Carlo Grossini
(NPG 1979-02-55)
Quando ti trovi in un gruppo, stretto gomito a gomito con trenta, quaranta giovani, non raramente ti capita di sentire interventi pieni di tensione al futuro, richiami ad ipotetiche comunità familiari pensate e teorizzate come evoluzione ottimale della esperienza in atto.
L'animatore tuttavia, senza spegnere l'utopia, raccoglie presto altre provocazioni che richiamano alla realtà feriale della vita quotidiana, che mettono all'ordine del giorno dell'incontro il recupero delle motivazioni in quartiere o semplicemente la revisione di vita, personale e di gruppo, sempre rimandata e mai conclusa.
IN CHE SENSO SBOCCO?
Al di là degli interventi appaiono due tappe di uno stesso itinerario o se si vuole due facce dello stesso problema: quale sbocco per un gruppo?
Cronologicamente l'interrogativo si pone, con un primo significato, all'inizio del cammino: affiora appena raggiunto un sufficiente senso di appartenenza e diventa insistente quando con l'appartenenza al gruppo è maturata anche una certa identità ecclesiale.
Ci si domanda cioè come il gruppo deve aprirsi, come può partecipare alla vita di quartiere, della scuola, come può mettere a servizio del mondo e della chiesa il ricchissimo potenziale di desideri, di capacità, di volontà che matura incontro dopo incontro.
Con il passare degli anni (o più spesso forse soltanto dei mesi, perché nei gruppi i problemi si acutizzano in tempi brevi) l'accresciuta capacità di leggere la situazione, la maggiore sensibilità e apertura alle esigenze del territorio fanno di questi interrogativi l'argomento più ricorrente in tutti gli incontri.
Il problema diventa un materiale quasi esplosivo, che il gruppo tiene in obbligato deposito, nonostante la crescente percezione che basterebbe una piccola scintilla per far saltare tutto. E presto non mancherà chi accenderà la miccia.
A volte è il leader incontrato a scuola o il gruppo politico che al momento va per la maggiore, altre volte è un responsabile della comunità ecclesiale adulta.
Ignari della sofferenza e della problematica dibattuta e persino esasperata all'interno del gruppo, accendono la scintilla con le solite accuse di ghetto, di gruppo chiuso...
Si è così già alla seconda tappa dell'itinerario, al significato più profondo dell'interrogativo che già tormenta il gruppo da tempo: qual è il senso vero di questa nostra esperienza, quale sarà il suo futuro, c'è un futuro per il nostro gruppo?
Al di là dell'interazione, più o meno accelerante, di agenti esterni, questo è il cammino comune a tutti i gruppi. Con molta o poca teorizzazione, con il consumo di ore e ore di discussioni e di fiumi di parole, o in un silenzio artificiale rotto soltanto da qualche sofferto contrasto, ogni gruppo deve tirare le sue conclusioni.
QUALE RISPOSTA?
Sì perché non ci sono leggi universalmente valide e immediatamente applicabili. Ogni gruppo è storia a sé, è originale e irrepetibile come la persona. Per questo le conclusioni sono sempre diverse.
Tuttavia è possibile individuare alcuni indirizzi, alcuni modelli che sembrano una costante di un passato ancora prossimo, ma già da tempo in via di superamento, se non del tutto scomparso, o di un presente ancora troppo sofferto.
Le comunità alternative
Si tratta delle comunità eredi dei gruppi spontanei, che avevano progressivamente maturato una forte coscienza della necessità di incarnare la propria fede nell'impegno sociale e politico.
