Ripensare l'utopia
Carmine Di Sante
Il tempo liturgico dell'avvento dispiega, nell'arco temporale che va dalla prima domenica fino alla epifania, l'utopia di Dio. Si tratta di una utopia dalla novità radicale che non è la riproduzione di ciò che è stato come, ad esempio, nelle espressioni:. un vestito "nuovo", una casa "nuova", un giardino "nuovo", ecc.; che non è neppure la proiezione al futuro dei nostri bisogni, desideri o progetti, cioè della natura umana desiderante e progettuale; ma che è totalmente altra.
Ogni futuro, infatti, che ripropone il passato non è vero futuro ma solo riproposizione di ciò che è stato: ma anche ogni futuro che nasce dentro la struttura del proprio essere, più che una reale novità, costituisce il dispiegamento, l'arrivo in porto. del più lontano passato: è il futuro del chicco che diventa grano o del seme pianta, in cui il nuovo che sarà è quello che da sempre c'è stato, il non ancora del già dato. Per questo la grecità e le culture mitiche non hanno conosciuto né il futuro né la novità perché per esse ogni futuro e ogni novità sono il dis-avvolgimento, lo s-rotolamento, lo s-fogliamento , lo s-quadernamento di ciò che è già tutto contenuto - ma in modo di condensamento - nel "già dato del seme" in cui, implicitamente, da sempre è presente il tutto: un tutto il cui tratto peculiare è di essere nascosto, occultato, non ancora pienamente visibile, in attesa che si disocculti, si renda manifestò e fruibile. Questi due volti delle cose - per cui il "seme" è già pianta , però in maniera ancora nascosta perché ancora attende di essere disoccultato - vengono chiamati dalla filosofia greca con due nomi: potenza e atto: in potenza il sempre è pianta, ma non ancora pienamente, in atto: la potenza è il condensamento dell'atto e l'atto è il dispiegamento della potenza.
La novità dischiusa dall'avvento è una novità radicale che, secondo l'etimo del termine avvento (ad-ventus) non viene dall'io ma viene all'io, non proviene da lui, ma ad-viene a lui: la novità di Dio che entra nella propria vita e nella storia e che , con la sua "visita" la illumina e la rigenera. E' questa, per la bibbia, l'utopia radicale - non una utopia tra le altre ma un'utopia altra dalle altre - alla quale si riferisce con categorie varie (profetismo, messianismo, annuncio del regno, ecc.) e che è il contenuto stesso del trattato teologico dell'escatologia (1).
Scopo di questo contributo è di mettere a confronto l'utopico biblico con l'utopico moderno che, come viene sempre più denunciato, sembra essersi esaurito o eclissato. La testualità ebraico-cristiana- il cosiddetto Antico Testamento e il Nuovo Testamento - custodiscono un senso che mai come oggi, nel
tramonto dei grandi "racconti" e delle "ideologie" totalizzanti, si offre come possibilità inedita: per capire perché l'utopia moderna è entrata in crisi e come essa debba essere ripensata se si vuole che torni a riaccendersi anche nell'animo disincantato dell'uomo postmoderno. In un
primo momento si abbozzeranno le caratteristiche principali dell'utopia moderna, in un secondo quelle dell'utopia biblica - dell'escatologia - ; nel terzo, infine, si tenterà un confronto tra le due, sottolineandone le conseguenze ai fini di un ripensamento dell'orizzonte utopico.
L'utopia moderna
Forse l'ultima grande utopia, dopo il '68, è stata il crollo del muro di Berlino, vissuto come avvento di una possibilità davvero nuova: il realizzarsi di un mondo non più diviso e contrapposto tra due blocchi nemici (Stati Uniti e Unione Sovietica) e avviata finalmente sulle vie della collaborazione e della riconciliazione.
