Il «sesto»
Visioni laiche dei comandamenti /1
Umberto Galimberti
Per riuscire a orientarmi ho telefonato a un amico che si chiama Gianfranco Ravasi, un grande biblista, e gli ho chiesto: "Scusami, cosa dice esattamente la Bibbia a proposito di questo sesto comandamento?". La sua risposta è stata immediata: "La Bibbia dice: 'non mescolare le cose'. Dopodiché ero al punto di prima, e allora mi sono fatto spiegare un po' che cosa volesse dire "non mescolare le cose".
Facciamo alcuni esempi per entrare subito in questa mescolanza. Quando la tragedia greca, con Sofocle, mette in scena la storia di Edipo che uccide il padre e sposa la madre, sta mescolando le cose. E quando Freud cattura questo mito per collocarlo in uno snodo fondamentale dell'evoluzione psichica, e lo nomina complesso di Edipo, sta dicendo che chi non supera il complesso di Edipo resta in quella condizione di mescolanza, di indifferenziato, di indifferenza, in cui il materno si contamina con il sessuale e il paterno col nemico. Perciò superare il complesso di Edipo significa uscire da questa mescolanza, da questa confusione di codici, ed entrare nello scenario differenziato. Lo scenario differenziato è lo scenario che viene inaugurato dalla ragione. E cosa fa la ragione? Essa dice: "Questo è questo e non è altro". La ragione si organizza intorno al principio di non contraddizione, il quale dice che "questo è questo e non è altro". Ma attenzione: è proprio così? La bottiglia è la bottiglia e non è altro? E se io questa bottiglia la prendo e la scaravento in prima fila? La bottiglia è una bottiglia, però diventa anche un'arma impropria. Questo sta a dire che tutte le cose sono ambivalenti e nuotano nell'indifferenziato.
Arrivare alla ragione significa fuoriuscire dall'indifferenziato, ossia dalla mescolanza di tutti i significati e dalla mescolanza di tutte le cose; che è un po' l'operazione che fanno le mamme con i loro bambini. Le mamme non lo sanno, ma ai bambini insegnano in qualche modo il principio di non contraddizione, perché quando dicono loro: "Guarda, il pennarello serve per scrivere e non per essere succhiato, e tanto meno per essere messo nell'occhio del fratellino", stanno dicendo loro che quella cosa, che è disponibile per una pluralità infinita di significati, deve essere codificata sotto un solo significato. Ebbene, questa grande operazione della differenza, del differenziare le cose, coincide con l'atto di nascita dell'umano. Gli uomini sono coloro che instaurano le differenze. Così facendo, però, non dicono la verità.
Quando dico: "La bottiglia è una bottiglia e non un'arma impropria", non sto dicendo la verità, ma sto applicando un codice. La modalità con cui io e voi codifichiamo la bottiglia costituisce un riduttore d'ansia, perché se noi, quando prendo in mano la bottiglia, non fossimo persuasi del mio conformarmi al codice della bottiglia, e non a quello dell'arma impropria, si creerebbe allarme, soprattutto in quelli che sono in prima fila. E all'interno dell'inquietudine non si può costruire alcunché, tanto meno il proprio equilibrio, tanto meno la civiltà. Gli uomini, cioè, nascono quando differenziano.
Il principio di non contraddizione può essere assunto come la grande operazione che l'umano fa per separarsi da quello scenario indifferenziato in cui tutte le cose si mescolano e che gli uomini hanno sempre ritenuto abitato da Dio o dagli dèi – scenario che siamo soliti identificare con il sacro. Il sacro è un luogo di confusione radicale, di violenza omicida, di sessualità selvaggia, di indifferenziazione, di dis-identità. Gli dei si concedono a tutte le metamorfosi. Anche il dio cristiano, per quanto purificato da tutta la mitologia, conserva, nell'attributo dell'onnipotenza, l'indeterminazione in rapporto a quello che si può e non si può fare. Quando c'è indeterminazione, quando c'è mescolanza, tutti i popoli, tutte le tribù primitive, parlano di impuro. Impuro è la mescolanza, l'incodificabilità, l'indiscernibilità, l'impossibilità di muoversi secondo codici condivisi, all'interno di uno stato di quiete, che consenta una comunicazione univoca del linguaggio.