Caratteristiche costanti di queste comunità erano (o sono) l'attenzione privilegiata ai poveri e agli emarginati, la denuncia della ideologizzazione della chiesa, la lotta contro l'ideologia della neutralità della chiesa come istituzione super partes e conseguentemente la contestazione sistematica della gerarchia e l'applicazione del metodo della democrazia di base alla comunità ecclesiale. Si esprimevano (o si esprimono) tra l'altro nel gruppo del «doposcuola alternativo» di quartiere, del controscuola, della scuola popolare, della scuola di base, della controinformazione. Gruppi formati da giovani disposti a pagare di persona, a volte capaci di viva testimonianza attraverso la povertà personale, orientati alla comunione dei beni. Gente che aveva tensione alla contemplazione, che pregava, che voleva leggere la Bibbia, ma ricercava una lettura ideologica o quanto meno correva il rischio di interpretare la Parola attraverso categorie culturali e politiche. Di fatto si trovavano presto isolati dalla chiesa locale e finivano per arroccarsi e considerarsi l'unica interpretazione-attuazione valida del Vangelo.
Il gruppo di riferimento e la diaspora
Al di là delle definizioni teoriche sono state tentate diversissime sperimentazioni. Il gruppo si caratterizzava (o si caratterizza) per la scelta di alcuni strumenti particolarmente significativi: la preghiera e il sacramento, la catechesi, la revisione di vita. Erano i momenti in cui si faceva riferimento al gruppo.
L'intenzione era di spingere tutti a vivere una vita impegnata nel quotidiano, per testimoniare che l'alternativa è possibile. L'articolazione della esperienza più comune era quella del gruppo ecclesiale che, nella fase adolescenziale, si suddivideva in microgruppi operativi e, più avanti nel tempo della maturità, si trasformava in vero gruppo di riferimento che spingeva tutti i suoi componenti alla diaspora, cioè ad impegnarsi personalmente nel sociale e politico.
A volte la scelta dei microgruppi era fatta quindi più per una attenzione educativa, per una scelta pedagogica esigita dalla giovane età dei ragazzi, che per una scelta metodologica inerente alla natura del far chiesa. L'intenzione era di costruire non una zona verde, non un ghetto dove ci si trovava bene, ma un gruppo dove si era uniti in nome della fraternità, più che dell'amicizia.
Si insisteva sul fatto che in Cristo si è tutti fratelli al di là della simpatia o antipatia, al di là delle diversità culturali o psicologiche. Si voleva insomma una unità spirituale non una unità politica o culturale.
Il gruppo intraecclesiale
C'è un indirizzo (o forse più che un indirizzo un modello, perché di fatto esistente, ma non teorizzato da nessuno) più recente che si caratterizza come gruppo intraecclesiale.
Dopo l'esperienza, diversamente vissuta, del gruppo adolescenziale, ci si ritrova nell'età della maturità all'interno di un gruppo di servizio ecclesiale: può essere il gruppo dei catechisti, come per altri più maturi il gruppo della catechesi prematrimoniale e della catechesi prebattesimale. La tipologia è anche qui diversificata.
È diffusa l'esperienza del gruppo di servizio che non crea rapporti interpersonali profondi, ma, prevalentemente, rapporti funzionali al servizio. Eppure frequentemente si trova l'altra impostazione che tende a fare, del gruppo catechisti un gruppo con forti rapporti interpersonali, che si fa carico anche di alimentare la fede persona, le, che di fatto fa del gruppo della catechesi pre-battesimale o pre-matrimoniale un gruppo di vita che prega, riflette e fa revisione insieme.
In pratica il gruppo catechisti diventa il gruppo giovanile della Parrocchia e quindi la principale iniziativa di Pastorale Giovanile della comunità ecclesiale; il gruppo di catechesi, prebattesimale o prematrimoniale finisce per coincidere con il gruppo senior della Parrocchia. In questo caso non ci sono più conflitti, la Parrocchia ha così risolto anche grossi e ciclici problemi di ristrutturazione e dí crisi della Pastorale Giovanile.
Le comunità totalizzanti
È quasi inutile sottolineare che esiste ed è quanto mai accattivante un'altra linea ben definita, quella di coloro che si impegnano nel servizio sia alle esigenze della chiesa, sia ai bisogni del mondo, indistintamente in quanto gruppo di chiesa.
