Luca Ricolfi - Loredana Sciolla
(NPG 1979-06-30)
Questa relazione è una prima e provvisoria riflessione sui risultati che stanno emergendo da una ricerca condotta a Torino tra gli studenti della scuola secondaria dalle Facoltà di Magistero e Scienze Politiche. In questo articolo riproduciamo solo le parti centrali della relazione (n.d.r.).
MA ESISTE QUESTO «RIFLUSSO»?
Basta scorrere i giornali degli ultimi mesi per accorgersi che il problema giovanile è al centro di un dibattito molto vivace che per lo più ruota intorno ad una parola che, da sola, evoca un complesso di immagini e di valutazioni: la parola «riflusso».
A noi non interessa tanto far notare che in dieci anni molta acqua è passata sotto i ponti, o che i fenomeni storici non si ripresentano mai nello stesso modo, quanto sostenere che il risultato più importante di questi anni è proprio una modificazione irreversibile delle realtà che queste categorie – il politico, il privato – denotano.
Se prima del '68 il politico e il privato identificavano- innanzitutto alcuni ambiti, alcune sfere percepite come separate – il politico come impegno organizzato da un lato, il privato come riproduzione della vita quotidiana dall'altro – in questi anni è avvenuto un progressivo innesto, un progressivo intreccio tra i due momenti. Determinati luoghi sociali – la scuola ad esempio – prima vissuti in modo essenzialmente privato, quasi semplici appendici della famiglia, tendono a diventare pubblici, determinati problemi, prima percepiti come problemi individuali, vengono ridefiniti come comuni.
Da che cosa, verso che cosa si rifluisce? Dal politico al privato, dall'impegno al qualunquismo.
È un modo, questo, di leggere il mutamento sociale che presuppone una visione di tipo critico dei fenomeni collettivi: vi sarebbero due poli – il politico, il privato – fra i quali i comportamenti tenderebbero ad oscillare e ai quali sarebbero, in ultima analisi, riducibili. Secondo questa visione ad una contrazione del «politico» non potrebbe che corrispondere una espansione simmetrica del «privato», quasi che la dinamica sociale fosse equiparabile a quella fisica dei vasi comunicanti. Parlare dei giovani come «nuovi indifferenti» istituendo un parallelo con gli anni '50 o addirittura con gli anni '20, significa precisamente rifarsi ad una visione di questo tipo.
Nuove forme di socializzazione e crisi di identità giovanile
Dalla famiglia, alla scuola, al tempo libero sono i modi della socializzazione che sono cambiati: la separatezza e la privatezza di questi ambiti tende a venir meno, dissolta dalla crescita della società civile.
Questa crescita avviene, innanzitutto, come articolazione del tessuto sociale. Nel decennio che va dalla fine degli anni '60 fino ad oggi si assiste allo sviluppo di nuovi strumenti di democrazia e di partecipazione diretta, alla crescita – soprattutto negli ultimi anni – di una miriade di iniziative a livello sociale (dai gruppi teatrali alle radio-libere ai circoli giovanili) e, nello stesso tempo, a un processo, più sotterraneo, di infittimentò delle reti di solidarietà sia nella scuola sia fuori della scuola.
Ma crescita della società civile significa anche ridefinizione dei modelli culturali, dei rapporti fra le persone, dei modi stessi di formazione dell'identità. Dopo la rottura del '68, che ha enunciato la crisi del vecchio sistema di valori, e al tempo stesso l'ha generalizzata e fatta precipitare, il processo di costruzione dell'identità sembra avvenire sempre meno come acquisizione di valori e di modelli di comportamento mediata dall'autorità di determinati ruoli sociali. Il genitore, l'insegnante hanno sempre meno autorità in quanto tali, in virtù dei ruoli che rappresentano, e devono sempre più costruirla, rendendosi «credibili».
Ciò non significa affatto che le cose si semplifichino; diviene anzi assai più difficile e faticosa la ricerca da parte del giovane della propria identità sociale e personale: da un lato i modelli tradizionali non si possono più accettare incondizionatamente, dall'altro quelli «alternativi» hanno perso gran parte della loro forza motivante.
