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    Aria di crisi tra i «ragazzi di partito»


     

    Franco Floris

    (NPG 1979-06-15)

    Nel 1977, con una serie di fatti clamorosi culminati nella guerriglia per le strade di Bologna e sintetizzati dalla foto del giovane che imbraccia a due mani la P 38, la questione giovanile si impone nuovamente alla attenzione pubblica. Da allora l'interesse rimane vivo. Ogni nuova azione dei brigatisti ripropone l'interrogativo sulla lealtà di certe frange del mondo giovanile verso le istituzioni. E questo mentre la crisi occupazionale emargina sempre nuove leve di giovani e mentre le nuove mode, dai punk alla discomusic, sembrano, così si dice, conquistare i giovani e farli ritornare al privato.

    I giovani tra delusione, riflessione, stanchezza

    È facile ammettere che il mondo giovanile attraversa un momento di incertezza, di stanchezza e di riflessione. Più difficile affermare che sia di segno positivo o negativo. Qualche voce, tutt'altro che isolata, si incarica di giudicare frettolosamente. Ritorna il «mito dell'adulto», saggio e previdente, il mito di colui che sapeva come sarebbero andate a finire le cose. Qualcuno non esita a criminalizzare i giovani. Lo scetticismo verso le nuove generazioni sembra farsi consistente anche fra quelli della generazione del '68.
    Con puntualità si ripete il rito delle etichette che più che per capire serve, a chi le inventa, per difendersi ed esorcizzare il nuovo che avanza. Termini ambigui come «riflusso e ritorno al privato», fine dei miti e caduta di valori, «generazione infranta e nuovi indifferenti», si fanno strada e divengono di dominio comune.
    Al di là delle facili etichettature si deve prendere atto di una reale trasformazione del mondo giovanile. Tra gli stessi giovani si afferma di non capirsi più. I più giovani rifiutano, o piuttosto ignorano, l'eredità del '68, vale a dire quel complesso di scelte ideologiche e strategiche che avevano orientato, dal '68, il progetto di trasformazione culturale, politica e sociale in cui tutta una generazione si ritrovava.
    Oggi gli interrogativi sembrano spostarsi di preferenza dalle strategie alle motivazioni di fondo. La ricerca di una società più giusta è solo parte di una ricerca più globale di una «nuova qualità di vita».
    Un momento di pausa e di riflessione ma anche di stanchezza, solitudine e, in casi estremi, di disperazione. La morte di Marco Riva, suicidatosi con i gas della sua auto, militante di Democrazia Proletaria e redattore da un anno a Quotidiano dei Lavoratori, ha riproposto il problema in tutta la sua crudezza agli stessi compagni di lotta. «Io mi sono trovato a scontrarmi con una realtà troppo grande, ha lasciato scritto Marco, e ho deciso di non voler tirare avanti una situazione veramente insostenibile e senza prospettiva alcuna... Non è stato il rifiuto della vita ma la impossibilità di vivere la mia vita, la mia realtà, a farmi scegliere la morte». La delusione di molti giovani ha radici profonde. Sono crollati i modelli di una speranza politico-sociale, come il Vietnam e la Cina, e le ideologie che la sostenevano. A questo si accompagnano altri fattori, come ad esempio, la emarginazione sociale in cui tanti giovani sono oggi rinchiusi. In una società come la nostra in cui l'età media della popolazione si innalza progressivamente, i giovani contano sempre meno. La esperienza sociale di larghi strati giovanili è del resto compromessa anche dallo sfascio delle istituzioni in cui vivono, anzitutto scuola e famiglia.
    Di fronte alla difficoltà di inserimento sociale il giovane assume un atteggiamento di dite e«Non si può negare, osserva Baget Bozzo in una intervista sul rapporto tra giovani e politica concessa al quotidiano La Stampa, una certa forma di paura e di incertezza che si manifesta nei giovani nel non differenziarsi. Oggi il giovane cerca di porsi non come alternativa ma di integrarsi». Del resto, aggiunge Baget Bozzo, «adesso il giovane non conta nulla perché non ha motivi di aggregarsi a scendere in piazza. L'occupato ha il potere perché ha la sua fabbrica, il disoccupato non conta nulla perché non ha neppure il lavoro».

