La cultura analfabeta

Inserito in NPG annata 1978.

(NPG 1978-03-68)

. .
L'uomo che sa leggere e scrivere coglie la realtà in modo diverso dall'uomo che non sa leggere né scrivere. Essere alfabeti non significa soltanto poter leggere libri e giornali, comunicare con i propri simili, superare le distanze del tempo e dello spazio. Significa prima di tutto condividere la stessa struttura mentale di chi sa leggere e scrivere, vedere il mondo in un altro modo, cogliere la realtà ed agire come fa uno che sa scrivere.
Quando l'analfabeta va a scuola, rompe quell'equilibrio che aveva trovato nel ghetto degli analfabeti. Per venir fuori dall'analfabetismo occorrono per tale motivo sforzi non comuni ed una grande intelligenza. L'individuo che ci riesce ha superato insieme le difficoltà enormi dell'ambiente scolastico e la lotta contro il muro dei «suoi analfabeti». Una vera scuola dovrebbe partire oggi da questa realtà, da questa diversità.
Vi presentiamo in queste pagine una sintesi del libro-inchiesta: «Né leggere né scrivere» di Harrison-Callari Galli (Feltrinelli 1974).

MOBILITÀ SOCIALE

Se un individuo fa oggi il medico ed il padre faceva il contadino, c'è stata mobilità sociale. E c'è stata mobilità sociale anche perché lui è andato a scuola fino alla laurea ed il padre si era fermato alla quinta elementare; c'è stata mobilità sociale per la differenza di reddito, per il tipo di abitazione, per il vivere in città, per i comforts posseduti, per il prestigio sociale raggiunto.
È evidente che la scuola è alla base della mobilità sociale; l'istruzione è il canale della mobilità sociale. Quando in una data società la scuola non determina mobilità, la colpa è da ricercarsi nella struttura e nell'orientamento scolastico di quella particolare società.
Se la scuola è sinonimo di mobilità, analfabetismo è sinonimo di immobilità. L'analfabeta è socialmente insignificante, perché la sua personale incapacità lo destina ai margini del progresso.

IL RUOLO FAMILIARE

La legge persegue il padre che fa evadere al figlio l'obbligo scolastico; e l'insegnante incolpa lo studente che a scuola non rende e che con il suo scarso profitto rallenta il progresso della classe. Ma in questo modo si dimentica la realtà in cui milioni di Italiani sottosviluppati vivono: in abitazioni sovraffollate, nelle quali è impossibile ottenere un minimo di isolamento, privi di servizi igenici, di riscaldamento, di mobili. In tali condizioni il ragazzo che vuole studiare, che vuole cercare di fare i compiti a casa proporrebbe a se stesso qualcosa di inaudito, di incomprensibile, oltreché di inattuabile. Ne va di mezzo la sua incolumità psichica e la sua pacifica convivenza familiare.
Il nostro ordinamento scolastico presuppone l'esistenza della famiglia, le attribuisce funzioni di sostegno, di cooperazione, di integrazione. In certe zone tutto questo per lo più non esiste e la scuola dovrebbe pensare ad una mole di lavoro, per i compiti a casa, per le lezioni private, per gli esami di riparazione, superiore di molto a quella delle ore di impegno scolastico.

NASCERE IN UNA FAMIGLIA ANALFABETA

Si può facilmente provare che se la famiglia è analfabeta mancherà al ragazzo la base per lo studio, per la riuscita nella scuola, anche se la frequenterà come vuole la legge. L'ignoranza dei genitori è fattore più determinante della buona volontà del ragazzo e dell'impegno degli insegnanti.
Richiamarsi alle responsabilità del genitore per la riuscita scolastica del figlio e soprattutto perché il figlio non evada dalla scuola, significa attribuire all'ambiente di famiglia la funzione educativa. Per la cultura analfabeta questa idea non ha senso, perché è l'ambiente nel suo insieme che svolge questa funzione.
Il sistema di educazione cui è sottoposto il bambino istruito si articola secondo il principio della frammentazione, della separazione: si separa il bambino dagli adulti, si separa la scuola dalla casa, lo studio dal gioco, le vacanze dall'anno scolastico, il compagno educato dal compagno di strada; e il passaggio dall'essere neonato all'essere uomo è un susseguirsi di punti staccati: l'educazione in casa, l'asilo, la scuole elementari, le scuole medie, le scuole superiori, l'università. Al contrario nella famiglia analfabeta il bambino nel suo ambiente non è considerato una tappa dell'essere uomo: anche lui – ragazzo com'è – svolge un ruolo dentro il sistema. Si spiega anche così il lavoro minorile. Il padre che lo instrada al lavoro e la madre che riceve con orgoglio lo stipendio, non sono genitori senza cuore. I genitori credono istintivamente nella utilità per la vita di un impiego e nella sua funzione di educazione concreta. È sicuro che ci sono dei lavori che il minore vive come esperienza più formativa della scuola (almeno di quella che potrebbe accostare lui) e che diventano esecrabili solo perché taluni traggono profitti sproporzionati sulle loro fatiche.
A noi – come si è detto – questo non è connaturale, perché ormai diamo scontato che prima si studia e poi si lavora: ma non dobbiamo dimenticare che tutto ciò risponde ad un ordine creato da noi, non ha necessariamente un fondamento nella natura dell'uomo.

