Enzo Natta
(NPG 1974-06-28)
Riprendiamo il discorso sul lavoro-professione. Altri interventi sono in progetto, per completare il quadro della nostra proposta. Il riandare alla sintesi dell'editoriale (1973 /10) diventa d'obbligo, per una comprensione matura delle varie analisi.
Questo articolo ha una funzione direttamente informativa. Risponde a quella preoccupazione pastorale che raccomanda come indispensabile l'avere, con una certa precisione, il polso della situazione, per non inserire proposte e progetti nel vago e nel generico.
Abbiamo scelto il filone del cinema, perché di largo consumo e quindi notevolmente significativo di una mentalità corrente. Il discorso potrebbe essere ripetuto a proposito di pubblicità, di canzoni...
Abbiamo già suggerito il taglio con cui leggere rassegne del genere (cfr. 1973, 2-3-4).
Anche nei limiti evidenti, il cinema fa costume. Molto facilmente le scelte ideologiche che sostengono pellicole di larga diffusione, filtrano nella sensibilità dello spettatore medio: diventano il «suo» modo di vedere la realtà. Per giungere a cogliere il fondale inconsapevole su cui molti giovani si muovono, è prezioso smontare la macchina e percorrere a ritroso il cammino: individuare i «messaggi» più comuni di un certo filone, per avere il polso di un modo comune di pensare.
Accanto alla funzione di conoscenza, la rassegna si offre come prezioso strumento educativo.
Partendo dal messaggio e dall'ideologia di queste pellicole, si può fare un preciso discorso costruttivo sul tema lavoro-professione. Le istanze teoriche presentate negli articoli precedenti (1973, 11 e 12; 1974, 1) possono diventare il terreno concreto di verifica e di confronto, se il giovane le rilegge all'interno di queste «proposte». E così quell'educazione al senso critico, tante volte raccomandata, diventa esperienza quotidiana.
D'altronde, ce n'è un gran bisogno. Ciò che presentiamo su «cinema e lavoro», dimostra, a larghe battute, che la mentalità corrente è ben lontana da quella dimensione di impegno, di gestione sociale della realizzazione professionale, di disponibilità a fare del proprio ruolo uno strumento di liberazione, di maturo rapporto tra tempo libero e tempo occupato... di cui, con accenti diversi, abbiamo parlato.
«CINEMA E LAVORO:» QUESTO SCONOSCIUTO
Inutilmente cercherete la voce «cinema e lavoro» in una delle tante guide suddivise per temi e argomenti che i vari circoli del cinema di solito forniscono ai loro aderenti per orientarli nella scelta di cicli. Segno che l'argomento lavoro è estraneo agli interessi del cinema italiano. E non potrebbe essere diversamente se pensiamo che il nostro cinema ha una struttura di stampo padronale, manovrata e gestita (con criteri esclusivamente mercantilistici e di profitto) da una classe imprenditoriale che quanto a sensibilità, cultura e impegno politico-sociale può darsi la mano con la vecchia guardia di Hollywood, con quei «producers» che Chaplin etichettava col soprannome di «venditori di salsicce».
Il lavoro d'altra parte è un problema di conflitti di classe che non conviene toccare. E così, mescolando la vecchia massima del «non svegliare il can che dorme» con i ludi circensi della civiltà tecnologica dove i sogni irrealizzabili prendono corpo nelle immagini proiettate sullo schermo, l'industria culturale del cinema italiano porta avanti una sua precisa linea politica, che soltanto apparentemente è politica di disimpegno, ma che in realtà è una cosciente scelta di linea ideologica. E se qualcuno esce dal seminato peggio per lui.
Un esempio eloquente
Valga per tutti, a mo' di esempio, il caso di La terra trema di Luchino Visconti, che da solo basta a rendere l'idea di come sia dura l'esistenza di quei film che osano sfidare il sistema. Il film, realizzato nel 1948, era stato prodotto da una casa di ispirazione cattolica, la Universalia, e ambientato all'indomani della guerra in un villaggio di pescatori siciliani narrava la vicenda di una famiglia che intendeva emanciparsi dallo sfruttamento dei grossisti del pesce. I componenti la famiglia ipotecano la casa per comprare una barca e lavorare per conto proprio, ma, mentre all'inizio la pesca dà buoni frutti, in seguito le cose si complicano. Rovinata, la famiglia si disperde. I grossisti hanno vinto.