Ma questa utopia non si è realizzata e ad essa ha fatto seguito da una parte il riesplodere degli interessi e degli egoismi individuali è corporativistici, dall'altra il riemergere dei nazionalismi, dei regionalismi e dei localismi, con un tasso di violenza (un esempio per tutti il dramma dell'ex-Iugoslavia) che si credeva appartenesse ad un passato non più ripetibile della storia umana. In una serie di trasmissioni dedicate. a "Filosofia e Attualità ", il filosofo Remo Bodei ha così caratterizzato il periodo che stiamo vivendo: "Lo storico tedesco Reinhart Koselleck ha parlato di due fenomeni che caratterizzano il nostro tempo: il restringimento dell' area dell'esperienza e l'abbassamento dell'area delle attese. Cosa vuol dire ? Vuol dire che nelle società tradizionali, a lento sviluppo e a basso indice di progresso, in cui il passato assomigliava !molto al presente, era possibile costruirsi una valida esperienza: col passare degli anni si diventava più saggi, più ragionevoli, più capaci di comprendere come va il mondo. Ora invece, in società con mutamenti rapidissimi, l'esperienza non fa in tempo a cristallizzarsi ... Restrigimento dell' area dell'esperienza significa dunque che il passato ci serve sempre di meno come modello, mentre, invece, con abbassamento dell'orizzonte delle attese si intende che di fronte alle modificazioni incessanti e rapide del presente noi non sappiamo più come immaginarci il futuro realmente. Di fronte a questa irrappresentabilità del futuro, molti sono indotti ad abbandonare l'idea che valga la pena di sacrificarsi nel presente per un domani migliore... Mentre nel passato non solo l'etica delle grandi rivoluzioni francese e russa, ma anche l'etica tradizionale liberale scorgevano nelle opere degli uomini un'attività compiuta in favore delle generazioni future, dei posteri, e quindi ritenevano che ci si dovesse sacrificare per il progresso, per la società senza classi o per la società futura, oggi sembra che questa tensione, anche se non è venuta meno, certamente si sia molto allentata. Noi siamo allora costretti ad accollarci tutto quel negativo -malattia, morte, infelicità - che
avevamo proiettato nel futuro e che pensavamo di riscattare, e ripensarlo come qualcosa che ci riguarda direttamente senza possibilità di redenzione. Detto in termini più filosofici questi elementi dì negatività che ogni vita individuale comporta sono considerati ormai irredimibili, irriscattabili. Non c'è più nessuna redenzione ..."(2). E conclude con l'osservazione che: "da almeno due decenni si sta affermando nella nostra cultura un tipo d'uomo che vorrei chiamare narcisista, ma non nel senso del vanitoso, ma di colui che non è capace di distinguere tra i propri desideri e la realtà e che quindi è guidato più dal desiderio immediato dì godere che dal bisogno. In un futuro poco radioso, che appare anzi come una minaccia, egli non riconosce più nessun buon motivo per sacrificarsi"(3).
L'esito paradossale della modernità nata come utopia: come volontà di sconfitta del male e di instaurazione della società ideale sembra essere l'io narcisista chiuso al futuro e ripiegato su se stesso, ignaro dello scandalo del pianto che scava il volto del "povero", dell'orfano" e della
"vedova", cioè dell'alterità dell' altro non riconducibile all'io. Esito ingiustificato e casuale che, dell'utopia moderna, è la smentita, oppure esito in parte conseguenziale ed implicito -anche se, per secoli rimasto sottaciuto - nelle premesse stesse del pensiero utopico, così come è stato vissuto nell'immaginario collettivo e come è stato tematizzato dalla filosofia?
Per rispondere a questa domanda si rende necessario ricordare i tratti peculiari dell'utopia moderna per porla, successivamente, a confronto con l'utopia biblica - l'escatologia - che di essa è stata la forza ispiratrice.
Il primo tratto dell'utopia moderna è la percezione della intollerabilità del negativo. Si noti: non la percezione del negativo bensì la percezione della sua intollerabilità, del suo non poter essere più tollerato, cioè giustificato e accettato. La percezione, infatti del negativo, è tipica di tutte le culture mitiche e della stessa grecità per le quali si iscrive nello stesso ordine naturale come l'altra faccia necessaria del positivo. Bene e male, vita e morte, sofferenza e gioia, ordine e disordine, caos e cosmo sono, per queste culture, due momenti interni e conecessari al dispiegarsi e realizzarsi del reale e si coesigono, in un gioco mirabile di alternanza, come il giorno e la notte, la primavera e l'inverno, ecc. Il tratto nuovo antropologico fatto emergere dalla coscienza utopica è che il negativo non può né deve essere tollerato, se non -come nella concezione dialettica che va da Hegel a Marx, fino a Lukacs e persino fino a Adorno - come strumento di progresso per il suo superamento, come "levatrice" di una storia non più oppressa ma liberata.