È facile intuire che per un verso questi gruppi ripropongono lo stile delle comunità totalizzanti, ma da altri punti di vista si differenziano radicalmente, perché la loro azione, almeno intenzionalmente, non vuole essere alternativa, ma fedele all'istituzione; la loro impostazione non nasce all'interno del gruppo, ma è ripetizione di una progettazione più vasta che raccoglie più gruppi in movimento.
La descrizione e la catalogazione evidentemente non ha nessuna pretesa di completezza. Vuole essere solo funzionale ad evidenziare dei problemi su cui la riflessione deve continuare per superare i modelli insoddisfacenti e per marcare i lineamenti di nuovi modelli che già stanno emergendo dalla rottura dei confini delle precedenti esperienze.
È evidente infatti che nel primo modello e spesso anche nel secondo l'analisi della realtà e la progettazione della prassi fatta con l'assunzione di strumenti laici, e all'interno di sistemi culturali profani, ha svuotato e messo in crisi prima il senso di appartenenza alla chiesa (1° tipo) e al gruppo ecclesiale (2° tipo) e poi, spesso, (in tutte e due i tipi) la stessa scelta di fede_ La scelta culturale e ideologica è diventata prevalente categoria di verifica dell'autenticità della fede, e ha ridotto progressivamente tutta la fede all'impegno storico-sociologico-politico.
Nel terzo e quarto modello invece non si affronta la conflittualità culturale e ideologica perché inseriti in un ambito di servizio specificamente ecclesiale o si fa a priori una scelta risolutiva del conflitto.
Questo è forse già sufficiente per concludere che il problema dello sbocco per sé non coinvolge soltanto problemi metodologici, ma più propriamente si riferisce al livello teologico e culturale perché investe il rapporto fede e politica, chiesa e mondo. Per questo le stesse difficoltà possono riguardare e di fatto hanno toccato i piccoli gruppi, ma anche le grandi associazioni a carattere nazionale, anche se la maggiore o minore istituzionalizzazione è fattore non trascurabile nel sostenere una identità di fede in crisi.
Dalla soluzione di queste difficoltà dipende in gran parte la sopravvivenza del gruppo stesso e la sua efficacia operativa.
PROSPETTIVA «PICCOLA COMUNITÀ»
C'è dunque qualche pista nuova, qualche indicazione per il futuro?
Il discorso è di capitale interesse per molta parte della Pastorale Giovanile.
Riguarda soprattutto quei gruppi, che eredi della fase spontaneista, ormai sepolta, si sono più o meno istituzionalizzati all'interno della chiesa locale, ma difettano di un collegamento di più ampio respiro.
Cogliendo da molte esperienze, cioè dal profetismo stesso della base, sembra intravvedersi una prospettiva promettente, anche se non priva di difficoltà, che si può dire di «piccola comunità».
Il nome evoca il noto documento dei Vescovi Piemontesi sulle piccole comunità. La proposta che stiamo per descrivere assume correttamente almeno parte delle linee là indicate?
Soltanto una prolungata attuazione potrà dirlo, ma esperienze come quelle della «Comunità Giovanile Speranza» sembrano lasciarlo intendere.
Alla Speranza molti sono gli aspetti interessanti: la tensione a diventare proposta, a rivolgersi a tutti, ad inserirsi nella viva problematica della vita e del quartiere. Da un punto di vista strutturale e metodologico è fondamentale l'articolazione in comunità e sottogruppi di lavoro. Se qualche perplessità rimane, riguarda, come diremo più avanti, il collegamento e le distinzioni tra i due momenti.
La «piccola comunità» si caratterizza per la sottolineatura di alcuni valori, per l'articolazione in due tempi, ecclesiale e di servizio, per il particolare nesso tra l'uno e l'altro.
Anzitutto i valori, tanto rispondenti nell'attuale momento storico alle esigenze dei giovani e della chiesa, da far parlare spesso, a proposito della rinascita di questi gruppi, come di un «segno dei tempi».
Autenticità dei rapporti
La società anonima, la crisi dei rapporti è stata una delle denunce più sofferte anche dalla contestazione. Ma negli anni caldi del post-sessantotto l'utopia della ricerca di una nuova solidarietà a livello politico aveva posto l'accento più sugli aspetti strutturali che su quelli personali.