    Il calo di partecipazione giovanile nella sinistra storica

    In questo quadro viene meno, in particolare, il rapporto giovani-politica. Le assemblee scolastiche sono-spesso deserte e senza acuti culturali e politici. La partecipazione, a parte certe iniziative locali di tipo rivendicativo, non dice più niente e l'impegno politico, nel senso tradizionale del termine, cede il posto ad altri tipi di azione e di aggregazione.
    Si nota soprattutto una generale flessione della partecipazione politica organizzata, sia nei movimenti giovanili dei partiti che nei gruppi della nuova sinistra.
    In Italia, i giovani dai 15 ai 25 anni che fanno politica sono all'incirca 450.000 su 8,5 – milioni di giovani. Il che equivale al 5% dei giovani, una delle percentuali più basse d'Europa. Un fenomeno però che tocca da vicino anche le altre nazioni. Un'inchiesta del settimanale parigino Le Nouvel Observateur, comparsa lo scorso ottobre, ha accertato che solo il 4% dei ragazzi intervistati ritiene appena utile militare in un partito e solo il 10% considera indispensabile avere delle convinzioni politiche.
    Per comprendere il rapporto tra giovani e partiti in questi ultimi anni in Italia bisogna ricordare quello che è successo dopo le elezioni del 20 giugno '76, le prime aperte ai diciottenni, che videro un forte aumento delle sinistre.
    Mentre nelle elezioni precedenti i voti-giovani si distribuivano, con variazioni minime, secondo le percentuali dei voti-adulti, in queste elezioni si registrò un massiccio spostamento a sinistra del voto dei giovani. Si è calcolato che abbia votato per la sinistra il 54% dell'elettorato tra i 18 e i 25 anni.
    Sull'onda di questo voto ci fu una breve ma consistente ripresa dei movimenti giovanili, soprattutto quello comunista, primo beneficiario delle elezioni, e quello democristiano che aveva potuto contare sui voti dei giovani attorno a Comunione e Liberazione. Migliaia di giovani chiesero con entusiasmo ritrovato la tessera della FGCI. Da allora da 20.000 a 30.000 di questi giovani hanno abbandonato, non avendo trovato quel che cercavano. La più parte sono tornati nell'ombra; solo una minoranza nell'impegno fluido.
    Il calo di iscritti non coinvolge solo i giovani comunisti, scesi da 150.000 a 110/120.000 militanti nel giro di un triennio, ma anche la federazione giovanile socialista passata in pochi anni da 35.000 iscritti agli attuali 25/27.000.
    «C'è una grande caduta di tensione intellettuale nei giovani, afferma F. Adornato, direttore di La città futura, il settimanale dei giovani comunisti. Si semplifica per non far fatica. Le assemblee non bastano, ci vuole il resto. Ha ragione Fellini in Prova d'orchestra. Troppe volte ci si rifugia negli slogan. Ma questi non servono a niente se dietro non c'è una elaborazione culturale».
    D'altra parte, aggiunge Adornato, difendendo i giovani, occorre combattere le etichette alla moda, come quella di chi parla di «generazione infranta» e di «giovani sbagliati». Il ritorno al privato «nasce dagli adulti, nasce dal ricatto di quelli che fingono di scoprire ora che il privato è politico».