Il secondo tratto, speculare al precedente, è la configurazione, a livello ideale, di un ordine totalmente positivo, senza più ombra alcuna di male. La configurazione - sia pure solo a livello immaginario - di un ordine totalmente positivo è inconcepibile per le culture mitiche dove, come si è notato nel tratto precedente, il negativo è esso stesso necessario e il positivo viene pensato come "ordinamento" (messa in ordine) o "imbrigliamento" (tenuta a freno) del caos, come emerge dai racconti cosmogonici.
Il terzo tratto è la razionalità scientifica e tecnologica quale strumento capace di operare il capovolgimento di un mondo abitato dal negativo ad uno dove ogni sua traccia è eliminata. La modernità è stata ed è la produzione di un sapere immane sotteso da questa volontà utopica, orientata alla costruzione di un mondo ideale: un sapere non più solo contemplativo (teso all'intelligenza, all'intus-legere, al leggere dentro le cose del pensiero classico) ma progettuale e strumentale, dove dimensione conoscitiva e dimensione operativa hanno creato quel connubio tra scienza e tecnologia che nessuna altra cultura ha mai conosciuto.
Il quarto tratto è la potenza del linguaggio metaforico derivato dalle Scritture ebraiche, da quei "veggenti" biblici che "vedono oltre" l'ordine costituito non per negarlo ed instaurare al suo posto il non-ordine, bensì per denunciarlo, al dì là dell'apparenza, come disordine ed instaurare, in sua vece , il vero ordine. Come esempio di potenza simbolica di linguaggio, valga il brano dove Isaia descrive l'arrivo di un giorno dove tutte le nazione, in forza della parola del Signore uscita da Sion, "forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell'arte della guerra" 2, 4-5).
Il quinto tratto è "la collocazione al futuro del nuovo ordine ideale caratterizzato dalla scomparsa definitiva del negativo: in. un non ancora che con il passato e il presente recide ogni legame (la rivoluzione) o ne è il compimento finale (storicismo). La modernità è stata il grandioso tentativo si sentire e di pensare la realtà-cosmo e storia, mondo e uomo, natura e cultura - come struttura razionale, cioè come ordinamento perfetto di cui l'uomo è in grado di conoscere , sia pure per approssimazioni e con difficoltà, le leggi interne che le sono immanenti e che guidano teleologica-mente verso il suo compimento; il grandioso tentativo di leggere la realtà come progresso, sia nella linea più ingenua della prima modernità, che pensava il dominio dell'uomo sulla natura assoluto e incontrastato (Bacone riteneva che la natura andava torturata perché rivelasse i suoi segreti), sia in quella più matura - quella della dialettica - che, consapevole dei guasti del progresso prodotti dall'incipiente industrializzazione, assume il negativo come strumento e mezzo di evoluzione.
L'utopia biblica
L'utopia moderna non si è realizzata, nonostante che il principio potenza abbia raggiunto il massimo di potenza , al punto da mettere in forse la sopravvivenza stessa del pianeta, come denunciano con drammatico realismo i vari movimenti ecologisti, trasformando così - ironia della sorte - la più alta utopia nella distopia (4) di una catastrofe dalle proporzioni immani. Nel capire le ragioni di questa tragica metamorfosi può essere fecondo il confronto con la profezia biblica da dove l'utopia moderna ha attinto e derivato la sua spinta propulsiva e i suoi linguaggi.
Confrontando l'utopia moderna con l'utopia, della bibbia - la sua escatologia - si notano con immediatezza dei tratti di radicale identità ma anche si sostanziale diversità.
Identità, ad esempio, per quanto riguarda il primo tratto: la percezione dell'intollerabilità del male. Di questo tratto il profetismo - eccezione unica nella storia della produzione delle idee umane - è stato il vero ideatore o inventore, disegnando un mondo totalmente positivo dove il caos (metafora del negativo e della totalità di ogni sua figura) non fa corpo con il cosmo (metafora del positivo e delle sue molteplici figure), essendo quest'ultimo "sette volte" buono, cioè radicalmente e ontologicamente buono, secondo il racconto genesiaco della creazione. Ugualmente identità per quanto riguarda il quarto tratto - la potenza del linguaggio metaforico - che, come si è già notato , l'utopia moderna ha derivato dalla bibbia, miniera inesauribile di immagini e di simboli.