Oggi è in atto una ripresa particolarmente accentuata di questi ultimi aspetti. Difficilmente sarebbe capita una proposta che non tenesse conto delle esigenze del personale.
Un gruppo che si evolve nel senso di «piccola comunità», che pone cioè particolare attenzione alla autenticità dei rapporti, risponde pienamente alle attese dei giovani e della Parola e diventa un servizio alla società, alla chiesa.
Contemplazione
È un valore essenziale per ogni vera esperienza ecclesiale, ma per il passaggio e nel passaggio da gruppo a «piccola comunità» deve diventare nota caratteristica, linea di spiritualità.
È forse proprio la stessa attenzione al quotidiano, ai poveri, la tensione ad incarnarsi che esige un rapporto profondo con la Parola, momenti prolungati di preghiera personale e di celebrazione comunitaria. Stare dentro di per sé, forse, non facilita il portare la vita nella preghiera e la preghiera nella vita, ma almeno lo richiede e lo rende possibile.
Azione
I giovani spesso misurano la bontà di una proposta in base all'esperienza fatta. Devono agire per capire.
Dice Giovanni Paolo II: «L'uomo che opera produce se stesso, esprime se stesso, forma se stesso, in qualche modo crea se stesso. L'uomo si realizza e arriva ad una certa completezza anche attraverso il suo operare».
Lavorare, impegnarsi è anche collaborare con Dio per fare, a cominciare da se stesso, l'uomo sempre più uomo.
L'azione è infatti frutto di contemplazione e di carità. È attenzione ai poveri, agli emarginati. E risposta alle esigenze del territorio, impegno per uno sport rinnovato, non competitivo, per un doposcuola attento a quel bambino concreto, più che al sapere.
È corresponsabilità nella tua chiesa ad esempio nell'impegno della catechesi, è partecipazione nella tua scuola e impegno politico. È molte altre cose che globalmente prese fanno del giovane un uomo progressivamente incarnato, pienamente inserito e capace di trasformazioni in positivo. Azione per la «piccola comunità» è assunzione della logica nuova nel Cristo che ha scelto la croce, il sacrificio, il servizio. È coscienza che la Chiesa si gioca nel mondo e per il mondo.
La «piccola comunità» dunque rimane anzitutto il luogo della verifica sulla Parola. Ma nello stesso tempo abilita a cogliere le possibilità concrete, alimenta una sensibilità capace di inventare nuove articolazioni per il servizio.
Istituzione
La storia recente di molti gruppi post-sessantotteschi insegna che non è possibile una esperienza duratura e capace di incidere nella realtà senza anche un minimo di istituzionalizzazione. Non si andrebbe oltre l'esperienza di un piccolo gruppo di persone, non si potrebbe essere e restare che una iniziativa, un momento educativo nella formazione delle persone.
Ma più esperienze costruite intorno agli stessi valori e con strumenti simili, qualora cercassero un loro posto nella parrocchia e nella diocesi e fossero riconosciute con le loro caratteristiche originali, potrebbero diventare fenomeno stimolante nei confronti delle stesse strutture tradizionali della chiesa.
Lo stesso documento dei Vescovi Piemontesi prevede e sollecita, come essenziale, l'inserimento delle «piccole comunità» nella comunità istituzionale. La ricerca della necessaria istituzionalizzazione non deve nascondere la volontà di ricreare una chiesa che conta sul piano delle strutture e quindi potente in un mondo in cui domina la logica del potere.
Al contrario deve diventare impegno di comunione, attenzione ai valori e desiderio di far circolare i valori stando dentro alla chiesa così come si vuole stare dentro nel mondo.
Qui il discorso si fa più complesso.
Per cultura intendiamo anzitutto genericamente un insieme di contenuti elaborati lungo il cammino, senza il quale è impensabile qualsiasi «sbocco», anzi non è neppure ipotizzabile la continuazione dell'esperienza al di là della soglia dell'adolescenza, dove la vita del gruppo in sé, è contenuto prevalente e sufficiente.
