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    Il «sesto»

    Visioni laiche dei comandamenti /1

    Eugenio Borgna

    Dick

    Cosa può dire uno psichiatra su questo tema così complesso, così impalpabile, così controverso, così difficile da cogliere – anche solo da intuire –: insomma, cosa può dire su un comandamento (il sesto) solcato dall'indicibilità piuttosto che dalla dicibilità? Cosa può dire uno psichiatra dopo le cose che ha detto Umberto Galimberti – che sa cogliere con uno sguardo filosofico radente e tagliente anche gli aspetti propriamente psicologici, nonché quelli psicopatologici della questione in gioco?
    Se mi sarà possibile, vorrei servirmi di alcune citazioni, che rendano meno monologico il mio discorso, e più dialogico: non lontano da quello articolato da Umberto Galimberti. Chi si occupa di psichiatria, rischia di svolgere discorsi monologici; e questi spesso si inaridiscono e si spengono. In ogni caso vorrei chiedermi quali siano gli orizzonti di senso cui può arrivare una vita segnata dall'impurità. E quali siano invece le metamorfosi degli orizzonti di senso cui può pervenire una vita a cui l'impurità sia estranea, o che addirittura rifiuti l'impurità come qualcosa di inconciliabile con gli orizzonti di intersoggettività, di apertura, di comunicazione e di alterità – che non è mai alienità, ma è sempre ricerca disperata di qualcosa, di qualcuno, attraverso cui realizzarsi: realizzando anche la trascendenza del proprio corpo e il destino del proprio corpo. Che non è solo il corpo fisico – ma sempre anche il corpo vissuto, che si esprime nei mille modi con cui il corpo vissuto si esprime. Non solo nei gesti, cioè, non solo negli atti o nelle azioni, ma anche negli occhi, anche negli sguardi.
    Per seguire questi sentieri, che non possono essere altro che sentieri singhiozzanti, sentieri interrotti, vorrei richiamarmi a riflessioni che nascono dalla citazione di alcuni testi. A riflessioni che, come stelle cadenti, nascano all'interno della nostra memoria e anche della nostra fantasia.
    Il primo riferimento è a quello che Umberto Galimberti ha scritto (cose bellissime e straordinariamente intense), intorno a quello che accade quando ci si trovi nelle diverse situazioni umane, in cui si sia aggrediti dalla impurità, intesa come categoria esistenziale, e dalle quali si cerca disperatamente di fuggire, o nelle quali a volte disperatamente si cade.
    Il secondo riferimento si colloca invece in un ambito che dovrebbe condurci da una connotazione psicologico-esistenziale (come quella di Umberto Galimberti) a quella spirituale e trascendente che è mirabilmente espressa da San Paolo nella prima Lettera ai Corinti; per poi confrontare come in uno specchio, queste due diverse forme di riflessione sul tema del comandamento che è oggetto del nostro incontro. Un comandamento così esplicito e così implicito, così nascosto e così visibile: sono stato colto da vertigine all'idea di dovere, da psichiatra clinico, parlare di queste cose.
    Vorrei infine richiamarmi alle esistenze sigillate dalla purità di cuore che Dostoevskij ha analizzato, con la genialità che gli è propria, ne I fratelli Karamazov e nell'Idiota; e in particolare nelle emblematiche figure di Alëša, e in quelle del principe Myskin e di Anastasia Filippovna. Chi ha letto l'Idiota, sa che quest'ultima figura rappresenta le mille possibili (antinomiche) cose che si potrebbero dire su questo comandamento.
    La prima citazione è tratta da un libro bellissimo e tagliente (Le cose dell'amore) di Umberto Galimberti, che coglie fino in fondo la struttura portante di ogni azione, di ogni atto, di ogni pensiero e anche di ogni immaginazione che siano divorati dalla impurità; nella misura in cui avviene in essa la sottrazione di libertà, la sottrazione di soggettività, la sottrazione di intersoggettività: che trasformano, e reificano, l'altro al quale le parole, i gesti, il corpo, la sessualità, si indirizzano. Si giunge così alla radicale negazione dell'alterità: come continua trascendenza ferita.
    Questa è una dolorosa testimonianza di cosa significhi vivere in una condizione di destituzione almeno parziale della propria libertà conseguente alla perdita della purità di cuore.
    Si tratta di liberare poi le parole dai significati, dai pregiudizi senza fine. E allora "non commettere atti impuri" ha un suono più crudele, più secco, più asciutto di quello che risuonerebbe nel riferirsi alla purità di cuore o alla impurità di cuore intese come categorie esistenziali, o più vaste, forse.
    "Troppo vasto è l'uomo – ha scritto Dostoevskij – per poterlo circoscrivere dentro le nostre categorie".