Parziale identità, invece, per quanto riguarda il secondo tratto - la configurazione di un ordine totalmente positivo - che la bibbia descrive con categorie varie, come, ad esempio, quelle della creazione, del regno di Dio, della terra promessa, della redenzione, ecc. Da questo punto di vista l'utopia moderna è la trascrizione, sul piano storico e temporale (intesi, però, teleologicamente o evoluzionalisticamente), di questo tratto dell'utopia biblica; trascrizione però che, nel momento stesso in cui avviene, modifica sostanzialmente il dato biblico, perché il soggetto instauratore di questo ordine totalmente positivo non è più Dio , come per la bibbia, ma l'uomo; e lo spazio della sua realizzazione non' si gioca più nell'orizzonte della trascendenza divina ma in quello dell'immanenza storica.
Una divergenza ancora più profonda va invece registrata per quanto riguarda il quinto tratto: la collocazione al futuro del mondo utopico. Questo, infatti, per la bibbia, come non va collocato nel passato, neppure va situato nel futuro ma nell'hodie, nell'oggi, nell'hic et nunc ("qui è ora") di ogni istante: "Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore tuo Dio tí benedica nel paese che stai per entrare a prendere in possesso" (Dt 30, 15-16; cfr pure 8, 1; 9, 1, ecc.). Contrariamente al modello evolutivo e storicistico - che pesantemente ha condizionato la stessa lettura biblica -il Dio della bibbia non è il Dio del passato, come nelle religioni mitiche, e neppure dei futuro, come nelle letture evoluzionistiche (alla Teilhard de Charin o alla Bloch), bensì il Dio del presente: di ogni presente. Per quanto "il presente -" - storico o individuale - possa essere o sembrare ottenebrato ed insensato, per la bibbia Dio è qui e solo qui ed è a partire da qui che instaura, nel soggetto, la vera utopia (5).
Ma dove radicale e inconciliabile è la differenza tra l'utopia moderna e l'utopia biblica è nel terzo tratto: nel principio realizzativo dell'utopico, che per la modernità è la razionalità scientifica e tecnologica, mentre per la bibbia è "qualcos'altro" a monte sia della volontà progettuale che del sapere tecnologico.
Quale è questo "qualcosa" in forza del quale, per la bibbia, quale suo originario intrascendibile, fiorisce l'utopia?
In ogni sua pagina, dall'Antico testamento al Nuovo Testamento, la bibbia è il dispiegamento di questo "originario": è e vuole essere rivelazione - cioè s-velamento - di questo "segreto" o punto archimedeo in grado di capovolgere veramente il negativo - violenza e sofferenza-nel positivo di un mondo riuscito. La categoria più adeguata nella quale la tradizione biblica condensa questo "originario" è l'alleanza; categoria paradossale secondo la quale non è solo l'uomo ad avere bisogno di Dio ma anche Dia ad avere bisogno dell'uomo. L'idea di un Dio che abbia bisogno dell'umano è to talmente estranea al pensiero occidentale, che ha pensato e pensa il divino - l'assoluto , il trascendente, il "totalmente altro" - con la categoria del "principio vitalistico che muove ogni cosa alla sua realizzazione (il "motore immobile" di Aristotele) e della "onnipotenza" alla quale nessuno e niente può opporre resistenza; per cui, un' affermazione come questa viene colta solo come "metaforica", priva di ogni dimensione di intelligibilità e di verità. Ma per la bibbia l'amore, di Dio - che essa canta dalla, prima all'ultima delle sue pagine - non opera come "principio vitalistico" bensì come libertà d'amore che istituisce la libertà umana, "sospendendosi" come Dio (si ricordi la teoria dello zimzum cabalistico che legge la creazione come autoriduzione di Dio) e consegnandosi alla responsabilità e decisione di quest'ultima. Quando, attraverso la categoria dell'alleanza, anche Dio si rivela "bisognoso", ciò di cui egli ha bisogno è la libertà dell'uomo alla quale affidare il suo progetto d'amore, cioè la creazione. questa - il mondo "sette volte ' buono, il mondo "ordinato e felice", il mondo veramente utopico - non è realizzato solo da Dio e neppure solo dall'uomo ma dall'alleanza tra l'uno e l'altro: dal volere di Dio - che è volere di amore, come compassione e come gratuità - e dal volere dell'uomo che, nella libertà, è chiamato ad acconsentirvi. L'utopia per la bibbia, prima che nell'intelligenza contemplativa che coglie l'ordine del reale) o progettuale (l'intelligenza che scegli mezzi per costruire l'ordine reale) è il frutto della libertà buona del soggetto umano: della sua libertà per l'amore, della sua capacità dí amare l'altro di quell'impensabile amore che è l'esodo dal proprio io all'altro, il trascendimento del proprio essere di bisogno in essere di responsabilità.