Ma non cultura come bagaglio nozionistico sganciato dalla persona, dal gruppo e dalla vita: cultura come modo di esistenza dell'uomo nel mondo, come parte della persona e del gruppo, connaturata con l'una e l'altro.
Già si intuisce, dalla esperienza in atto, una grande ricchezza di valori che al di là di quelli più specifici già richiamati, potrebbero essere rispolverati da una scelta di gruppo capace di trasformare la vita in cultura e la cultura in vita:
1. Dilatazione del concetto di politica fino ai confini del sociale.
Nel sociale del resto si gioca l'attenzione ai più poveri. Difficilmente i politici, i partiti protesi al potere «si interessano dei vinti della vita, che proprio per la loro debolezza non premiano in voti e in influenza politica».
2. Dilatazione del concetto di partecipazione fino a promuovere autogestione.
Perché nasca una vera democrazia, i problemi devono essere assunti a livello locale, nella loro dimensione concreta e per quanto è possibile devono essere risolti in prima persona.
3. Dilatazione dell'esperienza stessa, dal gruppo al quartiere, dalla cultura di gruppo alla cultura popolare.
Si intravvede il servizio che il gruppo può fare alla società. Lo sbocco naturale di una esperienza ecclesiale di questo tipo, che si sviluppa in un preciso ambito locale, è di ritornare a confondersi con la gente di quello stesso territorio.
Questo è essere chiesa nel mondo, a servizio del mondo. La logica è quella del seme che deve seppellirsi, marcire per rinascere. Nella pratica della vita si è più volte sperimentato che questa missione non può essere demandata al singolo soltanto. Ordinariamente, se non c'è comunicazione di linfa vitale da parte del gruppo, il seme muore e non rinasce niente.
I PROBLEMI APERTI
Le ragioni per spingere in avanti
La strada sembra segnata. Si individuano con crescente chiarezza alcuni terminali oltre i quali non si può andare. Insieme rimangono oscurità, difficoltà non lievi da appianare. Ma molti sono gli stimoli che spingono in avanti.
1. I valori conciliari.
La comunione, il servizio all'uomo come il dialogo, la collaborazione con gli uomini di buona volontà, l'autonomia del profano, la laicità della politica sono come altrettanti punti luce che illuminano lo sbocco dei gruppi.
2. La crescente sensibilità alle esigenze del territorio.
La cerchia degli emarginati è in preoccupante aumento. L'isolamento, la solitudine, tutta una vita urbanizzata in forma caotica sembrano richiedere «piccoli gruppi con rapporti reciproci più autentici e costruttivi».
3. La crisi dei gruppi spontanei e di riferimento da una parte e la contemporanea crisi dei partiti dall'altra.
I primi non riescono a costruire una identità stabile e duratura; i secondi faticano a costruire legami di base, un dialogo popolare e slittano, in una logica di spartizione e cogestione del potere, verso compromessi di vertice.
In azione: ma come?
Guardando alla esperienza della Speranza, come a molti altri gruppi, una prima risposta risulta chiara: dividendosi in sottogruppi o microgruppi operativi.
Lo schema torna perfettamente, ma la vita vissuta svela alcuni importanti nodi non ancora risolti.
Sottogruppi che si collocano all'interno del gruppo e di fatto così collegati da non creare una doppia appartenenza e una diversa dinamica di acculturazione, come sembra apparire dall'esperienza della Speranza?
Oppure gruppi operativi laici, capaci di una propria elaborazione culturale e progettazione operativa?
Inoltre gruppi operativi laici promossi e formati da cristiani, anche se aperti a non
credenti, o inserimento in gruppi preesistenti di prevalente composizione culturale non cristiana?
È impossibile dare una risposta a priori. Quasi sempre è la situazione, è la vita che determina queste scelte.