Eraclito è stato molto chiaro a questo proposito; in un suo frammento dice: "Il dio è giorno e notte, inverno e estate, sazietà e fame, e si mescola a tutte le cose assumendo di volta in volta il loro aroma". Per capire queste cose dobbiamo uscire dalla tradizione cristiana, che ha codificato anche Dio, e andare in una dimensione precristiana, ma anche pregreca; direi addirittura primitiva. Perché quel primitivismo storico, che ci siamo lasciati alle spalle evolvendoci, costituisce ancora il sottofondo della nostra struttura psicologica. Perché sotto le distinzioni che la nostra coscienza produce ed elabora, in quella dimensione che Freud minimalisticamente chiama inconscio, c'è questa mescolanza di tutte le cose; la mescolanza che verifichiamo ogni volta che chiudiamo gli occhi e cominciamo a sognare: dove non funzionano più il principio di non contraddizione, il principio di causalità, il tempo (ad es. io comincio un sogno durante la Rivoluzione francese e arrivo a oggi in pochi minuti), lo spazio, l'identità (ad es. io sono maschio e anche femmina, io sono giovane e anche vecchio). Ecco, possiamo assumere questa mescolanza di tutte le cose come il fondo folle di ciascuno di noi; quello che i primitivi chiamavano l'impuro, l'indiscernibile, l'indifferenziato.
Sempre Eraclito ci dice: "L'uomo ritiene giusta una cosa e ingiusta l'altra" ecco qui le differenze; mentre: "Per il Dio tutto è bello, tutto è buono, tutto è giusto": questa è l'indifferenziazione. I primitivi, nei confronti dell'indifferenziato, avevano un terrore enorme e sentivano che esso sprigionava una sorta di potenza che l'uomo non poteva governare; perciò tendevano a situarlo al di là dell'umano, in una dimensione che siamo soliti chiamare sacro.
Nel sacro, Dio è arrivato con molto ritardo, perché Dio è qualcosa di già codificato, riconoscibile e qualificato. Nella tradizione cristiana Dio è padre provvidente, giudicante e misericordioso, è aggettivato secondo modalità riconoscibili. Ma era il sacro, addirittura antecedente il divino, che gli uomini temevano. D'altro canto, gli dèi sono sempre stati temuti: gli uomini hanno sempre sacrificato agli dei non tanto per ottenere delle cose, ma per tenerli lontani. Perché l'irruzione del Dio è sempre un'irruzione catastrofica. Euripide nelle Baccanti ci racconta che Dioniso entra nella città: crolla il Palazzo Reale, il sovrano diventa un poveraccio, le donne diventano Menadi e vanno sul monte Citereo ad agitare il tirso, i vecchi diventano bambini - è la confusione generalizzata. A un certo punto il coro chiede: "Ma non si può allontanare Dioniso?"; e dopo alcune battute si autorisponde: "No, nessun uomo ha il potere di allontanare il dio. Bisogna semplicemente attendere che egli se ne vada da solo, perché nessun uomo ha potere sul dio". Pensate che le prognosi psichiatriche dell'Ottocento in genere si concludevano con la sigla "D. c." , che stava per "Deo concedente": se il Dio concede di lasciare la sua mente, allora quest'uomo tornerà alla sua capacità di muoversi nel mondo secondo ragione.