Ridetto in altri termini, l'utopico, per la bibbia, fiorisce, in virtù del principio etico o soggettivo, da intendere non come alter- nativa al principio della razionalità-scientifica e tecnologica dell'utopia della modernità ma come sua riformulazione e rifondazione sul terreno della responsabilità indeclinabile che antepone - miracolo o "follia" della bontà - al bisogno del proprio io la priorità dell'altro. Il mondo buono - l'oggettivo - fiorisce dal soggetto buono: dal soggetto "santo" che, "separato ' dal proprio io, come vuole l'etimo ebraico, è capace, in forza di Dio e come Dio, di bontà e di gratuità.
L'utopico, per la bibbia, fiorisce in virtù della "compassione", del sentire come Dio (cfr Es 3, 7ss) - il dolore dell'oppresso (compassione recettiva), ponendo a servizio della sua eliminazione la propria volontà e intelligenza progettuale e strumentale (compassione attiva).
Confronto
Se, per la bibbia, l'utopia non è il frutto di un processo oggettivo e universale affidato alla ragione, ma della compassione del soggetto umano e della sua responsabilità personale e indeclinabile, si fanno chiarire le conseguenze per il ripensamento dell'utopia nel tempo nella distopia.
Prima conseguenza: l'utopico non è, in primo luogo, il tratto dell'oggetto ma del soggetto: più che il mondo utopico la bibbia conosce il soggetto utopico; il mondo utopico o è l'oggettivazione del soggetto utopico oppure è solo buona fortuna, felice congiuntura storica, illusione o incoscienza, ecc. Il soggetto utopico è il soggetto buono, giusto o santo, dis-avviluppato dal suo io e capace di essere per l'altro. Niente, all'apparenza, è così poco utopico come amare l'odano", il ''povero", la "Vedova", lo "straniero", o il nemico ecc., ma è da un gesto come questo che fiorisce l'utopia.
Seconda conseguenza: il soggetto utopico non è il soggetto fruitivo dell'utopia ma produttore dell'utopia. Utopico non è chi sogna, ha o vive in un mondo utopico - dove le cose funzionano armoniosamente perché altri lo fanno o lo hanno fatto funzionare- ma che, nella responsabilità quotidiana, costruisce un mondo tale.
Terza conseguenza: il soggetto utopico - etico, buono o santo - non teme il distopico, perché la forza della sua utopia non gli proviene "dal di fuori" e non abita l'esteriore ma il suo io. Egli è come il vero musicista creativo che non teme la scomparsa della musica o l'incendio degli spartiti avendo lui stesso la capacità di produrla.
Quarta conseguenza: il soggetto utopico, per la bibbia, non solo non teme il distopico ma lo capovolge: senza farsi abbattere da esso passivamente ma facendosene ammaestrare e assumendolo (cfr. l'esilio babilonese) in vista del suo superamento.