La prima sembra ancora una impostazione di valore prevalentemente pedagogico e come tale preziosa per il valore educativo, oltre che per i servizi che promuove, ma insufficiente a garantire uno sbocco corretto ed una continuità della esperienza al di là del momento educativo.
D'altra parte le altre, senza l'introduzione di opportuni, ma non facilmente identificabili correttivi, sembrano non sfuggire alle difficoltà del passato. E, già l'abbiamo ricordato, la diaspora, al di là della discussa validità teorica, nella pratica, soprattutto nel momento giovanile, non paga.
Cultura: in che senso?
Sembra così di muoversi tra un pericolo e l'altro senza poterne uscire. Il rischio dell'intraecclesialità, come dell'integrismo e del secolarismo spinge a ricercare più a fondo a livello culturale.
Un gruppo fa cultura con la vita. Ma in pratica come?
Chi fa cultura: la «piccola comunità» o il gruppo operativo o tutte due?
È necessario chiarire, distinguere.
1. Cultura cattolica o religiosa in senso stretto.
È fuori discussione da sempre che il gruppo ecclesiale deve fare cultura in questo senso. E per essere più precisi intendiamo dire:
– Lettura della Parola
– Riflessione teologica sulla Rivelazione
– Catechesi per un ulteriore approfondimento della Parola in riferimento alla vita
– Liturgia e celebrazione della Parola e della vita.
2. Cultura cristianamente ispirata.
Anche questa non è più messa in forse. Nell'esperienza di «piccola comunità» deve significare almeno questo:
– Revisione di vita per giudicare le nostre scelte e cogliere le provocazioni di Dio.
– Conoscenza e verifica delle analisi (anche se l'elaborazione non è propria della «piccola comunità») per una lettura sapienzale della realtà che permetta l'esplicitazione o il recupero del progetto di uomo e di comunità della rivelazione cristiana.
– Esame delle proposte culturali degli uomini non per elaborare un progetto culturale autonomo, ma per criticare e denunziare in nome di alcuni valori irrinunciabili ogni pretesa di assolutizzazione.
– Sostenere e moderare il cammino comunitario elaborando su singole e fondamentali questioni, giudizi del tutto fallibili e contingenti, ma utili per coniugare fede e vita.
3. Cultura di cristiani.
È una realtà. Si può parlare di una cultura di cristiani in tinti i campi, ma il discorso non è spesso affrontato. Si tratta di una elaborazione attenta non soltanto al fine (come è di ogni cultura cristianamente ispirata) ma anche ai mezzi, agli strumenti operativi, e persino alle tecniche e alle strategie richieste dall'ambiente.
Si tratta cioè di progetti studiati da alcuni cristiani, sulle stesse domande e con strumenti di indagine e metodi analoghi a quelli degli altri uomini.
Esperienze di questo tipo, accessibili anche dalla concreta condizione giovanile sono già molto diffuse: pensiamo ad alcuni Movimenti di aiuto al Terzo Mondo, ad altri Organismi per la promozione del servizio civile, a determinate impostazioni di Consultori familiari, a molti gruppi dél volontariato, ai gruppi politici operanti nella scuola o nel settore sportivo.
Alle spalle c'è tutta una tradizione cristiana che può diventare, adesso che il riferimento alla storia è ritornato di estrema attualità, un valido sostegno all'impegno nel presente.
Due pericoli sono sempre richiamati trattando di questa materia: pericolo per il pluralismo, pericolo di cadere nell'integralismo.
Pluralismo significa non indifferenza della fede alla politica, ma soltanto che coloro che hanno fatto una stessa scelta di fede possono riferirsi a più di un progetto politico.
La fede può ispirare diversi interventi nel sociale e nel politico. È fuori discussione: la scelta dei mezzi è legata alla rispondenza alla situazione, non può mai essere univoca. L'unità, se mai, è possibile e necessaria nel fine, non nei mezzi.
Integralismo è pretendere di imporre una scelta politica per fede, e far coincidere fede con ideologia, salvezza con un progetto politico, Regno di Dio con Chiesa. D'altra parte non è negazione del pluralismo, ma anzi contributo in positivo alla pluralità delle ricerche in atto aggiungere, senza pretesa di assolutizzazione, progetto a progetto.
