L'amore alla vita

Carmine Di Sante


Si tratta di un tema suggestivo ma che si presta a degli equivoci. Cosa intendere infatti per «amore alla vita»? E come distinguere un «amore alla vita» intessuto di responsabilità da un «amore alla vita» inteso come libertinaggio?
Le pagine che seguono cercheranno di rispondere a questi interrogativi, indagando il patrimonio biblico-ebraico (alle origini del nostro patrimonio cristiano) e muovendosi lungo tre coordinate:
a) l'amore alla vita come amore alla terra: cioè a «questa» vita non contrapposta o finalizzata all'aldilà ma colta e vissuta in se stessa;
b) l'amore alla vita come obbedienza a Dio: in tanto la vita va amata e può essere amata, se resta entro l'orizzonte dell'obbedienza a Dio. Vivere è obbedire. Obbedire non è autoprivarsi ma vivere!
c) l'amore alla vita come amore al prossimo: essere obbedienti a Dio vuol dire amare il fratello. La vita fiorisce dove questi è amato; fiorisce non solo per lui ma anche per l'io.

1. L'amore alla terra

L'amore alla terra non è da identificare, qui, con un atteggiamento estetico che ci fa esclamare: «come è bella la campagna!», «come è bello il mare!», ecc. L'amore alla vita non esclude la bellezza ma l'ingloba e la trascende entro l'orizzonte della bontà, l'orizzonte entro cui il mondo è «bello» perché dono della benevolenza. Neppure è da identificare con un atteggiamento edonistico/consumistico, che si accosta al mondo strumentalmente a coglierne né la bellezza né la bontà.
L'amore alla vita qui esprime l'atteggiamento di chi si pone di fronte alla terra (metafora di tutti i beni: da quelli materiali a quelli interpersonali, da quelli culturali a quelli spirituali) positivamente, sentendola come casa e patria ospitale, in cui trovarsi a proprio agio e amarla. In termini più concettuali: esprime l'atteggiamento di chi ritiene la vita terrena non come un «luogo» intermedio o negativo da cui fuggire, ma come possibilità oggettiva in cui realizzarsi.
Cercheremo di indagare il senso di questa positività attraverso il recupero del patrimonio ebraico. Per noi cristiani è molto importante riscoprire l'ebraismo, non per «diventare» ebrei, ma per capire meglio lo stesso patrimonio e la nostra stessa testualità neo-testamentaria costituitasi, come è noto, nel confronto dialettico con l'Antico Testamento e con le «ideologie» ebraiche di quell'epoca. È questo il motivo per cui il Concilio Ecumenico Vaticano II, con un'apposita dichiarazione intitolata Nostra aetate 4, ha voluto il dialogo con l'ebraismo, riscoperto come source (fonte) cristiana primaria e necessaria.
L'ebraismo è caratterizzato da una grande «passione per la vita», intesa non «spiritualmente» (la vita dell'anima) e «escatologicamente» (la vita dopo morte), ma «concretamente» e «materialmente». La bontà di questa vita può essere colta e tematizzata attraverso il dispiegamento dei seguenti tratti:

a) La vita come qualità. La vita della quale ama parlare l'ebraismo è quella qualitativa, non riducibile all'aspetto biologico né alla pura e semplice sopravvivenza. Il termine italiano che meglio di ogni altro ridice il senso di questa qualità è convivialità, dove nell'etimo si ritrovano annodati i significati di vivere/vivere con/vivere gioiosamente. Il termine ebraico che esprime tutto questo è sbalom, che sta ad indicare una situazione di «interezza» e di pienezza. Una vita di «pace» è quella la cui misura è colma, la cui figura si dispiega tutta e per intero.
Un secondo termine biblico, di origine neotestamentaria, per esprimere questa dimensione qualitativa è vita «eterna», dove «eterna» indica non tanto la vita dopo morte, ma la vita in quanto «rifinita» sul/dal volere divino, secondo l'osservazione di Buber per il quale l'impegno dell'ebreo è quello di «infondere nella vita di tutti i giorni il sapore dell'eternità».