Questo modellino lo ritroviamo anche in Omero: un giorno Agamennone sottrae ad Achille la sua schiava Briseide, e Achille, risentito, non va più in guerra. Ma le battaglie per gli Achei si mettono male; allora Ulisse inventa un escamotage. Certo non si può chiedere ad Agamennone, che è il capo degli Achei, di domandare perdono ad Achille, altrimenti perderebbe autorità; si organizzano quindi giochi in cui ciascuno porta dei doni, li mette nel mezzo, en meson, e Agamennone mette nel mezzo Briseide. Achille, che partecipa ai giochi, rivince la sua schiava, se la riporta a casa e a questo punto Agamennone si scusa con Achille. Ma si scusa in questa modalità: "Un'ate ("ate" in greco vuol dire "violenza") gli dèi hanno messo nella mia mente". Questa non è una scusa, perché di rincalzo Achille risponde: "Conosco quanto terribili siano le atai, le violenze che gli dei mettono nella mente degli uomini mescolando i loro pensieri".
Ecco la dimensione dell'indifferenziato, del mescolato, che non consente né la comunicazione univoca tra gli uomini (perché questi ultimi possono parlare solo se le parole hanno un unico significato) né la quiete. Perché, di fronte all'indeterminato, all'imprevedibile, all'incodificabile, c'è sempre una situazione di allerta. La ragione è quindi un codice necessario per potersi intendere e per potersi comportare. Essa nasce con l'uomo che si lascia alle spalle l'indifferenziato – ma se lo lascia solamente alle spalle. Quello infatti non sparisce, ma permane come sottofondo in ciascuno di noi, come ciò che potremmo tranquillamente chiamare la nostra follia. Non è che noi siamo ragionevoli e gli altri siano folli: tutti quanti ci produciamo nella ragione a partire da questo sottofondo folle che costituisce appunto il nostro atto di nascita.
Noi nasciamo folli, i bambini nascono folli; le mamme stanno vicino ai bambini non perché non vedano i pericoli, ma perché questi ultimi non hanno ancora acquisito i codici delle cose e le trattano nella forma della mescolanza, dell'indifferenziato e non percepiscono quello che per le mamme costituisce un pericolo; cioè non si orientano. Per cui basta spegnere la luce e il bambino va subito in angoscia. Perciò bisogna riaccenderla, in modo tale che riconosca nella sua camera i codici del proprio abitare. Noi nasciamo folli e diventiamo ragionevoli, nel senso che acquisiamo dei codici univoci di comunicazione e di ragionamento. Ma questo è un lavoro quotidiano. Per questo Jung invitava i filosofi a sostituire la parola coscienza, che in tedesco si dice Bewuβtsein, essere cosciente, con la parola Bewuβtwerden, ossia diventar cosciente. É un lavoro di ogni giorno, quello di recuperare la memoria di sé, un lavoro che facciamo ogni mattina: ogni mattina, infatti, ci svegliamo e recuperiamo la nostra identità. Ci ricordiamo – e non è assolutamente garantito che la cosa riesca tutte le mattine. Non è neanche garantito, del resto, che riesca tutte le volte che "usciamo di testa", dove ne va appunto della nostra identità.
Quante volte, dopo aver bevuto eccessivamente, ci sentiamo dire: "Non eri più tu". Dov'era finita la nostra identità? Era finita nell'indifferenziato che ci abita e ci costituisce; quello da cui nascono tutti gli scenari nuovi, creativi, innovativi e ideativi; perché questi non possono nascere dalla ragione, che è un sistema di regole. Possono invece nascere da questo sottofondo, enigmatico e buio, dove la ragione non ha facile accesso - e che, forse, come Platone ci lascia intuire nel Simposio, è raggiungibile solo attraverso Amore. Amore in quanto facoltà conoscitiva. Quest'ultimo, infatti, non è solamente una faccenda di corpi, tanto meno una faccenda idraulica. Amore è conoscenza. Le madri per Amore capiscono i figli che non parlano, i bambini piccoli che non parlano. Per Amore si capisce l'altro molto di più di quanto lo si capirebbe se quella persona ci fosse indifferente. Anche nella Bibbia abbiamo scenari in cui si tiene presente questo indifferenziato, a partire da Abramo; egli riceve da Dio il compito di uccidere il proprio figlio. I due si avviano verso la montagna e Isacco, figlio di Abramo, domanda: "Sì, ma noi qui abbiamo la legna, ci stiamo portando dietro il fuoco, ma dov'è l'agnello?". Abramo va in surplus, non risponde, finché si arriva al momento in cui alza il braccio contro di lui. Kierkegaard, che ha lavorato molto su questo episodio, ci dice che il momento religioso oltrepassa il momento etico. La religione sta al di là dell'etica. E che cos'è l'etica se non un sistema di regole per garantire una convivenza il meno conflittuale possibile? Ecco, la religione oltrepassa anche questo codice.