    I giovani della FGCI: battersi insieme per le cose concrete

    Quello che i giovani rifiutano sono gli astrattismi sociologici ed ideologici. Sentono il bisogno di battersi per le cose concrete. Su questa strada vogliono avviarsi i giovani comunisti. «Noi poniamo l'attenzione, ha dichiarato Massimto D'Alema segretario della federazione a Dimensioni nuove, su quello che si può e si deve fare. Crediamo nella capacità dei giovani di battersi per dei mutamenti reali della loro condizione che portino ad un vero mutamento di collocazione sociale: la questione giovanile spinge la società a cambiare». Accoglienza dei bisogni reali, convergenza sulle cose concrete, lotta per la riforma della scuola, allargamento della base produttiva in modo che faccia posto ai giovani, miglioramento delle condizioni di lavoro e impegno per debellare il lavoro nero, gli obiettivi che i giovani comunisti oggi fanno propri.
    Un rischio grosso, a loro parere, è che l'azione dei giovani si frantumi in mille rivoli. La proposta del loro ultimo congresso nazionale a Firenze è quella del «nuovo movimento» che raccolga, al di là dei partiti, i giovani che si riconoscono nell'aerea democratica. La proposta non trova, a parte le dichiarazioni di principio, molti consensi. Dal '77 ad oggi di acqua ne è passata molta sotto i ponti per i giovani comunisti. C'è stata di mezzo l'estendersi dell'area e della strategia della autonomia, c'è stata la cacciata dei giovani comunisti dalle assemblee universitarie, c'è stata la delusione sorta dal connubio PCI-DC a livello nazionale.
    Oggi la stessa federazione giovanile comunista a parte gli iscritti non sembra più vantare quella grossa area di simpatia e consenso giovanile di alcuni anni fa. Gli avversari, anticomunisti o soltanto diffidenti, sono aumentati. Gli stessi giovani socialisti li rimproverano di trasformarsi in «sostituti delle forze dell'ordine». La paura di una egemonia a sinistra dei giovani comunisti è esplicitamente dichiarata.

    Nuovi volti e maggior attivismo tra i giovani DC

    In ripresa invece, dopo lo scioglimento ed il periodo di commissariato voluto da Fanfani nel 1975, il movimento giovanile della DC che sembra aver beneficiato in un primo momento dell'appoggio di alcune associazioni giovanili cattoliche, soprattutto CL, ed in un secondo momento della posizione assunta durante la vicenda Moro. La linea di fermezza, riconoscono i dirigenti del movimento, sembra aver pagato bene. Il dopo Moro, segnala volti nuovi nelle sedi giovanili e, in generale, un maggior attivismo..
    L'area della simpatia attorno al movimento DC, che oggi afferma di contare su 270.000 iscritti (un calcolo troppo benevolo, secondo alcuni), si è notevolmente allargata. Sembra cadere in particolare il muro della diffidenza e della ostilità che per anni avevano reso ardui i contatti con le associazioni giovanili ecclesiali. Oggi i rapporti si stanno chiarendo. Al rifiuto del collateralismo si accompagna, a detta dei giovani DC, la difesa gelosa della autonomia del movimento da qualsiasi organizzazione cattolica che tenti di imporre soluzioni più o meno integriste, che rimetterebbero in discussione la scelta di base di unità e allo stesso tempo di autonomia fra fede e politica. Si preferisce il dialogo su problemi concreti e le alleanze su obiettivi specifici, come quelli della università e della scuola secondaria.
    I dirigenti non si nascondono le difficoltà del momento politico giovanile generale. «C'è indubbiamente, osserva Mario- 'Pollini, delegato nazionale del movimento, una crisi di consenso. E dalle pieghe del dibattito riaffiora una antica diffidenza: a che cosa servono i movimenti giovanili dei partiti?». Quello che deve maggiormente preoccupare è, a suo avviso, che «un'ampia fascia tra noi è lontana dalle istituzioni del paese: alcuni hanno scelto la violenza, molti altri vivono questa crisi con distacco, con rassegnazione, come una sorta di ripiegamento su se stessi». Il rischio più grosso, egli riconosce, è che, al di là degli ormai rituali riconoscimenti sul ruolo unico dei giovani nella vita del paese, proprio questa generazione «che non vive sulle barricate, ma neppure dentro il sistema», pesi sempre di meno nelle grandi decisioni politiche.