Salutato come una rivelazione dalla critica alla Mostra di Venezia, il film ebbe le prime avvisaglie del clima ostile che gli si era creato attorno proprio a Venezia, dove ottenne soltanto un premio di terz'ordine. L'andamento commerciale poi fu un vero disastro. Boicottato in tutti i modi, dopo il fallimento dell'Universalia (dovuto peraltro a costosissime e sballate superproduzioni e non al costo relativamente modesto del film di Visconti) La terra trema fu successivamente presentato in versione ridotta e doppiato in un pulitissimo italiano che snaturava così il dialetto siciliano con cui si esprimevano gli interpreti, autentici pescatori di Aci Trezza. Per completare l'opera, in Francia (dove un'efficiente e capillare organizzazione di cineclub aveva saputo creare un terreno e un'accoglienza favorevolissimi al film) La terra trema arrivò accompagnato da un brutto commento fuori campo che gli dava un significato contrario a quello originale. Colpo di grazia di un sistema che non ammetteva deviazionismi di sorta. E figurarsi poi da un film dove si sosteneva che soltanto con l'organizzazione e l'unità dei lavoratori si poteva contrastare lo sfruttamento padronale.
25 anni dopo
A venticinque anni di distanza da quell'episodio le cose non sono molto cambiate. Ovviamente le forme e i metodi d'intervento sono diversi, meno rozzi e brutali, meno drastici e decisi, ma la sostanza rimane. E certi discorsi, che sono poi il solito discorso della liberazione dell'uomo, sono puntualmente rimandati con un pacioso sorriso da imbonitore e la frase d'obbligo: «Ma perché dobbiamo rattristare il pubblico? Il pubblico di queste cose non ne vuol sapere! Ne ha già abbastanza nella vita reale. Al cinema facciamolo divertire».
E così, con un discorsetto da falsi filantropi, i venditori di salsicce si nascondono sotto la maschera dei benefattori per non concedere spazi di alcun genere a un dibattito che alla lunga potrebbe mettere in discussione la loro stessa posizione.
Lo strano successo di «fronte del porto»
D'altra parte tutto il mondo è paese e se Roma piange Hollywood non ride. Tanto è vero che soltanto raramente lo sfruttamento del proletariato americano ha trovato spazio negli studi californiani.
Basterebbe citare Il sale della terra, (uscito in Italia con l'orrendo titolo di Sfida a Silver City) realizzato in pieno maccartismo da alcuni cineasti iscritti nelle liste nere, e il suo opposto Fronte del porto di Elia Kazan. Il primo (storia di uno sciopero organizzato da minatori americani e immigrati messicani in una miniera di zinco del Nuovo Messico) uscì nel 1953 e, nonostante i suoi pregi e le sue qualità, ebbe sempre vita difficile, ostacoli d'ogni genere, boicottaggi a non finire. Il secondo, realizzato l'anno successivo, affermava senza mezzi termini che i sindacati dei portuali erano nelle mani dei gangster. E se questo era vero per alcuni sindacati non lo era proprio per quello degli scaricatori, che invece si era sempre opposto fieramente al maccartismo.
Il film di Kazan (uomo di formazione rooseveltiano-comunista che al sopravvenire dell'ondata maccartista si lasciò prendere dal panico e che chiamato in causa dalla commissione per le attività antiamericane denunciò i suoi compagni) ebbe invece spianate le vie del successo, ivi compreso l'Oscar per la migliore interpretazione, premio che com'è noto viene assegnato con criteri corporativi dai membri dell'industria hollywoodiana.
LA CINEMATOGRAFIA ITALIANA
Il discorso a questo punto potrebbe aprirsi a ventaglio e investire tutte le cinematografie, da quelle a gestione capitalistica a quelle inserite in rigide strutture burocratiche. E per queste ultime il caso di Fascismo quotidiano del sovietico Michail Romm, uscito nel 1965 quando il «disgelo» dava ancora i suoi frutti, è singolarmente indicativo di una denuncia che non trova confini e che si manifesta in situazioni abbastanza analoghe sotto tutti i cieli.
Ma restiamo alla realtà italiana, proprio per evitare una dispersione in rivoli e rivoletti oltretutto neanche sempre facili a confronti.