Le religioni sono nate per relegare, per contenere il sacro; sono nate proprio per fare quest'operazione di contenimento. E "contenere" vuol dire tenere un piede di qua e un piede di là: i sacerdoti sono coloro che si intendono di cose sacre e quindi possono condurre ("sacer dux"), cioè guidare gli uomini proprio perché hanno una certa dimestichezza con l'indifferenziato - per quanto abbiano una certa dimestichezza anche con l'ordine. Ecco la specificità del sacerdote: quella di avere questa duplice competenza. Una dimestichezza col sacro e una dimestichezza con l'ordine, una dimestichezza con il puro e una con l'impuro. Anche quando dà a Mosè le Tavole della Legge, Dio dice: "Nasconditi dietro al rogo e non alzare lo sguardo perché nessun uomo può vedermi e sopravvivere"; anzi: "Nessun uomo può vedermi in volto", dice letteralmente il testo biblico.
Ed Edmund Jabès, un poeta morto di recente, che ha scritto delle poesie favolose e ha tratto dalla Bibbia molte ispirazioni poetiche, dice: "Certo, il volto di Dio non lo si può vedere, perché tutti i volti sono il suo"; ecco, di nuovo la figura dell'indifferenziato. Il terribile di Dio è la Sua incodificabilità. Se dobbiamo far riferimento alla mitologia greca, gli dèi vivono di metamorfosi, di perdita e riacquisizione dell'identità; non stanno mai al codice dell'identità. Giove diventa toro, diventa fulmine, tempesta, diventa tutte le cose perché vive nella mescolanza. E Giobbe ha una presunzione: tenta di far ragionare Dio. Giobbe, uomo giusto, a un certo punto si ammala di lebbra; prima aveva perso tutto il bestiame e la moglie lo aveva lasciato. Gli amici vengono e gli dicono: "Forse hai commesso delle colpe, se sei ridotto in questa maniera; forse non sei proprio giusto come credi di essere"; anche gli amici lo abbandonano. E allora Giobbe interroga Dio e gli chiede: "Ma perché, se io sono un uomo giusto, mi accade questo?". Noi in genere siamo soliti intrattenerci sulla pazienza di Giobbe, che è la cosa meno interessante. Tutti quanti dobbiamo esser forniti di pazienza per regger le sorti di questa vita. La cosa più interessante è invece la risposta di Dio, che è tremenda. Quando Giobbe lamenta: "Ma scusa, io sono un uomo giusto, e tu mi riduci in queste condizioni", Dio dice: "Cosa mi stai chiedendo? Dov'eri tu quando ponevo la terra sui suoi pilastri? Dov'eri quando riempivo il cielo di volatili, e le acque del mare di pesci, quando riempivo il cielo di stelle? Sono domande da fare queste? Mi vuoi forse porre nel regime della ragione?"; diciamo noi questa volta: "mi vuoi far ragionare, appellandoti ad una sorta di giustizia, compensazione, o riconoscimento per la tua azione giusta, a me che sono Dio? Mi poni questi problemi e queste equazioni? Mi chiedi queste equivalenze?". Ecco la dimensione sacrale.