    Una preoccupante ondata di moderatismo, secondo i giovani repubblicani

    Veniamo ai partiti minori. I giovani socialdemocratici dichiarano 25.000 iscritti, mentre la federazione giovanile liberale ne dichiara 15.000 e crede di poter vantare un consistente aumento negli ultimi tempi («In un anno abbiamo avuto un aumento di 3.000 iscritti»).
    La federazione giovanile repubblicana, la più antica fra le organizzazioni giovanili di partiti, può contare oggi su 4.500 iscritti. Un calo notevole rispetto ai 12.000 di pochi anni fa. I dirigenti spiegano che bisogna tener conto di due fatti. Il primo è la decisione di restringere la iscrizione ai veri militanti nei quadri della organizzazione. Il secondo è che, contrariamente a quanto avviene ad esempio in casa liberale dove il giovane che chiede di iscriversi al partito viene automaticamente iscritto alla federazione giovanile, viene richiesto un tesseramento specifico per far parte dei giovani repubblicani.
    Rimane anche per i repubblicani il fatto del disimpegno e va spiegato. Secondo loro siamo di fronte ad una ondata di moderatismo che deve preoccupare. Le cause, osserva il ventiduenne segretario Ugo Magri, possono essere ricondotte a quattro. La prima è la crisi più generale della società di cui i giovani pagano il prezzo più alto in termini di disorientamento e di disoccupazione. L'età in cui un giovane trova lavoro in Italia è la più alta fra tutti i paesi d'Europa: 26 anni.
    La seconda causa è di tipo politico. Il fronte dell'emergenza ha fatto scomparire la figura del partito di opposizione tradizionale. «I partiti politici, osserva Magri, vengono oggi accomunati in un'unica valutazione negativa e considerati indistintamente complici del sistema di potere inguaribilmente corrotto e corruttibile».
    Il guaio si è, ed è la terza causa della disaffezione politica, che i partiti di fronte a questa disaffezione dei giovani si stanno ancor'di più chiudendo a riccio, incrementando il distacco e la estraneità reciproca. Infine non sono neppure da nascondere le colpe delle stesse organizzazioni giovanili che, troppo spesso, non hanno fatto che riprodurre i giochi di potere del partito adulto, limitandosi a diventare un «ufficio-giovani» del partito. A cui i partiti ricorrono per avere dei galoppini o per attingere nuove leve per la burocrazia del partito.