UNA INDAGINE SIGNIFICATIVA

100 famiglie, 50 a Brigaria, 25 a Villagonia, 20 a Terramara, 5 a Bardireto. Cento capifamiglia, 100 coniugi, 487 figli, 687 individui.
Di capifamiglia solo 3 hanno la licenza elementare (e non sanno ormai più né leggere né scrivere). Sette hanno la licenza di proscioglimento (lo Stato ha riconosciuto l'inutilità di costringerli a proseguire oltre la terza elementare); quarantuno hanno frequentato per alcuni anni la prima elementare. Quarantanove non hanno mai messo piede in una scuola.
Nessuna delle mogli di costoro ha raggiunto la licenza elementare. 61 sono analfabete. L'età media dei 487 figli è di 16 anni. 250 sono uomini, 237 donne. 53 sono analfabeti totali, 235 sono semianalfabeti. 31 hanno adempito l'obbligo scolastico. 22 stanno adempiendolo. 46 sono in età prescolare.
Nessuno dí costoro ha frequentato o frequenta le scuole secondarie superiori. Nessuno raggiungerà cultura, prestigio. Nonostante l'istruzione obbligatoria si troveranno nelle stesse condizioni di partenza dei loro genitori.
Nelle 100 famiglie, 388 hanno evaso la Legge dell'obbligo scolastico.
Dei 100 capifamiglia, 16 sono disoccupati, 23 occupati in modo saltuario (disposti per lo più a fare di tutto). 21 sono braccianti, 11 manovali, 8 pescatori, 7 venditori e artigiani ambulanti, 5 contadini, 3 facchini, 2 netturbini, 2 carrettieri, 2 sono posteggiatori abusivi.
Analfabeti si nasce; e anche se la famiglia si occupasse dell'istruzione dei figli, sarebbe una vera lotta disperata.

AUTOESCLUSIONE

Non ci si può fermare alla semplice constatazione ed alla denuncia di questi fatti. Se la classe sociale, l'influenza dei genitori, una sistematica emarginazione ad ogni livello hanno un peso nella educazione e nella mobilità sociale, occorrerebbe trovare la meccanica dell'esclusione, che in concreto viene vissuta come «autoesclusione». Perché non vogliono o non riescono ad andare a scuola?
«Tornai a casa ancora rosso, con le orecchie che mi bruciavano: non dissi niente a nessuno per lutto il giorno. La mattini dissi a mio padre: a scuola non vado più. Sono troppo sporco». E il padre accoglie queste parole come una liberazione, come una speranza segreta realizzata, quasi con orgoglio.
«Sedevamo in fondo alla classe, io e i miei fratelli più grandi. A scuola non facevamo niente. Qualche parola la imparavamo, ma metterle insieme, no. Il maestro non ci diceva niente. Ho ripetuto la prima due volte ed ho fatto mezza seconda. Avevamo allora il giardino e mio padre mi portò con se: "abbivirava": per questo lavoro un ragazzino rende quanto un uomo».
«Non studiai perché non ne volevo: eravamo in cinque a casa. Nessuno di noi c'era portato».
«A scuola andai per due anni. Male, anzi malissimo. Poi mio padre mi ritirò per portarmi con sé in campagna. Mi metteva su una mula carica di fieno e io la portavo dal campo al paese e poi la riportavo in campagna. Sarà perché conoscevo la strada, il lavoro mi riusciva bene, la scuola no».
«Non ci avevo la testa né ai numeri né alla lettera. La scuola è fatta per chi ha la testa buona, e la voglia».
Non volerne della scuola significa andare a scuola senza aver preparato il compito assegnato. Significa che a casa, quando tutto diventa difficile, anche quello che a scuola era facile, non puoi farti aiutare dalla mamma perché lei è ignorante. Ti vergognavi quando il maestro diceva che eri cretino, perché ti pareva lo dicesse anche a tua madre. Altro che aiuto a casa: non ti eri ancora seduto e già ti mandavano fuori a fare una cosa; non avevi un posto dove stare, eri di impiccio ed allora te ne uscivi.
Domani il maestro ti dirà «è la vostra sorte che vi rende ignoranti»: lì, per la strada, ti accorgi che il maestro ha ragione. Allora a scuola non ci vai più per evitare la cinghia di tuo padre. «Ci avete ragione, dicevi, non è cosa mia, me ne vado a lavorare». Così a casa non ti dicono più che hai la testa a giocare e tua madre, da quando porti i soldi della settimana, ti tratta da uomo.
«Non era cosa mia, non ne volevo della scuola, e se ci avessi avuto la testa per studiare ora la vita sarebbe diversa per tutta la famiglia. Ma non c'era sorte, non era destino. La commare di mia madre ci aveva un figlio che era più piccolo di me di due anni, che ancora non parlava quando io andai il primo giorno a scuola. Poi un giorno me lo trovai seduto tre banchi avanti, che rispondeva ad una domanda che io non avevo neanche capito. E mi ricordo che non mi fece neanche invidia: pensai, quello diventa dottore. È una brava persona ancora oggi. Ha detto all'infermiera che non mi voleva fare entrare: quando viene questo signore dovete chiamarmi subito, seppure sto operando. Neanche ora ci ho invidia: lui alla scuola ci era portato. Chi se la fida a scuola riesce».
Tutti ricordano i «bravi», e, qualche volta, qualche «bravo» era uno di loro. Ma qualcuno di loro vince anche al lotto: non significa niente. I genitori in genere si disinteressano di un risultato scolastico positivo. Mentre il risultato negativo – la bocciatura – sarà per tutti, per il bambino, per i genitori, per il maestro, la prova definitiva dell'inutilità di un tentativo. Imporrà al ragazzo di ritornare dentro la cultura analfabeta ed al lavoro minorile.