    Le parole dure, ma limpide come cristallo, di Umberto Galimberti, che fanno riemergere i rischi quotidiani di una perdita costante di significato della nostra vita sono queste: "Perverso è ogni amore che si vive senza reciprocità, quindi senza la possibilità per il corpo di trascendersi in un altro corpo. È quell'amore generato e contraddetto da quella "passione inutile" che spinge una coscienza a ritenersi assoluta, al punto da non desiderare altro che il proprio desiderio". Parole capaci di fare rinascere immagini che forse si sottraggono al fiore dell'oblio (di cui parlava Paul Celan), e capaci di farci riflettere su esperienze che fanno parte della nostra vita. Parole, radicali e profonde, tali da farci percepire davvero quello che c'è di arrischiato nei nostri modi di vivere, nei nostri sentimenti e nelle nostre emozioni.
    "Non desiderare altro che il proprio desiderio": ecco la metafora che riassume, rendendolo forse anche più umano, il comandamento sul quale riflettiamo e che conosciamo, del resto, nella versione tematizzata dal Concilio di Trento del 1566. Nel momento in cui si sostiene che il "non desiderare altro che il proprio desiderio" costituisca l'espressione più intensa e radicale, di quello che il comandamento intenda esprimere, si dice una cosa molto bella e profonda che non dovremmo mai dimenticare.
    Queste, ancora, le parole di Galimberti: "Come uno schermo assorbente, nella sua evidenza il reale estingue il desiderio e, sottraendolo al gioco duale (direi alla reciprocità, al dialogo, al colloquio, alla simmetria delle libertà), lo ricaccia nei giochi estatici, solitari, narcisistici, dove l'oggetto non è più l'altro, ma il ripiegamento del desiderio su se stesso, nel tracciato malinconico della sua delusione". Parole che si leggono, e si accolgono, nella loro palpitante significazione semantica, e anche etica, da sfidare mille lavori che su questo sesto comandamento sono stati scritti senza coglierne la dimensione antropologica e fenomenologica.
    E infine, siccome a volte occorre arrivare alle radici delle cose, senza sorvolare comunque sulle cose più dolorose, quelle di cui difficilmente si parla, quelle che è più facile sottoporre all'oblio, vorrei ricordare quello che ancora Umberto Galimberti scrive: "Il limite della masturbazione è nel modo di vivere il proprio desiderio come apertura o come chiusura all'altro"; e: "Nella masturbazione, infatti, il desiderio che non desidera l'altro è un desiderio che non diventa veicolo di trascendenza ma oggetto della propria immanenza, giocata in quel breve spazio che separa la tensione dalla soddisfazione che la estingue".
    Ancora una volta l'Alterità si dà come struttura portante dell'esistenza, come struttura portante dell'amore, come struttura portante `negata' quando questi atti avvengano; benché, certo, come dice San Paolo, non conti l'esteriorità degli atti, ma l'interiorità con cui questi vengono compiuti. Nessuno può scagliare la prima pietra, ma tutti dovremmo sondare le motivazioni e le implicazioni interiori di un'azione, le ragioni interiori a partire da cui un'azione, anche impura, viene compiuta. Da cui non l'anatema, ma semmai l'invito continuo, appassionato, senza fine, a individuare e a riconoscere fino in fondo cosa si muova realmente nell'interiorità di ciascuno di noi, e non nell'esteriorità (sulla quale è così facile emettere giudizi, sulla quale è così facile cadere nella trappola della discriminazione manichea).
    Queste cose ci dicono come il naufragare in azioni, che nascano dal dilagare della impurità, abbia sorgenti non sempre decifrabili nella loro fatale indecifrabilità e nella loro indicibílità. D'altra parte, non tutto può essere detto; ed è proprio questo spazio dell'indicibile, così dolorosamente sottolineato da Ingeborg Bachmann, a consentire anche ad uno psichiatra di dire qualcosa su esperienze di vita che sono interpretate e vissute in maniera così diversa da chiunque di noi e nelle diverse stagioni che ognuno di noi passa, oltrepassa o conclude.
    Come può accadere che l'impurità del cuore possa essere causa di comunione fallita e di comunicazione distorta, di radicale scacco esistenziale, nel deserto di ogni alterità?
    Vorrei, ora, richiamarmi ad alcune delle meravigliose parole di San Paolo nella prima Lettera ai Corinti. In San Paolo è la carità ad identificare e sigillare la purezza del cuore. Sono beati coloro che credono nella purità del proprio cuore e nella purità del cuore degli altri; e, così, non è possibile mai separare la purità di cuore dalla carità: dalla caritas che è una parola dalle molteplici significazioni umane, e cristiane, e che può essere riformulata nella definizione di amore.