L'immediato dopoguerra
Impensabile sotto il fascismo (e il filone dei «telefoni bianchi» è appunto la dimostrazione di un disimpegno imposto dall'alto) il dibattito sui problemi del lavoro si riaccende nel dopoguerra con il neorealismo. Sono gli «anni difficili» (e Luigi Zampa li ricorda infatti nel film omonimo del 1949) della ricostruzione, dove tutti i nodi dei vecchi conflitti sociali messi in cantina dal fascismo vengono al pettine con l'aggiunta di tutte le piaghe aperte da un conflitto che ha dilaniato l'Italia nell'anima e nel corpo. Sono gli anni della disoccupazione (Ladri di biciclette di De Sica, 1948), gli anni dell'emigrazione clandestina (Il cammino della speranza di Germi, 1950), gli anni delle lunghe file nella speranza di ottenere un posto (Roma ore 11 di Giuseppe De Santis, 1952) e dei cento mestieri pur di guadagnare un pezzo di pane (Due soldi di speranza di Renato Castellani, 1952). Sono gli anni dove anche «l'arte di arrangiarsi» (di Luigi Zampa, 1955) contribuisce con fatica a rimettere in piedi tutto quello che pareva irreparabilmente perduto.
Gli anni passano e, mentre la triste realtà delle baracche (Il tetto di De Sica, 1956) sembra ormai così lontana da far arricciare il naso a molti critici che parlano di «epigoni del neorealismo», gli «sciuscià» crescono. Anche la «gioventù perduta» (Pietro Germi, 1947), tragico retaggio di tutte le violente contraddizioni esplose nell'immediato dopoguerra, è tornata a sorridere e dimentica il viaggio nel buio della disperazione. I vitelloni di Fellini, Le ragazze di San Frediano di Valerio Zurlini, Poveri ma belli di Dino Risi ci offrono, pur in maniera diversa, un quadro abbastanza preciso delle nuove generazioni degli anni '50. Generazione che dopo l'avventura ancora abbastanza spensierata della «terza liceo» (Luciano Emmer, 1954) mette tutti «i sogni nel cassetto» (Renato Castellani, 1957) e affronta la vita, il lavoro, la professione.
Lavorare per far soldi
Comincia una nuova parentesi nel cinema italiano. Una parentesi breve ma intensa: quella del personaggio che lavora sodo per farsi una posizione. P il coronamento degli «anni facili» (di cui Zampa ci aveva già dato un saggio, anticipando i tempi, nel 1953). Ma la società italiana sta attraversando un periodo denso di profondi contrasti. Se da una parte già si avvertono i primi sintomi di un miracolo economico di cartapesta, effimero e fasullo come i suoi campioni (il Gassman del Sorpasso di Dino Risi, 1962; l'Alberto Sordi del Boom di De Sica, 1963; il Walter Chiari del Giovedì di Dino Risi, 1963), dall'altra rimane aperta tutta una serie di laceranti contraddizioni e di piaghe dolorose che il cinema italiano sottolinea nei pochi film coraggiosamente impegnati a mettere a fuoco i più stridenti squilibri sociali che rappresentano altrettante macchie nel mondo del lavoro: la piaga dell'emigrazione (I magliari di Rosi, 1959, e La ragazza in vetrina di Luciano Emmer, 1960), la crisi dell'agricoltura, l'abbandono delle campagne, l'occupazione delle terre e il brigantaggio (Gli ultimi di Vito Pandolfi, 1963; Il brigante di Castellani, 1961; Banditi a Orgosolo di Vittorio De Seta, 1961), il problema dei pendolari (Pelle viva di Giuseppe Fina, 1963), la stampa imbavagliata (Una vita difficile di Dino Risi, 1961), ma soprattutto le contaminazioni determinate dall'industrializzazione e dall'urbanesimo in individui legati a matrici sostanzialmente agricole. E qui Rocco e i suoi fratelli di Visconti, 1960, segna un quadro d'assieme non più eguagliato della disgregazione operata dalla civiltà industriale nel corpo di nuclei sociali e familiari impreparati a un impatto violento e immediato con la nuova realtà tecnologica degli anni '60.