LA POLITICA COME «INSIEME DELLE SCELTE CHE SI FANNO TUTTI I GIORNI»
Senza riferirsi a queste nuove forme di socialità, alla crescita autonoma della società civile di cui abbiamo parlato, non potremmo capire perché gli studenti diano oggi una definizione del «fare politica» non solo diversa da quella tradizionale, ma in parte anche diversa da quella divenuta egemone con il '68. Fra le quattro definizioni proposte nel questionario, infatti, quella che ha raccolto i consensi maggiori è stata questa: «Fare politica significa essere consapevoli della situazione in cui uno si trova; rappresenta l'insieme delle scelte che si fanno tutti i giorni».
Questa definizione era emersa direttamente esaminando alcune centinaia di temi, svolti in alcune scuole di Torino. Da sola ha raccolta quasi la metà delle preferenze, un numero di consensi, cioè, quasi pari alle altre tre definizioni messe insieme. Le altre definizioni erano le seguenti:
1) «impegnarsi concretamente per trasformare la società» (vicina alla definizione del '68). Questa definizione è stata indicata come «la più vicina» alle proprie idee dal 28% degli studenti, e comunque «vicina» dal 91%.
2) «dare il proprio contributo di cittadini al funzionamento e alla gestione delle istituzioni democratiche». Questa definizione è stata indicata come «la più vicina» alle proprie idee dal 23% degli studenti («vicina» dall'83% degli studenti).
3) «fare politica è in ogni caso un affare sporco, che non mi riguarda come persona». Questa definizione è stata indicata come «la più vicina» alle proprie idee dal 4% degli studenti («vicina dall'8% degli studenti).
Dal primato dell'impegno alla dimensione politica dell'esistenza
Soffermiamoci brevemente sulla prima definizione, quella della politica come scelta. Il punto essenziale da sottolineare in questa definizione è l'estensione del significato del termine politica: -politica diventa «l'insieme delle scelte che si fanno tutti i giorni». Questo aspetto, l'estensione di significato del termine, l'idea che «tutto è politica» per. certi versi era già presente nel '68. Ma con tutt'altre caratteristiche. Allora esprimeva la critica di ogni pretesa di oggettività, l'impossibilità di essere «neutrali» e nello stesso tempo indicava una sorta di primato, il primato dell'impegno e della militanza su ogni ambito dell'esistenza.
Ovai, significa in primo luogo che ogni ambito dell'esistenza è politicizzabile, perché «politica» è innanzitutto il modo di vivere e di impostare i rapporti con gli altri. Si indebolisce cosi una delle idee-guida del '68: l'idea che cambiare la società significhi innanzitutto lottare contò le istituzioni, viste come il luogo esclusivo in cui si concentra e si incarna il potere. In ciò si può scorgere da un lato il riconoscimento che la trasformazione della società è qualcosa di più complesso della semplice «presa del potere», e che il potere permea, tutti i rapporti (pensiamo alla messa in questione da parte del movimento femminista del rapporto uomo/donna), dall'altro la critica del militante politico inteso come «rivoluzionario di professione». È chiaro che l'accentuazione del momento della «scelta», proprio perché estende il concetto della politica ad ambiti che prima ne erano esclusi, lo rende anche più debole, stemperandone e diluendone il significato. È uno stemperamento, però, che contrariamente a quanto potrebbe apparire ad una prima analisi, non è associato ad una ripresa di quel complesso di orientamenti e di valori che noi siamo soliti definire come privatistici o individualistici: l'ideologia del merito, della concorrenza, della carriera, il ripiegamento intimistico. Riportiamo qualche dato.
Si fa strada un privato «sovraccarico di pubblico»
Gli studenti che considerano come criterio fondamentale per la scelta del proprio lavoro valori come il reddito, il successo, la carriera rappresentano meno del 15% degli studenti di Torino. Per contro gli studenti che del lavoro privilegiano il contenuto concreto, il fatto cioè che il lavoro sia interessante o socialmente utile, sono il 64% del totale, cioè 2 studenti su 3. I rimanenti, circa il 20%, indicano come criterio principale la sicurezza dell'impiego.
Alla crisi dei valori individualistici sul terreno del lavoro, corrisponde un processo analogo sul terreno della scuola. Alcuni dei meccanismi tipici attraverso cui si riproduceva in passato l'ideologia meritocratica e competitiva, l'interrogazione e il voto, ancora oggi, a dieci anni dal '68, continuano a non essere visti e accettati dagli studenti come mezzo di competizione e di affermazione individuale.