    La purità di cuore, in San Paolo, è espressa con un'immagine che sembra tanto lontana dai modelli abituali con cui noi parliamo di temi come questo della purità o dell'impurità di cuore – temi che ci sembrano sfuggire, tanto sono evidenti, banali, tanto sono comuni, tanto sono oggi in rivolta continua e permanente con i temi dominanti. Non solo in psichiatria, ma anche nel mondo in cui tutti noi viviamo.
    Nell'intuizione metafisica di San Paolo cogliamo una coerenza tra quello che la purità di cuore può portare con sé e la carità intesa come riconoscimento dell'altro, come riconoscimento della libertà dell'altro, come rinuncia all'amor proprio, come rinuncia all'egoismo, alla cosificazione dell'altro.
    In qualche modo le due immagini della impurità del cuore, che ho tentato di fare rinascere dal pensiero di Umberto Galimberti e dagli abissi del pensiero di San Paolo, testimoniano di una purità di cuore non mai vissuta come una virtù solitaria e individuale, ma come una virtù immersa nella relazione, nel contesto, o husserlianamente, nella intersoggettività. Certo, come dice Romano Guardini, la purità di cuore è così assoluta e così luminosa, ma è anche così oscura, che non sempre potremmo cogliere tutte le ombre e le luci che si nascondano in modi di essere riscattati e trasfigurati dalla purità di cuore; e, come egli ancora dice, non c'è forse purità di cuore se non nell'area dello spirito: nella regione pneumatica della esistenza. In ogni caso, nella interiorità, negli abissi del nostro cuore si nascondono le radici profonde del senso delle azioni e dei gesti, dei pensieri e delle immagini, che vivono in noi. Sono impuri quegli atti ai quali è estranea la ricerca di una alterità come orizzonte intenzionale del mondo-della-vita (della Lebenswelt). E, così, non commette atti impuri solo chi è puro di cuore: solo chi ha a cuore il bene dell'altro, e solo chi non vuole inaridire il proprio cuore: imprigionandolo nel deserto dell'amore e della solitudine, del desiderio febbrile e della reificazione del corpo dell'altro. Così, è impura ogni sessualità che non abbia l'altro-da-sé come orizzonte di senso. Nel sesto comandamento si ripropone (in fondo) il problema, che è il mistero, della comunicazione e della donazione di sé come radicale e continua declinazione interpersonale: come struttura portante della vita.
    Ma adesso vorrei confrontarmi con Dostoevskij: con quello che egli scrive della purità, e della impurità di cuore, nei suoi due grandi romanzi nei quali queste tesi riemergono nella loro fiammeggiante intensità espressiva: L'idiota e I fratelli Karamazov. Nel primo egli descrive la purità di cuore, indicibile e abbagliante, del principe Myskin, immerso nella sua infinita e dolce follia, ma Dostoevskij sottolinea, e riconosce, la traccia scintillante e indelebile della purità di cuore anche in Anastasja Filippovna, la protagonista del romanzo, che agli occhi della esteriorità, e del pregiudizio, sarebbe stata portatrice di una vita assolutamente impura. Nel grande romanziere russo la interpretazione della vita non diventa mai prigioniera della condanna e dell'anatema perché solo negli abissi profondi della nostra coscienza si nascondono la stella oscura della condanna e della colpa, e la stella luminosa della redenzione.
    Ascoltiamo, ora, come Dostoevskij renda ancora più palpitante e viva, sottraendola a ogni forma di moralismo, una esperienza umana come quella espressa nella straordinaria figura di Alëša, uno dei fratelli Karamazov, nel quale i bagliori della purità di cuore risplendono con una stupefacente evidenza psicologica e umana.
    Come si manifesta in lui la purità di cuore? "Le offese non se le ricordava mai. Avveniva che un'ora dopo aver ricevuto un'offesa, rispondesse all'offensore, o per primo cominciasse a parlargli, con un'aria così fiduciosa e trasparente, come se nulla fosse mai accaduto fra loro. E non è già ch'egli avesse l'aria, intanto, d'essersene scordato per caso, o di voler perdonare l'offesa: bensì, semplicemente, non la considerava un'offesa; ed era questo che accattivava e soggiogava i ragazzi."; e ancora: "C'era solo un tratto del carattere che in tutte le classi del ginnasio, a cominciare dalla prima fino alle superiori, aveva sempre destato nei compagni una grande voglia di prenderlo in giro, non però per decisione maligna, ma semplicemente perché ci si divertivano. Questo tratto del suo carattere, era una selvaggia, furibonda pudicizia e castità".