E così, se da una parte ci sono i millantatori, gli imbroglioni, i piccoli arrivisti risucchiati dal miraggio dei facili guadagni (i vari protagonisti del Sorpasso, del Boom e via dicendo), dall'altra ci sono analisi più profonde e sociologicamente meditate sulle nuove generazioni strappate innanzitempo al lavoro dei campi. E sono soprattutto giovani autori al di fuori del sistema a sentire questi problemi, tra cui Olmi e Gregoretti in prima fila con Il posto (1961) e I nuovi angeli (1962).
Domenico, il ragazzo brianzolo che nel film di Ermanno Olmi è spronato dai propri familiari a muoversi sulla scia di un moderno Travet, è un po' l'immagine-tipo dei piccoli ceti operai-contadini che premono con sempre maggior forza intorno alle cinture delle grandi città. E infatti la preoccupazione del posto fisso riflette una mentalità tipicamente piccolo-borghese che ha come massima aspirazione un magro ma sicuro stipendio, la pensione e la cassa mutua. Le grandi avventure, i giochi dell'alta finanza, la mosca cieca con un vortice di cambiali nella quale si cimentano Sordi e Gassman, capofila di una generazione di quarantenni decisi a bruciare le tappe del «successo» (film di Mauro Morassi, 1963, con Vittorio Gassman) non fanno per ragazzi come Domenico, che alla scrivania del «manager» e del grosso dirigente d'azienda preferiscono quella da usciere.
I «nuovi angeli» degli anni '60 sono proprio questi. Non gli arruffoni, parolai e improvvisati «self-made-men» di un miracolo economico destinato a spegnersi al primo tirar di vento, ma i personaggi di Olmi e di Gregoretti, il Domenico del Posto, l'operaio milanese trasferito in Sicilia, protagonista dei Fidanzati di Olmi (1963), il giovane mezzadro toscano che nel film di Gregoretti dice al padre: «Se resto a fare il contadino non troverò mai moglie».
E, sempre nei Nuovi angeli, tutto il contrasto fra Nord industrializzato e Sud agricolo, fra neocapitalismo e dignità della persona umana, fra borghesia e proletariato, è tratteggiato in una serie di quadretti che esprimono tutte le contraddizioni di una società giunta impreparata alle soglie di una radicale trasformazione tecnologica e industriale.
«Vedi quel saponetta là» dice a un certo punto dei Nuovi angeli l'operaio cottimista della grande fabbrica del Nord a un giovane appena assunto
«l'anno scorso era operaio con me, adesso è passato impiegato». La camicia bianca e la cravatta invece della tuta, le dita sporche d'inchiostro anziché di grasso, la scrivania al posto del tornio. Queste le uniche aspirazioni, il solo traguardo su cui rovinarsi il fegato. L'impiegato. Per i ceti contadini, operai, piccolo-borghesi sembra non esista altro che il letargo di un lavoro oscuro, anonimo, polveroso e grigio, forse ancora più monotono e alienante di una catena di montaggio. L'evasione sarà affidata unicamente alle fantasticherie notturne, ai «sogni proibiti» di Nino Manfredi nel film L'impiegato di Gianni Puccini (1959) o alle cupe mitomanie dello scrittore mancato del Posto.
Il cinema dei problemi personali
Ma siamo sempre all'interno di un discorso che si muove ai margini o quasi del grosso sistema industriale, dove i produttori non gradiscono certi discorsi e dove gli autori dimostrano altri interessi. Questi ultimi, infatti, a un cinema socialmente aperto preferiscono un cinema limitato alla sfera privata (e non soltanto Antonioni, ma anche l'ultimo Visconti e l'ultimo Fellini stanno a testimoniarlo). Da una parte dunque, appena accennato o timidamente proposto, un cinema impegnato a dibattere problemi d'attualità che coinvolgono la situazione politica e sociale del Paese nei suoi risvolti quotidiani, un cinema che punta la sua ottica sulla sfera della collettività, un cinema sociologico se vogliamo; dall'altra, profuso invece a piene mani, un cinema privato, intimista, interiorizzato, personale, disimpegnato da ogni intervento politico, sociale, sindacale, ma teso per contro a esprimere i problemi dell'individuo in relazione all'esistenza, ai sentimenti, agli eterni e inquietanti interrogativi sul destino dell'uomo di fronte al mistero della vita e della morte. Un cinema antropologico, potremmo definirlo. E il fatto che il cinema dell'uomo singolo, il cinema dell'uomo che si guarda nello specchio anziché affacciarsi alla finestra, il cinema «verticale» che scandaglia l'individuo nei suoi più profondi segreti, abbia il sopravvento sul cinema «orizzontale, su quello che estende il suo raggio d'azione ai rapporti dell'uomo con la società, col mondo del lavoro e dell'organizzazione politica nel quale vive e opera, dimostra che certe scelte vengono sempre dall'alto e mai dal basso. Tanto è vero che per trovare un cinema espressione di base bisognerà attendere l'avvento del cosiddetto cinema militante.