    Si restringe l'area politica tra la sinistra storica e la lotta armata

    Una crisi che affonda le radici in altro terreno è invece quella che attraversa oggi i movimenti giovanili alla sinistra del partito comunista, da Lotta Continua a Democrazia Proletaria.
    Le difficoltà concrete di dare risposte ai problemi politici in un momento di crisi come quello attuale, la consapevolezza ormai acquisita dai più che la trasformazione sociale non può avvenire come rottura traumatica e immediata degli equilibri attuali, hanno provocato una forte emorragia da questi gruppi e un momento di intensa riflessione riducendone lo spazio di manovra.
    La radicalizzazione della lotta armata, osserva il sociologo Sabino Acquaviva, ha ridotto sempre più lo spazio per le forze intermedie fra l'arco della sinistra storica e l'area della lotta. Chi sta in mezzo sembra destinato in questi mesi ad essere assorbito da una parte o dall'altra oppure ad essere stritolato. Tra le fila dell'estrema sinistra, ci si interroga sempre più non tanto sulle strategie ma sui moventi ed emerge una diffusa crisi degli scopi. Mentre perdono fascino alcuni miti, come quello cinese e vietnamita, aumentano le divisioni interne e i contrasti che isolano i vecchi leader e non ne segnalano di nuovi. E questo proprio nel momento in cui l'incalzare della crisi li- chiederebbe una maggior concretezza operativa. .. Bisogna però, dopo quanto detto, registrare anche un fenomeno nuovo in questi anni e forse uno dei punti chiave per comprendere l'evoluzione del mondo giovanile: l'estendersi di vasti processi culturali e aggregativi «dal basso». Sono processi che propongono un nuovo protagonismo giovanile e mantengono viva l'area del dissenso, anche se finora non sono riusciti a darsi una chiara espressione politica. Sono movimenti, primi fra tutti quello femminista e radicale, che stanno modificando i moventi, gli obiettivi e le strategie politiche del mondo giovanile. In effetti riescono a concentrare i giovani su aspetti specifici della vita sociale e dimostrano una discreta capacità di mobilitazione. Il mutamento imposto dal femminismo e dai radicali non è di poco conto e fa scuola: vi sono le leghe e le lotte per i diritti civili, i comitati ecologici e antinucleari, numerose e quanto mai varie esperienza di animazione culturale sul territorio, il proliferare delle radio libere (che occupano circa 35.000 giovani), nuove forme di partecipazione nella scuola.
    Infine, come dato pure caratterizzante questi anni, il crescere di un estremismo che si colloca al di fuori del quadro istituzionale dell'agire politico. Il terrorismo moltiplica le sigle e, ben più tragicamente, le sue azioni disperate.
    A fianco delle sinistre si estende anche l'area molto composita e difficilmente classificabile, ma discretamente aggregante, dell'autonomia. Il partito dell'autonomia nasce attorno al '73 ed esplode tra il '75 ed il '76 nel movimento delle autoriduzioni, l'occupazione delle case, la scelta dell'antifascismo «militante». Nel '77 una frangia estrema dell'autonomia dà luogo alla breve stagione della P 38.
    Nettamente distinta dall'area «armata», cresce in misura notevole anche quella area giovanile che pure si riconosce nell'autonomia, sensibile ai temi della vita quotidiana, al valore di esempio e di modello della musica, all'uso della droga.

    I ragazzi di partito, dei «sopravvissuti»?

    La situazione politica giovanile, come hanno messo in luce le stesse dichiarazioni dei dirigenti delle federazioni giovanili dei partiti, non è facile da interpretare. Presenta dei grossi punti d'ombra, ma anche sembra lasciar intravvedere delle nuove potenzialità.
    «Sembrano idealmente contrapposti, commenta Stefano Reggiani sul Corriere della Sera, due atteggiamenti culturali: da una parte un,volontarismo riformista che esce dalla strategia dei partiti adulti, del PCI soprattutto, dall'altra le "delusioni e le disperazioni" che qualcuno indica come neo-esistenzialismo. Non propriamente una filosofia ma una condizione diffusa che può portare alla chiusura davanti alla politica corrente, all'indifferenza, ma anche alle solidarietà improvvise, al bisogno di rassicurazione e di giustizia, alla voglia di un'organizzazione più trascinante e meno cauta, più violenta, meno " realistica"».
    Difficile dire, a questo punto, se i «ragazzi di partito», che pure sono centinaia di migliaia, sono dei sopravvissuti o gli anticipatori di un ritorno in massa alla organizzazione, all'impegno politico e di partito.
    Perché ciò avvenga non bastano le buone dichiarazioni di principio. «Occorre fare politica fino in fondo, osserva il DC Marco Pollini, essere dentro il sistema delle responsabilità e del potere. Per ora siamo solo alla metà del guado». Ciò che in fondo manca, secondo Baget Bozzo, che crede di intravvedere «un fenomeno di regresso dei giovani nell'utero materno della società generale», è una spinta di base,che invece esisteva negli anni sessanta. «Il moderatismo lamentoso della società contemporanea, un poco ipocrita, rende impossibile il gesto rivoluzionario». Ai giovani vengono così a mancare dei modelli e delle speranze. Diventa difficile pensare a delle alternative. «Un risveglio di impegno politico dei giovani è ad ogni modo possibile. Il presupposto è che la società che i giovani hanno di fronte si definisca. Per provocare reazioni occorre che una società si esprima, che dimostri fiducia in se stessa. E ora non accade».


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