    La immagine più sfolgorante di Alëša è quella che rinasce dalle parole del fratello, Dmitrij, che è immerso nelle acque senza fondo della impurità del cuore, della quale egli ha comunque coscienza e che nondimeno sa cogliere la grandezza umana di Alëša; così dicendo: "Io, fratello, non sono altro che un insetto di questi, e la cosa par detta su misura per me. E noialtri Karamazov siamo tutti così, e anche in te, angelo, quest'insetto vive, e dentro al sangue ti cova burrasche. Burrasche sono, perché la libidine è una burrasca, peggiore di qualsiasi burrasca! La bellezza: che tremenda e orribile cosa! Tremenda, perché impossibile a definirsi: e definirsi non si può, perché Iddio non ci ha proposto che enigmi! Lì gli opposti si toccano, lì tutte le contraddizioni vivono insieme".
    Nel solco di questo discorso di Dmitrij, così oscuro e così chiaro, così ambiguo e così limpido, vorrei citare un frammento tematico delle riflessioni che Romano Guardini ha svolto nel suo grande libro su Dostoevskij. Sottolineando la grandezza di Alëša, la sua qualità umana, nella quale egli riconosce anche la natura angelica, così scrive Romano Guardini: "A questo proposito bisogna osservare che solo a partire della fine del Medio Evo e soprattutto nell'epoca moderna, l'angelo vive nel sentimento dei più come una figura un po' sentimentale, mezzo femminile. Nell'Antico e nel Nuovo Testamento, invece, come pure nella coscienza cristiana primitiva e nei primi tempi del Medio Evo l'angelo è un essere di straordinaria e quasi tremenda natura"; e ancora: "Proprio la figura di questo essere sovrumano traspare da tutto il contegno di Alëša, più precisamente dal suo atteggiamento verso la verità. Ed è una figura d'angelo particolare, in cui la verità è atto dell'esistere, che vive la santa verità: cioè il cherubino".
    La purità di cuore di ogni persona, che ne sia sigillata, crea relazioni psicologiche umane radicalmente inattese e salvifiche: come quelle che nascevano intorno ad Alëša e che trafiggevano non solo il cuore di Dmitrij, che conosceva il vortice della sofferenza e della ingiustizia (viene accusato, incolpevole, della morte del padre e condannato a morte) ma anche il cuore ghiacciato e pietrificato del padre: divorato da una libidine senza fine: ma che non si sentiva giudicato, e tanto meno disprezzato, dagli occhi e dagli sguardi, dal modo di essere, di Alëša.
    Un'ultima (lacerante) questione: è follia, quella di Alëša, o è la espressione di una intuizione radicale assoluta del mistero della vita, dell'amore che può solo salvarla nei suoi significati, e che si rivela solo come diceva Nietzsche agli occhi della follia? Ciascuno di noi non può non consegnare a temi, come questo, una sua propria (effimera) risposta. Ciascuno di noi non può pretendere di dire come stanno le cose: anche se un filosofo potrebbe aiutarci a definire la dimensione segreta (metafisica) della follia; ma, in ogni caso, la figura del "puro folle" rimanda anche a Parsifal, a Richard Wagner, e a Thomas Mann, che nella follia intravedeva orizzonti di senso ineliminabili da ogni esperienza creativa.
    Uno psichiatra non può non di meno non riconoscere nella follia, se non la sorella sfortunata della poesia, come la definiva Clemens Brentano, questo grande poeta del romanticismo tedesco, almeno quello che la immaginazione creatrice di Nietzsche, e direi la sua esperienza di vita, ci hanno rivelato in Aurora: lasciandoci pensare che, anche se sia follia di quella di Alëša, o quella del principe Myskin, in essa si intravedono, fragili e dolorosi, gli orizzonti di senso della vita: nei suoi ideali di amore e di tolleranza, di carità e di rispetto della dignità dell'altro.
    Le inaudite parole di Friedrich Nietzsche sono queste: "Mentre oggi risulta ancora una volta immediatamente constatabile che invece di un granello di sale è dato al genio un granello drogato di follia, a tutti gli uomini di una volta era molto più vicino il pensiero che, ovunque esista follia, esiste anche un granello di genio e di saggezza – qualcosa di "divino", come ci si andava bisbigliando all'orecchio. O piuttosto, come si andava esprimendo con discreta energia. "Mercè la follia i più grandi beni sono venuti alla Grecia", diceva Platone con tutta l'antica umanità"; e infine: "Facciamo ancora un passo avanti: a tutti quegli uomini superiori che erano irresistibilmente attratti ad infrangere il giogo di una qualche eticità e a dare nuove leggi non restò nient'altro, se essi non erano realmente folli, che diventare pazzi o farsi passare per tali; e ciò vale in verità per i novatori in tutti i campi, non soltanto per chi innovava nelle istituzioni sacerdotali e politiche: perfino l'innovatore del metro poetico dovette accreditarsi per mezzo della follia".

    (FONTE: Panta, Decalogo, Bompiani 2010, pp. 335-343)


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