La follia ci abita, perché ciò che il mondo biblico, il mondo greco, e in generale il mondo primitivo, descrivono mitologicamente, oggi noi possiamo descriverlo patologicamente, sottraendo però la parola "patologia" ai medici e consegnandola alla sua etimologia -il riferimento è a tutto ciò che patiamo, a tutto ciò che subiamo, a tutte le nostre passioni. Quando uno dice "passione" dice qualcosa che non agisce, ma subisce; di cui egli non è l'autore. Noi subiamo la nostra interna follia, la quale si esprime in molti modi: nell'ira, che è l'anticamera dell'omicidio e nella passione amorosa, che è l'anticamera dello scenario di cui abbiamo parlato. Due sono le figure fondamentali del nostro patire. Figure che vanno a vantaggio dell'economia della specie; perché noi siamo soliti dire "io" e produrci nella nostra identità egologica, che è poi la nostra identità razionale, ma, secondo la buona lezione che ci ha dato Schopenhauer, siamo anche funzionari della specie. Anzi, forse siamo soprattutto questo, e in quanto tali subiamo i suoi (della specie) interessi. E quali sono gli interessi della specie? Anzitutto la riproduzione, per cui siamo sessuati. Ne consegue che la sessualità non è una faccenda nostra, ma della specie. Per cui patiamo la sessualità, proviamo delle passioni sessuali. E non agiamo, ma siamo presi, siamo catturati.
Socrate diceva che quando era preso dalla passione, entrava in uno stato di possessione. Uno stato di atopìa, che gli psichiatri hanno tentato di ricondurre all'epilessia. I Greci la conoscevano già dall'epoca di Ippocrate, che appunto l'aveva così nominata. Atopìa significa che, quando sei preso dalla passione, subisci una sorta di dislocazione (topos vuol dire "luogo") dal luogo della ragione, e subisci una forza altra. La seconda cosa, che è di competenza della natura e che noi subiamo, è l'aggressività.
Quando Freud definisce sessualità e aggressività pulsioni primarie, sulla traccia di Schopenhauer, individua quello che noi subiamo in quanto funzionari della specie e non in quanto soggetti. In quanto espressioni degli interessi della specie. Ma l'aggressività a cosa serve? Alla difesa della prole. Se si guarda il ciclo di sessualità e aggressività si vede che più o meno coincidono: compaiono nell'adolescenza, si affiancano nella giovinezza e decadono nella vecchiaia - sia l'una che l'altra. Quando si dice che i vecchi sono saggi, si dice semplicemente che sono diventati meno aggressivi rispetto all'età adulta e all'età giovanile. Queste componenti della natura sono state divinizzate, sono state collocate nella dimensione sacrale; ma noi non dobbiamo mai dimenticare di essere giocati dalla specie, dalla natura. Giocati per i suoi interessi. Quando diciamo "io" e continuiamo a dire "io", soprattutto nella cultura occidentale, dimentichiamo questa altra soggettività che ci abita e che subiamo; e che gli antichi hanno mitizzato nella forma del divino o del sacro - da cui l'uomo si emancipa costruendo la propria identità, la propria comunità, sempre a partire dal contenimento di questa dimensione che subiamo.
Il primo grande contenitore è la religione, la quale pone degli interdetti alla sessualità e all'aggressività "Non uccidere" o, se vogliamo, quella frase un po' più modesta "Non commettere atti impuri" - che sono figure delle nostre passioni, figure che Platone individua nel Fedro, in quel mito ín cui l'anima tiene il governo delle dimensioni che subiamo e che si chiamano appunto epithumìa... sessualità e aggressività.
Non possiamo pensare di rimuovere questi scenari che abbiamo qualificato come folli e che abbiamo codificato rendendoli accessibili alla nostra comprensione, quando li abbiamo indicati, secondo la lettura di Schopenhauer, come espressioni di una natura che trascenderebbe la nostra egoità. La cosa più interessante è il modo in cui i primitivi li vedevano: come luoghi della mescolanza, del non governo di noi stessi, della non riconoscibilità, dell'esser presi e afferrati. Non possiamo rimuovere completamente queste cose, che sono la nostra componente fondamentale; e non possiamo neppure concederci completamente. Jung, quando curava persone malmesse dal punto di vista del governo di sé, dell'esercizio della ragione, diceva: "Non tutte le porte vanno aperte". Sporgere nel sacro è infatti sempre pericoloso. D'altro canto, se non ti sporgi mai, non diventi niente; perché, nel regime della ragione, non c'è alcunché da creare, da ideare. Con un sistema di regole, infatti, non si crea e non si produce niente.