Ma forse il punto più interessante che emerge dalle risposte degli studenti riguarda quella che in passato si era soliti considerare come la sede privilegiata del privato: il cosiddetto «personale». Solo un quarto degli studenti esprime un atteggiamento che riduce i problemi personali a fatti privati; la stragrande maggioranza (tre quarti degli studenti) si orienta invece in direzione opposta: i problemi personali sono considerati non solo «importanti e comuni» ma da affrontare e discutere in pubblico.
È all'interno di questo contesto che va letto il recupero, messo in evidenza da diverse parti e confermato dai dati della ricerca, della famiglia come terreno e momento importante dalla propria esistenza. Dalle discussioni dirette con gli studenti coinvolti nella ricerca, l'impressione molto netta che si ricava è che la famiglia abbia perso gran parte della sua autorità soprattutto in quanto trasmettitrice di valori, e sia vista, invece come un luogo di discussione in cui versai e attraverso cui filtrare le difficoltà e i problemi che nascono all'esterno. L'atteggiamento degli studenti sembra oscillare fra una sorta di pragmatismo, che a volte scivola nell'indifferenza o nell'opportunismo, un atteggiamento di partecipazione attiva, cui presupposto non è l'adesione ai valo dei genitori, ritenuti comunque più tradizionali dei propri, ma una sorta di «pratica de la tolleranza», di ricerca della mediazioni Dopo quanto si è detto si può anche, naturalmente, continuare a parlare di ritorno privato. Il punto però è un altro: la reali che questo termine definisce è, irreversibilmente, una realtà cambiata. Si ritorna, si, privato, ma è un privato che, in attesa di categorie adeguate per coglierlo, possiamo solo definire come un privato «sovraccarico di pubblico».
LA CRISI DELL'ASSOCIAZIONISMO POLITICO GIOVANILE
Abbiamo detto che la crisi dell'impegno non si associa ad una ripresa dei valori privatistici. Occorre rilevare, nello stesso tempo, che questa crisi ha assunto, negli ultimi due-tre anni, dimensioni molto vaste e investito almeno tre diversi livelli del «fare politica».
I dati e gli ambiti dell'assenteismo politico
In primo luogo ha investito l'associazionismo politico in senso stretto: gli studenti iscritti alle federazioni giovanili dei vari partiti, all'Udi e ai gruppi della nuova sinistra sono il 7% degli studenti. Questa cifra, che in sé può anche non dire molto, diventa significativa se si tiene conto che le altre forme di associazionismo – soprattutto sportivo e di matrice cattolica – raccolgono circa la metà degli studenti, una parte quindi tutt'altro che esigua. In secondo luogo la crisi riguarda la partecipazione alle elezioni scolastiche e le tendenze elettorali più generi L'assenteismo alle elezioni scolastiche è aumentato continuamente e in misura massiccia dall'istituzione degli organi collegiali a oggi: nell'ultima tornata, quella di dicembre scorso, l'assenteismo ha toccato la sua punta massima, intorno al 60%. Inoltre dai dati della ricerca risulta una percentuale molto alta, circa il 50%, di studenti che non esprime una preferenza partitica. Da un confronto con le non molte inchieste condotte negli anni scorsi sugli orientamenti elettorali dei giovani sembra possibile affermare che il numero degli «indecisi» sia andato crescendo negli ultimi due anni.
In terzo luogo la crisi investe le stesse forme di partecipazione diretta che si erano affermate a partire dal '68. Qui l'assenteismo politico non si manifesta come mancata adesione, ad esempio come mancata adesione a scioperi ed assemblee scolastiche, ma come progressivo svuotamento di queste forme di partecipazione. Il numero di studenti che aderisce agli scioperi' continua ad essere molto alto (circa il 75%), ma è decisamente ridotto il numero di coloro che vanno anche al corteo (uno scioperante su cinque). Così per le assemblee: a disertarle sistematicamente è appena il 9% degli studenti, ma anche tra gli altri, che sono la stragrande maggioranza, sono assai pochi quelli che vi prendono parte in maniera attiva.