L'EDUCAZIONE DELLA STRADA

In fondo però l'analfabeta vive molto poco in famiglia. La realtà più grande l'apprende ancora dalla strada. La strada è la sua casa e la sua scuola, una scuola attiva, dove ognuno insegna agli altri ciò che sa fare. In strada l'analfabeta diventa componente di un gruppo di cui condivide il modo di essere, di pensare, di agire. In strada apprende una cultura che è la negazione della scuola. La scuola vuole la lingua, la strada vuole il dialetto; la scuola vuole il comportamento corretto, la strada la destrezza fisica; la scuola è lontana dalla realtà, è competitiva all'interno dei ragazzi della stessa età, la strada, al contrario, permette di vivere con persone di età diverse e vive per la realtà. La scuola lo punirà per il suo dialetto, per le sue maniere scorrete, perché non ha fatto i compiti, perché è meno bravo degli altri: lo convincerà che non è fatta per lui, perché egli stesso sarà convinto di non essere fatto per la scuola. Nelle strade l'individuo si socializza, acquista una sua «cultura», impara a pensare e a vivere in un certo modo; accetterà la logica del lavoro saltuario, lavorando senza progetti e senza prospettive.
Nella strada il bambino raggiunge una socialità opposta a quella che gli propone la scuola, sviluppa capacità e attitudini completamente diverse da un suo coetaneo che appartiene alla cultura istruita. «In strada ci sono dei ragazzini che potrebbero risolvere qualche mio grosso problema di fisica perché hanno dei modi di percezione sensoriale chi io ho perduto tanti anni fa», diceva Robert Oppenheimer. Tra la banda e la classe, tra il capo e il maestro, tra la strada e la scuola, è il modello della cultura analfabeta quello che vince.

PROSPETTIVE

Hanno ragione i loro maestri quando dicono che questi bambini a 5 anni sono già analfabeti. In un certo senso tutto comincia già all'età dell'asilo. L'ambiente esercita sul bambino una costante pressione: quanto più presto vi si esce, meglio è.
Soprattutto perché l'analfabeta quando va a scuola ha già trovato il suo equilibrio, che la scuola tende a rompere; ha trovato una propria integrazione nel ghetto degli analfabeti.
Il sistema scolastico attuale è selettivo: per venir fuori dall'analfabetismo occorrono sforzi non comuni ed una grande intelligenza. L'individuo che ci riesce ha superato insieme le difficoltà enormi dell'ambiente scolastico e la lotta contro il muro dei «suoi analfabeti».
Una vera scuola dovrebbe oggi partire da questa realtà, da queste diversità. Non ci si può mettere al di sopra delle parti in una assurda neutralità per realizzare una giustizia che è la più palese ingiustizia.
La scuola si imbatte in individui diversi e si colloca con alcuni di loro contro gli altri. Pretende che l'allievo abbia già quello che dovrebbe dargli ed insegnargli. La scuola però – nonostante tutto – specie in alcune zone disperate d'Italia –riesce a salvare le mani pulite; essa esclude, ma non è ritenuta responsabile dagli esclusi che accettano la logica «autoescludendosi». Essi non percepiscono l'ingiustizia e non si ribellano: anzi la sentono come una colpa personale.
«Mostrami un uomo la cui vita è andata male, ti mostrerò mille ragioni per cui è solo un caso se al suo posto non ci siamo noi» (Phil Ochs).