b) La vita come terrestrità. Per l'ebraismo la terra è l'orizzonte entro cui la vita trova il suo senso e si realizza compiutamente. Ciò significa due cose. Primo: che il mondo è un «oggetto» buono e appetibile, contro ogni dualismo. Qui è da notare la differenza profonda tra questo tipo di mentalità e quella ellenistico-cristiana corrente. Se Plotino infatti diceva di vergognarsi di avere un corpo, l'ebreo può vantarsi di avere i1 «gusto», il «senso», l'«intelligenza», l'«amore» del «carnale». Secondo: che il mondo è un oggetto adeguato al bisogno e al desiderio umano; esso non è un gradino intermedio nella ascesa verso il cielo ma punto conclusivo in sé, orizzonte e patria. E se è vero che l'ebreo è un errante o uno sradicato, lo è non nel senso che avverte il mondo come realtà precaria e insufficiente, ma perché la sua identità ultima la deriva dalla sua sottomissione alla signoria di Dio. Di qui la scarsa importanza che l'aldilà occupa nell'ebraismo e la possibilità di essere pienamente ebrei anche senza la credenza in alcun tipo di sopravvivenza.

c) La vita come godimento. La concezione del mondo come «valle di lacrime» è estranea all'ebraismo, che invece lo vive come bene/bontà di cui fruire. Di qui la sua diffidenza per l'ascetica, e l'invito al godimento, come si ricava da queste massime della letteratura talmudica: «l'uomo dovrà rendere conto dei piaceri permessi che egli rifiuta»; «fare un buon bagno è un'opera pia, perché se bisogna tenere pulita la statua dell'imperatore esposta al pubblico, altrettanto si deve fare per l'uomo che è l'immagine di Dio»; «Dio attende 20 anni che un uomo si sposi. Quando poi ha raggiunto i 20 anni e non si è ancora sposato dice: glí si possano seccare le ossa»; «se chi si astiene dal vino è chiamato peccatore, quanto più peccatore sarà chi si astiene da tutte le gioie!». Il diverso atteggiamento che l'ebraismo e la tradizione cristiana hanno di fronte al piacere può essere esplicitato dal riferimento alla verginità che, se per il primo è un dis-valore perché priva della gioia e della responsabilità della maternità/paternità, per la seconda è divenuta il valore per eccellenza perché condizione ideale per amare Dio con cuore indiviso.

d) La vita come quotidianità. La vita di cui qui si parla è quella che si consuma nelle pareti del quotidiano, come esprime intensamente questo detto di rabbi Joshua Levi: «guadagnarsi il pane è un miracolo ancora più grande della divisione del mar Rosso». Questo atteggiamento, capace di godere delle piccole cose trasfigurando l'ordinario in straordinario, è stato ripreso e sviluppato soprattutto dal movimento chassidico affermatosi nell'Europa orientale negli ultimi tre secoli e che ha trovato la sua espressione più rappresentativa nei racconti chassidici raccolti da M. Buber. Ecco alcune delle massime chassidiche particolarmente suggestive: «Io non vado dal rabbi per il suo insegnamento della Torah ma per vedere come si allaccia le scarpe»; «fra dire la preghiera e tagliarsi le unghie non c'è in realtà alcuna differenza»; «se arriva il messia e tu stai piantando un albero, che faresti? Continuerei a farlo». La conclusione può essere questa del rabbino Gottlieb: «per il pensiero ebraico godere delle cose di questo mondo nel rispetto dell'armonia universale è riconoscere i benefici della creazione: è una mizvah (precetto divino)».

e) Vita a caro prezzo. Il discorso fin qui fatto potrebbe far pensare ad una concezione della vita facile e edonista. In realtà la visione ebraica è l'esatto contrario. La vita di cui essa parla non è la vita beata dell'infanzia né quella disimpegnata del libertino, ma la vita «a caro prezzo» che fiorisce sul terreno della giustizia e della responsabilità. A proposito c'è da notare che - forse caso unico tra le letterature mondiali - la terra non è stata mai concepita da Israele come terra-madre quanto piuttosto come terra-sposa: non terra-madre dalla quale essere amati ma terra-sposa da amare; non terra fonte di piacere ma terra con la quale realizzare insieme il piacere. Funzione della Torah è spezzare il rapporto di immediatezza tra il soggetto e la terra, depotenziando il desiderio e dettandogli delle regole, ponendovi dei limiti e rendendolo costruttivo. Per questo Israele nasce in Egitto morendo, attraverso la liberazione, ai legami di dipendenza e orientandosi, nella responsabilità, verso una terra che è la terra «promessa», una terra non più oggetto della propria volontà di potenza.

