisce ai giovani, ma li aiuta a diventare gestori della propria libertà.
Affinché la partecipazione possa svilupparsi come costume, oltre che come obiettivo, è necessario un costante impegno nella ricerca delle cause che la impediscono, sia all'interno dell'uomo (volontà di manipolazione da parte di chi dirige, inerzia o gregarismo di comodo da parte di chi è guidato) , sia nelle strutture che tanto valgono quanto non emarginano l'apporto responsabile delle persone.
L'operatore della pastorale avvalorerà queste considerazioni di ordine psicopedagogico con la parola di Dio che rivela la natura autentica dell'autorità: «Chi vorrà tra voi diventare grande, sarà vostro servo, e chi vorrà tra voi essere primo, sarà vostro schiavo. Così, come il Figlio dell'uomo che non è venuto per essere servito, ma a servire» (Mt. 20,28). In forza di questo comando, il servizio che l'animatore cristiano rende ai ragazzi è sempre volontà di promozione nell'amore perché l'io che ama vuole l'esistenza del tu e il suo sviluppo autonomo.

UNA TERZA ESIGENZA: ESSERE LIBERI E CREATIVI

Società sportiva: comunità autogestita, dunque, per rispondere alle motivazioni profonde di amicizia e di partecipazione che spingono inconsciamente i ragazzi a farvi parte.
Ma ciò non basta per farla diventare luogo di maturazione umana. Una società basata sui criteri del profitto, anche puramente tecnico, è infatti sempre repressiva, vi siano o no amicizia e partecipazione. Quando la vittoria è un diritto per chi paga e un dovere per chi è pagato, lo sport diventa lavoro e l'atleta strumento. Quando la carriera è più importante della vita, lo sport soffoca l'esigenza di libertà, spegne la creatività e compromette la maturazione umana.
Il gruppo che offre libertà d'azione e indipendenza intellettuale, che sollecita decisioni personali e senso di responsabilità aiuta invece i giovani a vivere una vita in cui sempre più si troveranno a dover decidere per conto proprio.

La risposta: sport «altro» da quello che è

Qui siamo a un punto nodale, di fronte ad un bivio che impone la scelta del significato dello sport (identico o diverso da quello oggi accettato) e della sua collocazione (all'esterno o all'interno del processo di sviluppo umano).
Se è vero che «il gioco espressivo e la creazione artistica appartengono al centro della vita» (H. Cox), il compito specifico dell'animatore non è di procurare ai giovani nuovi spazi sportivi all'interno della giornata, ma di liberare quelli esistenti dalla schiavitù degli idoli riconosciuti e di sottrarli alla manipolazione dei tanti padroni, per i quali restituire al gesto sportivo la sua libertà e creare società autogestite significa non solo rompere l'equilibrio del sistema attuale, ma snaturare lo sport.
Questa rottura è invece il solo modo di valorizzarlo, coinvolgendolo in un rapporto di solidarietà con l'uomo. Non si tratta di fare un altro sport, ma di fare dello sport altro da quello che è adesso. Il sole che donava un po' di luce agli occhi malati di Francesco d'Assisi nel cortiletto di s. Damiano era certo lo stesso che aveva interessato Tolomeo; ma per Francesco non era un elemento della teoria geocentrica ma «messer lo frate Sole», una creatura da guardare con occhi nuovi, da cantare con gioia. Non un altro sole, ma un sole altro da quello dell'astronomo.
Direi che prima ancora di liberare gli sportivi dalla schiavitù del successo (che comporta la meritocrazia, l'esasperato tecnicismo e, più in generale, la supremazia del fare sull'essere) , essi vanno liberati dalla schiavitù del non senso umano dello sport attuale.
Questo è il compito fondamentale dell'animatore: di fronte alla schizofrenia che alimenta falsi bisogni e miti alienanti, di fronte ad una concezione unidimensionale dello sportivo, ridotto a produttore di punti, l'animatore deve proporre il necessario ritorno alla concezione dell'uomo integrale e al senso del mistero della vita.
Questo esodo apre grandi spazi alla specifica azione pastorale all'interno della società sportiva. In particolare:

Riflettendo con i suoi amici sulla precarietà dei successi e sulla provvisorietà di ogni traguardo raggiunto, l'animatore li aiuterà a scoprire che il significato ultimo delle cose è al di là di esse: quello dello sport al di là del gesto tecnico, come quello di un suono è al di là dello strumento che lo produce.
Voler capire lo sport attraverso la lettura dei risultati è come smontare un piano per vedere dove sia un notturno di Chopin.
E un senso nascosto, ma nulla è talvolta più reale di ciò che è nascosto.

Un impegno in questa direzione aiuta il recupero della dimensione completa dell'uomo. Di fronte a una concezione e a una prassi dualistiche che pongono il significato dello sport al di fuori della vita (denaro, successo, record) , che separano l'uomo dalle cose e perfino dalle sue azioni, l'operatore della pastorale trova un altro specifico impegno: la ri-creazione nell'uomo dell'armonia tra l'essere e l'agire, in modo che quest'ultimo sia rivelatore dell'io profondo e creatore dell'io ideale; la riconciliazione tra queste due realtà che lo sport rende oggi antitetiche e concorrenti così che fare spazio a una significa sottrarlo all'altra.

CONCLUSIONE

Un'azione pastorale impostata su queste linee, è indubbiamente complessa: richiede una forte immaginazione creativa e una notevole conoscenza del fatto sportivo. Ma, anche per il suffragio di concrete esperienze, appare la più idonea a far lievitare attraverso lo sport i valori umani latenti per far sentire le attività agonistiche integrate con i veri bisogni dell'uomo. Ad evitargli anche, dopo tanto sudare, la delusione di restare umanamente fermo come l'attore chapliniano che fatica e si affanna a salire su una scala mobile in discesa.

NOTE

[1] La motivazione che spinge dal di dentro e guida spesso inconsciamente la condotta è differente dal motivo cosciente dell'azione e dal suo movente visto dall'esterno.