L'area ristretta del qualunquismo
I fenomeni che abbiamo richiamato – la crisi della partecipazione e l'aumento dell'assenteismo – sono ormai un dato acquisito e riconosciuto da più parti. Assai meno scontata è invece l'interpretazione politica degli stessi fenomeni.
L'interpretazione prevalente stabilisce una sorta di equivalenza fra l'assenteismo come comportamento e il qualunquismo come sua matrice ideologica. Questo tipo di equivalenza non è affatto ovvia, e tanto meno provata dai fatti. In periodi di crisi degli strumenti di partecipazione e di stagnazione delle lotte, diventa decisivo analizzare e distinguere le varie componenti di cui l'assenteismo è la risultante.
Nell'assenteismo confluiscono almeno due componenti fondamentali: il qualunquismo in senso stretto e la critica al partitismo. Nella critica al partitismo confluiscono – a loro volta due comportamenti, l'uno di tipo attivo, l'altro di tipo passivo, che sconfina nell'indifferenza e nell'apatia politica. Per qualunquismo in senso stretto intendiamo la posizione di chi rifiuta qualunque, forma di impegno sociale e collettivo, di chi rifiuta cioè i contenuti stessi del fare politica, e vede la politica come dimensione estranea e negativa.
Quest'area, che ha una marcata impronta conservatrice, è molto ristretta in assoluto e riguarda meno del 10% degli studenti. Su questo risultato che, allo stadio attuale di elaborazione dei dati consente solo di indicare una soglia massima, convergono tutta una serie di risposte. Possiamo ricordarne alcune.
La definizione della politica come «affare sporco, che non mi riguarda come persona», è stata scelta solo dal 4% degli studenti: uno su venticinque. Ma ancora più significativo è il fatto che, mentre ciascuna delle altre tre definizioni di cui già si è parlato, sono state comunque ritenute vicine alle proprie idee anche da chi non le metteva al primo posto, la definizione della politica come «affare sporco» è stata viceversa respinta come «lontana dalle proprie idee» dal 92% degli studenti.
Gli studenti che non aderiscono agli scioperi, dando come motivazione che «è sbagliato trascurare lo studio per occuparsi di politica», sono il 3,9%. Lo stesso discorso può essere fatto per quanto riguarda i motivi della mancata partecipazione alle assemblee.
La critica dei giovani al partitismo
Molto più diffusa è invece la critica del partitismo, quella posizione cioè che non nega la politica, ma piuttosto critica un certo modo di fare politica, verticistico, burocratico, a volte clientelare, che si pensa sia incarnato soprattutto dall'apparato di partito. Gli studenti che danno un giudizio decisamente negativo del modo di fare politica dei partiti sono infatti 35 su 100.
Che la politica come tale non rappresenti, a livello di massa, una dimensione estranea e connotata negativamente, è qualcosa che è stato fissato persino nel linguaggio. Gli studenti usano un termine apposito, quello di «partitica», per distinguere nettamente i due piani: la pratica dei partiti – la «partitica» appunto – su cui si dà una connotazione negativa, e la «politica», cui viceversa si attribuiscono solo connotazioni positive.
IL RIFIUTO DELLA CULTURA DELLA EMARGINAZIONE
La crescita dell'assenteismo cui abbiamo assistito negli ultimi anni va ricondotta, secondo noi, in primo luogo all'approfondimento della crisi di rappresentanza, di quei distacco tra 'istituzioni e società civile che è un tratto permanente dello sviluppo storico in Italia. L'allargamento di questa forbice è legato non solo alla mancanza di sbocchi politici di un intero ciclo di lotte, divenuta palese dopo il 20 giugno '76, ma anche al fatto che la crescita della società civile – le trasformazioni del costume, della mentalità, delle relazioni – è avvenuta nell'assoluta latitanza delle istituzioni.