Nel Simposio, tra uomini e dèi (e noi potremmo dire tra la parte razionale e la parte folle di ciascuno di noi), Platone colloca un mediatore, un intermediario; l'espressione che lui usa è "metaxù" , che in greco vuol dire "tra". Questo metaxù è Eros, Amore. Platone gli dà due compiti: la funzione espressa dal verbo greco diaportmeuon e quella indicata da ermeneuon. Diaportmeuon vuol dire tradurre, ermeneuon, invece, interpretare. Amore, quindi – dice Platone –, traduce agli uomini il linguaggio degli dèi; un linguaggio che non è razionale, non essendo un linguaggio che sta alle regole, ma un linguaggio incomprensibile. E agli dèi riporta il linguaggio degli uomini. Eros, dunque, fa un'operazione di traduzione e interpretazione. Ma cosa significa che Amore fa queste cose? Noi conosciamo, traduciamo, interpretiamo con la ragione; Amore, invece, è in quel frammezzo in cui si devono interpretare e leggere l'incodificabile e l'incodificato, riuscendo a fare queste cose.
La dimensione di cui è capace Amore è quella che io vado chiamando "dimensione simbolica". Quando due si innamorano, si innamorano perché l'uno cattura la simbolica dell'altro. Io mi innamoro quando catturo la tua simbolica e tu catturi la mia, al di là di ogni razionalità. Se infatti chiediamo a uno che è innamorato: "Perché ti sei innamorato?", non avremo alcuna risposta? O meglio, nessuna delle risposte che potrebbero esserci date sarebbe convincente, né per noi che le ascoltiamo, né per chi le proferisce. Il gioco, infatti, avviene a livello di follia. Freud l'aveva detto con estrema chiarezza: l'innamoramento è una grave patologia; ha il solo pregio di essere breve rispetto alle altre. Non si può assolutamente negare che, quando sono innamorato, la presenza della donna amata mí colora il mondo, e quando questa donna se ne va, il mondo si scolora; ma è impossibile che il mondo acquisti tono, vitalità e forza, oppure si spenga e diventi qualcosa di oppressivo, per il semplice fatto che c'è questa donna. Questo si chiama delirio: attribuire la responsabilità della variazione del mondo alla presenza o all'assenza di un essere umano è delirio. Qui entriamo dunque in quella dimensione folle cui Amore sempre ci induce.
Non si fa l'amore con la testa; quando diciamo: "Mi fai impazzire", cosa stiamo dicendo, se non che siamo scesi in uno scenario non controllabile? Lo stesso quando diciamo: "Mi fai perdere la testa". In realtà la testa l'abbiamo già perduta, in tali circostanze.
Ecco la ragione per cui Amore è capace di entrare nella nostra dimensione folle. Ma, attenzione, non è tra me e te che si fa l'amore; non è qui il gioco. Sarebbe un gioco troppo semplice. Io, grazie a te, che hai catturato la mia simbolica, posso scendere nella mia parte folle, come Dante scende nell'Inferno accompagnato da Virgilio. Perché non si va all'Inferno da soli e non è detto che si torni indietro. Solo grazie a te posso scendere nella mia parte folle, e soprattutto avere la garanzia di poter uscire da questa parte folle. Perciò l'amore non lo faccio con chiunque, ma lo faccio con te; perché mi fido della tua capacità di accompagnarmi nel mio abisso e di riportarmi fuori da esso.