Quinta conseguenza: il soggetto etico, per realizzare l'utopico, non si lascia abbagliare dalla tentazione della violenza. È nota la denuncia - soprattutto di Popper - sul profondo legame tra utopia e violenza e la tesi di non pochi autori i quali sostengono che il monoteismo -l'affermazione di un solo Dio e, pertanto, di una sola verità - porta, i suoi sostenitori, alle peggiori aberrazioni. E' innegabile che, storicamente, gli utopisti troppo spesso si sono fatti "giustizieri del Bene" piuttosto che suoi servitori e promotori (6), Il motivo di questa orribile mistificazione produttrice delle follie dei peggiori totalitarismi, va ricercato nel processo di identificazione, poco importa se consapevole o meno, tra il Bene come valore e il soggetto che vi aderisce. Questo, invece che obbedire al Bene, riconoscendone l'irriducibile alterità e "servendolo", fa corpo con esso, annullandone la differenza e "servendosene": con la conseguenza che la propria volontà di potenza, invece che depotenziata e contestata, viene ulteriormente consolidata; e la violenza che da essa promana invece che condannata viene legittimata: trasferita dall'ordine della fattualità e della brutalità a quella della legge e del diritto. Uccidere chi si oppone o contrasta il proprio progetto non è più violenza perché fatto in nome del Bene superiore della Società ideale o della Umanità ideale o della Religione Ideale, allo stesso modo che non lo è tagliare un braccio se viene fatto per il bene dell'intero organismo.
La bibbia non solo sfugge a questa figura di utopico ma vede in esso; la radice stessa del peccato che non è volontà di potenza ma volontà di onnigiustizia e di autoididentificazione con il Bene. Là.bibbia, infatti, sottrae all'uomo la definizione del Valore assoluto e del Bene intesi astrattamente, comandando all'uomo non di amare il Valore (l'Umanità, la Fraternità, l'uguaglianza, ecc.) ma il dis-Valore . (il "povero", lo "straniero", il "nemico", ecc.) e non di tendere verso l'universale ma di preoccuparsi del particolare: questo "povero", questo "orfano ', questo "straniero", ecc. L'assoluto, per la bibbia, non si dà nell'ambito dell'universale e dell'ideale ma nel concreto e nel particolare, che non sono la riduzione dell'Assoluto ma la sua unica possibilità di darsi come tale: come totalmente altro dalla storia dell'io e non riconducibile alla sua volontà. L'utopia biblica è l'utopia dei "particolari" e degli "istanti": l'utopia che, in ogni "qui e ora", ogni "io" è chiamato ad instaurare con ogni "tu". Si tratta, sì , di una utopia universale, ma di una universalità che non si gioca sulla linea della totalità - l'essere parti di un Tutto - ma sulla linea della responsabilità: quello che faccio con questo particolare - mio figlio, mia madre, mio amico, ecc. - è quello che sono disposto a fare e che farò con ogni altro che incontrerò.
Sesta conseguenza: è nel soggetto etico - nel dove essere della bontà o della gratuità -che va individuata la radice della felicità e del senso. La pagina lucana del buon samaritano resta, a proposito esemplare: nel gesto di prossimità con cui egli - "eretico" - colma la distanza dall'alterità dell'altro - suo "estraneo" - "provando com-
passione" per la sua sofferenz ae ponendosi a suo servizio per eliminarla, si dischiude, alla sua soggettività, la "vita eterna", la vita sottratta all'apparenza e abitata, a sua stessa insaputa, dal Senso. La vita ridonata all'altro si riflette, per il samaritano, a suo vantaggio, dischiudendogli la vera vita. Gesto paradossale dell'io che, nel momento in cui si perde, si ritrova ad un livello di senso sottratto definitivamente all'apparenza ("vita eterna"). Da questo punto la bibbia ignora la distinzione di M. Weber tra etica delle convinzioni (che riguarda la sfera del soggettivo) e l'etica della responsabilità (che riguarda la sfera dell'oggettivo, cioè dei risultati verificabili) essendo, per essa, ogni "convinzione" misurata dalla "vita" dell'altro che riesce a far fiorire.
Settima conseguenza: il soggetto etico come non si lascia sedurre dall'utopia totalizzante moderna, oggi in declino, così non si abbandona al narcisismo postmoderno che della crisi dell'utopia è la causa principale. L'etico esige infatti - come "la rivoluzione" e come il "progresso" - l'accettazione del negativo in vista del positivo: ma il positivo in forza del quale l'etico chiede al soggetto di sacrificarsi non è né la costruzione di una società più giusta, intesa come totalità, e neppure l'ingresso nel paradiso inteso come realtà metastorica, bensì la trasfigurazione del "piccolo mondo" di cui e entro cui il soggetto vive - il "quotidiano" o la "vita quotidiana" - in mondo di pace: "La pace non può... identificarsi con la fine dei combattimenti che cessano per mancanza di combattimenti, per la sconfitta degli uni e la vittoria degli altri, cioè con i cimiteri o gli imperi universali futuri. La pace deve essere la mia pace, in una relazione che'parte da un io e va verso l'Altro, nel desiderio e nella bontà in cui l'io contemporaneamente si mantiene ed esiste senza egoismo" (7). Il positivo sognato e realizzato dall'etico non è la totalità ma la relazione e l'incontro dei volti. Ogni qualvolta un io si rapporta nell'autenticità a un tu e dei volti si fissano negli occhi nella responsabilità, lì fiorisce - pienamente e non illusoriamente - l'utopia.