I giovani davanti ai problemi della scuola
Il luogo in cui questo processo si può vedere con maggiore evidenza è proprio In scuola.,In assenza di riforme e di qualsiasi indicazione da parte degli organi dello stato, la scuola, lungi dal diventare una «terra di nessuno», una specie di «guscio vuoto», si è, per così dire, «ristrutturata dall'interno», quasi per forza propria, sotto la spinta delle sue componenti. La scuola ha cambiato volto: sono cambiate le relazioni fra insegnanti e studenti, i meccanismi della selezione (l'interrogazione, il voto), i contenuti ideologici e culturali. Naturalmente, proprio per la latitanza delle istituzioni, il cambiamento è avvenuto in modo contraddittorio, diseguale, con grosse differenze non solo tra tipi diversi di scuola, ma anche fra istituto e istituto, e addirittura fra classe e classe. Se non si può dire che la scuola, oggi, abbia trovato un suo assetto, non si può nemmeno dire che sia «allo sfascio».
All'interno di questo quadro diventa forse più chiaro uno dei risultati più inattesi della ricerca: lo spazio ridottissimo che ha la cosiddetta «cultura dell'emarginazione». Nel-là scuola l'atteggiamento di estraneità verso l'istituzione, inteso come rifiuto che non si articola in alcuna domanda di cambiamento, riguarda una minima parte degli studenti: quelli che pensano che la scuola debba fornire esclusivamente uno spazio fisico, da gestire autonomamente, sono meno del 4%. Quelli che non solo pensano questo – che la scuola non debba svolgere alcun compito – ma pensano anche che sia un'istituzione da abbattere, sono ancora di meno: non raggiungono l'1%.
La maggioranza degli studenti, invece, anche se non è per nulla soddisfatta della scuola com'è – solo il 7% dice che la scuola «così com'è oggi va abbastanza bene» –traduce tuttavia questa insoddisfazione in una domanda di cambiamento, che presenta diversi gradi di radicalità, e non è omogenea quanto al contenuto. Tre quarti degli studenti esprimono esigenze che vanno da una domanda di trasformazione radicale della scuola e della società, a una domanda di semplice ammodernamento. Sul piano dei contenuti l'atteggiamento deglisiudì-riti sembra oscillare tra due poli: la richiesta di professionalità e di competenze specifiche da un alto, la critica dell'estraneità degli insegnanti rispetto alle esigenze e ai bisogni degli studenti dall'altro. Le risposte degli studenti sembrano indentificare, in altre parole, una domanda di cambiamento che esprime anche una ricerca di legittimazione al di fuori però dei vecchi modelli autoritari
Il mito del «rifiuto del lavoro»
L'assenza di una «cultura dell'emarginazione», verificata finora nella scuola, può essere verificata anche rispetto al lavoro. Il cosiddetto «rifiuto del lavoro» sembra essere, a giudicare almeno dalle risposte degli studenti di Torino, più una generalizzazione indebita di situazioni particolari e di casi limite, che non una effettiva realtà.
Il lavoro è considerato come l'aspetto più importante della vita, o come un aspetto comunque importante, sia pure tra altri aspetti, da circa 1'80% degli studenti. Il restanti 20% considera il lavoro essenzialmente come un mezzo, una condizione per realizzare altri fini (impegno sociale e politico, attività culturali, divertimento).
La ricerca di concretezza come domanda di cambio
Il fatto che l'ideologia del «rifiuto del lavoro» abbia uno spazio cosi limitato va probabilmente associato al cambiamento del modo stesso di concepire il lavoro, di cui abbiamo già parlato a proposito della crisi degli orientamenti privatistici. Il lavoro viene concepito cioè sempre meno in modo astratto, come mezzo per ottenere prestigio sociale, e sempre più in modo concreto, con riferimento cioè al contenuto.
Ritroviamo qui, come nella scuola, il punto essenziale che emerge dal complesso delle risposte degli studenti: la crisi di legittimazione, sia come crisi di rappresentanza sia come crisi di consenso delle istituzioni, non si presenta come rifiuto delle istituzioni stesse o come «cultura dell'emarginazione», ma piuttosto come domanda di cambiamento. È una domanda tuttavia che non si esprime più in termini conflittuali, ma che sembra assumere forti connotazioni di tipo pragmatico, al di fuori di precisi riferimenti ideologici.
A questa modificazione in senso pragmatico della domanda ha contribuito non poco la latitanza delle istituzioni in tutti questi anni. Nel vuoto crescente di credibilità la politica del «muro di gomma» non ha solo determinato un senso diffuso di impotenza, ma ha anche reso sempre più indefiniti e inafferrabili i contorni della controparte.