Ecco perché, dovendo rispondere alla domanda «com'è vista la professione e il lavoro oggi nel cinema?» si corre il rischio di restare a bocca aperta come un allocco.
Ed è chiaro il perché
Se un giorno, poniamo, un disastro ecologico o una follia atomica dovessero cancellare ogni segno di vita sul nostro pianeta, eventuali visitatori giunti dagli spazi celesti che volessero stabilire attraverso la documentazione fornita dalle immagini com'è organizzata professionalmente la società italiana degli anni '60-'70 si troverebbero di fronte a una stranissima piramide sociale che per certi versi evoca il ricordo dell'allucinante Metropolis di Fritz Lang. In fondo, la grande platea degli impiegati addormentati, autentici automi abbrutiti, piccoli Travet, omini rassegnati e delusi, grigi e inetti eppur contenti del loro stato (soltanto i pazzi tentano di ribellarsi, come il ragionier Total di La proprietà non è più un furto di Petri o come il bracconiere della Vacanza di Tinto Brass, ma sono pazzi e come tali finiscono malamente); al vertice la classe degli eletti, la classe dirigente, i padroni del vapore, i capitani d'industria che non lavorano mai, gli architetti (professione tanto di moda in questi ultimi tempi al cinema) dediti soltanto a passare da una vacanza all'altra, da un cocktail-party a una soirée da jet-society. E in mezzo a questa piramide nessun problema sociale, nessuna rivendicazione delle classi sfruttate e oppresse, nessuna incrinatura. Soltanto un pugno di stupidi Don Chisciotte (i Sordi e i Gassman di vecchia memoria), arrampicatori sociali di mezza tacca destinati a crollare dalle loro fragili scale di carta.
Espressione di un sistema neocapitalistico, il cinema italiano non può esprimere che un'ideologia neocapitalistica. La società del benessere non può mostrare che le facce del benessere: gente che vive di rendita, ricchi sfaccendati, scrittori che non scrivano neppure una cartolina, proprietari terrieri dediti soltanto a inguaiar servette. E tutt'intorno un sicuro cerchio di poliziotti che soltanto nei titoli «stanno a guardare». In realtà vigilano molto bene e non disdegnano chiari metodi squadristi. Ci sono sì, è vero, i film politici, i film che si erigono a difesa delle istituzioni democratiche come Indagine di Petri, Confessione di Damiani e via dicendo, ma è anche vero quanto dice Pasolini e cioè che sono i film delle mezze verità, una moda che mette a posto le coscienze e che invece di suscitare polemiche le assopisce. E il cinema italiano, il grosso cinema gestito dal sistema neocapitalistico e finanziato con fondi la cui provenienza è spesso ambigua e incerta (molta puzza di petrolio in questi ultimi tempi), vuole infatti assopire ogni polemica, addormentare ogni coscienza, ottenebrare ogni idea.
Il filone alternativo
Ecco perciò che un autentico cinema alternativo, un cinema che sia veramente l'espressione della liberazione dell'uomo a cominciare dagli strumenti culturali che lo condizionano e lo massificano, non può venire che da una diversa gestione del potere cinematografico, da una diversa concezione del pubblico, non più pubblico massificato e irregimentato, che crede di scegliere quando invece è scelto, ma pubblico organizzato. Un cinema di base, dunque, di cui si avverte sempre più l'esigenza e di cui si avvertono già i primi sintomi nei film militanti. Non a caso, infatti, verso la fine del 1973 la Mostra del cinema indipendente (che si tiene ogni anno a Olbia) dovendo predisporre tutta una serie di proiezioni come corollario a un convegno sul tema «Cinema e lotte sociali» non trovò di meglio che attingere ai cataloghi del cinema militante.