Una utopia veramente capace di vincere il narcisismo che minaccia il soggetto postmoderno e che non è meno esaltante, anche se più esigente, di quella giocata sul registro dell'universale.
Non c'è modo migliore di terminare queste pagine dedicate al ripensamento dell' utopico nei tempo della "dis-topia" che meditare una preghiera della domenica mattina di Etty Hillesum, la giovane ebrea morta nei campi di concentramento e il cui diario miracolosamente ritrovato e pubblicato nel 1981 (8) è una impressionante testimonianza di una utopia -l'utopia della bontà e della responsabilità - fiorita dentro lo stesso inferno di Auschwitz, il luogo della distopia o dell'antiutopia per eccellenza.
"Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano: Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l'oggi con i pesi della mia preoccupazione per il domani - ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te; e in questo modo aiutiamo noi stessi. L'unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l'unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch'esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua .responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci ma torca a noi aiutare te, difendere fino all'ultimo la tua casa in noi" (p. 169). (9)
NOTE
1. A proposito rimando:al mio saggio Il futoro dell'uomo. Ripensare l'escatologia, Elle Di Ci, Torino 1994.`
2. Testo pubblicato in l'Unità del 31-5-93.
3. Ivi. Sul tema del narcisismo postmoderno che minaccia di portare il mondo sull'orlo del fallimento cfr. il documentato saggio di Zbigniev Brzezinski,.Il mondo fuori dal controllo, Longanesi, Milano 1993. L'autore gran& esperto di relazioni internazionali, definisce l'ideologia che mina alla radice l'attuale società come ideologia della "cornucopia passiva", l'ideologia dell'abbondanza ("cornucopia" = "corno" dell'abbondanza, simbolo di ricchezza) il cui imperativo categorico è di avere sempre di più (prodotti, beni, libertà e arbitrio) e che, per questo, diventa costitutivamente di far fronte agli immani problemi della società planetaria - soprattutto dalla giustizia e della salvezza dell'habitat naturale - per la cui soluzione si richiedono incondizionatamente nuovo rigore morale e volontà solidale.
4. Dis-topia: assenza e crisi dell'utopia.
5. Cfr. a proposito il celebre saggio di M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, (a cura A. Porca) delle Ed. Paoline; come pure dello stesso autore si v. il suo bellissimo Il cammino dell'uomo secondo l'insegnamento rabbinico, Ed. Qiqajon, Magnano 1990.
6. Tra i tanti che hanno denunciato il connubio perverso tra l'ideale del bene e la violenza si può ricordare C. Noica (1909 -1987), il filosofo rumeno che, a differenza dei suoi amici M. Eliade, E. Cioran, E. Ionesco, invece di rifugiarsi in occidente "dove bevevano... la molto umana coppa della vanità", viene mandato in un campo di rieducazione a studiare Marx di cui scriverà: "Perdonatelo, visse anche lui sotto la follia del bene. Pregate per l'anima del fratello Karl. Pregate per the Big Brother (Cfr. C. Noica, Sei Malattie dello spirito contemporaneo, Il Mulino, 1993).
7. E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità. Jaca Book, Milano 1990. Pag. 314.
8:Ed. italiana a cura di Adelphi, Milano 1985.
9.Sottolineatura mia. E in una sua lettera dalla prigionia di Westerbork scriveva : "Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani... è stato inutile... Un nuovo senso delle cose....nuovi pensieri, nuove conoscenze dovranno portare chiarezza oltre i recinti di filo spinato ... Sulla base di una comune e onesta ricerca... dovremo costruire un mondo completamente nuovo".