Quando faccio quest'operazione di ingresso e di uscita dalla mia follia, faccio l'operazione che Socrate nel Simposio non esita a chiamare generativa, maieutica. Socrate diceva di fare il mestiere di sua madre, la levatrice (che aiutava le donne a partorire), ma non era lui a partorire, così come non sono le levatrici a partorire. Esse aiutano a farlo. Possiamo dire che le persone di cui ci innamoriamo sono come delle levatrici; coloro che ci aiutano ad entrare nel nostro abisso e a fuoriuscire da esso. E quando fuoriusciamo non siamo più quelli di prima; ci siamo rigenerati. Per questo Amore, secondo Platone, è sempre ri-generativo. È sempre generativo grazie all'affondo di cui è capace, perché "tra uomini e dèi" (e noi possiamo tradurre nel nostro più modesto linguaggio psicologico: "tra la parte razionale e la parte folle di noi stessi") "non c'è omilìa, ossia non c'è commercio". Non c'è presa diretta. Perciò abbiamo bisogno di questo mediatore.
Gli psicanalisti, ogni tanto, dovrebbero rendersi conto che sono terapeuti in quanto mettono in gioco Amore - questa è infatti la chiave per entrare nella follia. Ogni terapia è terapeutica per quel tanto che è erotica - a condizione di assumere questa parola all'altezza di Platone, e non al livello cui oggi l'abbiamo ridotta, con questa cultura sessuomaniaca che serve solamente per spegnere la sessualità. Non c'è rapporto, e quindi c'è bisogno di questo mediatore.
I Greci, che sono il popolo più intelligente della terra (dal mio punto di vista, naturalmente), nella loro coniugazione verbale avevano sì il singolare, come l'abbiamo noi, e il plurale, come l'abbiamo noi... ma avevano anche il duale. Allora possiamo dire che, se nel plurale siamo tutti ragionevoli, nel singolare siamo invece prevalentemente folli. Quando ciascuno pensa in se stesso, fuoriesce dai codici della razionalità comune, fuoriesce e comincia a fantasticare... comincia a immaginare, comincia a fare delle considerazioni che non avrebbe mai avuto il coraggio di fare ad alta voce - sicché quando uno comincia a parlare da solo ad alta voce, ci viene il sospetto che non sia più dalle nostre parti. Non solo: quando c'è una sorta di incantamento, quando uno è incantato, c'è sempre da parte del gruppo la tendenza a svegliarlo, a riportarlo nel gruppo, nelle regole, ossia nel mondo della comunicazione univoca.
Mentre il singolare, il soliloquio dell'anima, è il luogo eminente della follia, il dialogo plurale è il luogo eminente della razionalità. Poi c'è il duale - io e tu. Da cui una sorta di prelievo del linguaggio razionale, che viene enormemente caricato di valenze simboliche. Per cui, quando i due si parlano, si dicono cose facilmente decodificabili, ma in realtà dotate di un significato e di una potenza simbolica e semantica infinita.
Quando si dice: "Ti amo", non si sa che cosa si dice esattamente; e non si sa mai neanche esattamente chi parla. "Ti amo" è una proposizione abbastanza impropria. Ma quando l'altro chiede: "Mi ami?", e io rispondo: "Sì, ti amo"... razionalmente ci si capisce, cioè il discorso sembra chiuso, finito lì. E invece no, non è affatto finito lì. Si va avanti all'infinito, per andare a scrutare tutte le valenze simboliche, non tanto di verità, quanto di spessore, di qualità di senso, di correlazione tra le mie attese e le tue donazioni, in termini di relazione. Quando due innamorati parlano e sopraggiunge un terzo, ci si mette naturalmente a parlare del tempo metereologico, perché non si può proseguire con la dimensione simbolica. La dimensione simbolica è infatti una dimensione erotica.
La dimensione erotica è quella che ci consente di accedere alla nostra follia, sapendo però che, siccome entrare nella nostra follia, entrare in questa dimensione sacra, entrare nello scenario dell'impuro, non garantisce mai la fuoriuscita, è sempre meglio farlo con qualcuno; cioè è sempre meglio farsi accompagnare, come Dante si è fatto appunto accompagnare all'Inferno da Virgilio.
(FONTE: Panta, Decalogo, Bompiani 2010, pp. 319-330)