La fabbrica, Morte sul lavoro, La tenda in piazza, Portomarghera: una lotta, Puglia: il potere dell'acqua, Metalmeccanici '73 sono alcuni titoli dei film compresi nei catologhi del cinema militante. E evidente che se di tutte le categorie e di tutti i settori che danno vita al mondo del lavoro soltanto le forze operaie e in piccola parte anche quelle contadine sono riuscite ad esprimere un cinema di base, magari attraverso la mediazione di gruppi sindacali e associazioni di cineasti, ciò dipende esclusivamente da un criterio di organizzazione, di sensibilizzazione dell'opinione pubblica, di promozione e di diffusione.
PER CONCLUDERE
Per affrontare un tema di così vasta importanza quale il cinema e il lavoro bisogna dunque per prima cosa analizzare il rapporto fra il cinema e le classi lavoratrici. Analizzando la panoramica cinematografica che ha trattato in questi anni i problemi del lavoro e delle lotte sociali, bisogna innanzitutto cercare di stabilire con molta chiarezza quali siano stati i momenti cinematografici più vivi e dialettici che hanno affrontato questa tematica usando lo strumento cinematografico non per registrare le esigenze e le lotte del mondo del lavoro, ma il significato di queste esigenze e di queste lotte, i suoi risvolti, le sue premesse, i suoi sviluppi, le sue conseguenze e le sue prospettive. E allora ecco che tutti gli interrogativi che erano già emersi come fondo generale del problema ritornano con maggior insistenza in tutte le loro varie specificazioni. Come il cinema si è avvicinato ai problemi del mondo del lavoro? Quale è stato il ruolo dell'autore nel rapporto col mondo del lavoro e quale la sua partecipazione alla soluzione del problema? Quale è stato il ruolo svolto dai partiti e dai sindacati attraverso nuove forme di produzione e l'uso dello strumento cinematografico? ovvio che tutti questi interrogativi richiedono una verifica continua e sempre aggiornata che non può ritenersi soddisfatta da una prima risposta. Penso che potremo trovarci tutti d'accordo nell'ammettere che il cinema soltanto raramente, e sempre in un contesto dove l'affabulazione romanzesca finiva per coprire la reale portata del problema, si è interessato ai problemi del mondo del lavoro; così come potremo convenire che il rapporto dell'autore con questi problemi è stato quasi sempre determinato da stimoli di simpatia e quasi mai da partecipazione attiva e diretta; così come potremo riconoscere che il ruolo svolto dai partiti e dai sindacati nei confronti del nuovo uso dello strumento cinematografico comincia appena a muovere i primi passi (e infatti, oltre ai film militanti, soltanto Trevico-Torino di Ettore Scola è un'opera che si inquadra in questa nuova dimensione di un diverso intervento). Per il resto è pacifico che il cinema si è quasi sempre lasciato facilmente irretire dal momento emotivo della commozione piuttosto che da quello responsabile della partecipazione diretta alla lotta e ai problemi del mondo del lavoro. Pronto a versare qualche lacrima sulle condizioni alienanti delle catene di montaggio o sulle inumane condizioni di vita degli immigrati meridionali nelle metropoli del nord (basta ricordare La classe operaia va in paradiso di Elio Petri e Una breve vacanza di De Sica) il cinema italiano degli anni '70 non sembra molto dissimile da certa letteratura populista che spargeva retorica sui drammi delle classi popolari dall'involucro ben imbottito della propria condizione borghese.
A tutti questi interrogativi, che si ripropongono dunque come premessa per un'anailsi soggetta a risultati e a variazioni imprevedibili data l'estrema modificabilità del rapporto, dobbiamo dunque rispondere con altrettanti dibattiti aperti non alla discussione o alla disquisizione teorica ma a una proposta dello strumento cinematografico inteso come stimolo per una crescita della coscienza sociale e politica sia del pubblico, non più concepito come spettatore passivo, sia degli operatori culturali, dei critici e degli animatori di cineclub (autentici mediatori fra lo schermo e il pubblico soltanto quando sono coscienti che il cinema non può mai estraniarsi dalla realtà in cui vive e opera), sia degli autori, che, per ricoprire un ruolo realmente organico e culturale nel rapporto fra cinema e mondo del lavoro, non devono sentirsi impegnati socialmente e politicamente soltanto durante la realizzazione del film. Perché di impegni messi da parte a film ultimato son piene le soffitte.