Non è neppure integralismo elaborare un progetto, tra cristiani, in ambito non ecclesiale, con la chiara coscienza che non deriva dalla fede e che altri possono farne dei nuovi e dei migliori.
Una spia di questa retta coscienza è la tensione alla collaborazione, al dialogo, al confronto non per un compromesso di potere ma per il mutuo arricchimento.
Al contrario chi lavora in proprio, chi pensa di avere l'esclusiva della interpretazione e della attualizzazione della fede, chi procede per contrapposizioni, lascia trasparire, al di là delle formule e delle parole, qualcosa che deriva da una matrice integrista.
L'ipotesi «piccola comunità» può avere dunque sbocchi diversi, secondo le esigenze e le possibilità concrete dell'ambiente dove l'esperienza nasce, ma il modo, il comune denominatore sarà la capacità di far cultura ispirata alla fede in modo non integrista.
Rispetto al tradizionale gruppo di riferimento due novità su cui fare affidamento potrebbero essere, anzitutto e certamente, un maggior spessore culturale delle «piccole comunità»; in secondo luogo, forse, un maggior spazio dato alla progettazione da parte di gruppi di cristiani aperti o di gruppi misti che, operino alla ricerca della massima collaborazione, all'interno della comune istituzione civile, senza coinvolgere la comunità ecclesiale, ma anche senza trascurare il riferimento stimolante alla «cultura» elaborata nella «piccola comunità» e nella Chiesa.
Ma il futuro è ancora da inventare. L'importante è non ritornare ad una chiesa ideologica, chiusa in se stessa e contrapposta alla fine non solo al male, ma anche al bene che, consciamente o inconsciamente, tutti gli uomini che camminano per la strada di Dio stanno promuovendo.
Ambito politico: trascurato?
Già l'esemplificazione desunta dal sociale insospettisce. Ma soprattutto preoccupa il disinteresse per l'ambito partitico. possibile «non fare i conti con i partiti, a cui in definitiva è demandata la gestione delle grandi riforme economiche e politiche, senza le quali anche la democrazia dal basso è irrisoria?».
Rifugiarsi nel sociale potrebbe essere un alibi. Disinteressarsi di chi detiene il potere potrebbe diventare qualunquismo. È una obiezione vera. Ma del resto, non solo molte sono le mansioni, ma anche molti i servizi richiesti nella società.
Inoltre considerando soprattutto il contesto di partenza delle «piccole comunità» non si può trascurare la forte esigenza educativa, a cui bene e meglio risponde il contesto sociale e culturale.
Infine vale ed apre prospettive durature, oltre le barriere di età, il fatto riconosciuto, che questi gruppi «fanno politica non nel senso debole della parola, che riguarda una sfera particolare della società, quella della amministrazione dello Stato, ma in senso forte, che riguarda il progetto di società nella sua globalità».
Tuttavia i molti semi gettati, se troveranno dei coltivatori, potranno crescere intorno ad una ipotesi che chiamiamo di «piccole comunità».
Sono esse composte, di solito, inizialmente, di giovani, ma poi, progressivamente, di adulti, ben inseriti nella comunità locale, capaci di sostenersi fraternamente nella comunità e fuori con un collegamento agile, costruito prevalentemente intorno alla Diocesi, inseriti, soprattutto nel sociale, attraverso gruppi di cristiani o gruppi misti che elaborano in proprio progetti culturali laici.
In questo modo non temono il dialogo con nessun altra forza anzi collaborano con tutti e diffondono un fascio di importanti valori che ancora a dieci anni dal Concilio non sono patrimonio comune.
Per questi valori, con ottimismo e speranza, più che per la strutturazione e la linea sempre in cambiamento, vale la pena di impegnarsi.
CONCLUSIONE
Esperienze come quelle della Comunità della Speranza aprono una pista. Finora, purtroppo, spesso nascono, prosperano per una stagione e poi muoiono.