f) La vita malgrado il negativo. L'amore alla vita ha accompagnato gli ebrei non solo nei momenti favorevoli ma - ciò che è paradossale - anche in quelli bui e drammatici. Esemplificativa di tale coraggio e di tale logica è questa poesia di un ragazzo, trovata sui muri del ghetto di Varsavia nel 1941:

Da domani sarò triste, da domani.
Ma oggi sarò contento.
A che serve essere tristi, a che serve?
Perché soffia un vento cattivo?
Perché dovrei dolermi oggi del domani?
Forse il domani è buono
forse il domani è chiaro.
Forse domani splenderà ancora il sole
e non vi sarà ragione di tristezza.
Da domani sarò triste, da domani.
Ma oggi, oggi sarò contento
e ad ogni amaro giorno
«da domani», dirò, «sarò triste. Oggi no».

2. L'amore a Dio

L'amore alla vita come amore alla terra potrebbe far pensare ad una religione «materialista», in cui non vi sia spazio per la trascendenza e per Dio. È quanto hanno pensato molti autori cristiani nella loro polemica antigiudaica, intessuta di violenze e di intolleranza. Ma di violenza appunto si tratta, frutto del pregiudizio e della ignoranza, perché in realtà l'amore alla vita di cui parla l'ebraismo non solo non esclude Dio, ma lo afferma come condizione sine qua non perché sia possibile. Per questo accanto al tema dell'amore alla vita è altrettanto centrale, nell'ebraismo, quello dell'amore a Dio. Si tratta di un amore a Dio che non si oppone all'amore alla terra (amare Dio «al posto» di questa o «più» di questa) ma ne è la sua stessa possibilità di esistenza.
Parlare dell'amore a Dio è quindi un altro dei modi per parlare dell'amore alla vita; parlarne a partire da quella «radice» o «condizione» che lo rende possibile. La Bibbia ebraica (e lo stesso Nuovo Testamento) si sintetizza, come è noto, nell'unico/duplice comandamento di «amare Dio e amare il prossimo» (Dt 6,4-5; Lv 19,18; Mc 12,28 ss). Dispieghiamo il significato della prima parte di questa formula («amare Dio») attraverso quattro momenti strettamente correlati:

a) amare Dio è rapportarsi a Lui, definendo il proprio «io» in rapporto al suo «Tu». Il testo per eccellenza che esprime questo principio di autodefinizione è Lv 26,12 (cf pure Lv 22,33): «io sarò il tuo Dio e tu sarai il mio popolo». Qui Israele si coglie come «proprietà» di Dio, come popolo sul quale Dio esercita la sua signoria, dicendogli: «tu sei `mio'» (cf pure Es 19,5). Dire «tu sei `mio'» fa parte della stessa definizione di Dio, del suo stesso «nome». Per Israele la propria identità è tutta in questo essere «proprietà» divina, in questo portare «nel suo 'cuore' e nella sua 'carne' il sigillo di Dio su cui c'è scritto: 'tu sei mio'». Questo «Tu» divino, dal quale Israele si sente portato, non lo abbandona mai: «Vieni e vedi come sono amati i figli d'Israele dinanzi al Santo, che benedetto sia; perché dovunque andarono esuli, la Shekinah fu con loro. Furono esiliati in Egitto e la Shekinah fu con loro, come è detto: 'non mi esiliai invero alla casa di tuo padre quando erano in Egitto'? (1Sam 2,27: qui l'autore usa il verbo galah che vuol dire contemporaneamente sia rivelare che andare in esilio). Furono esiliati in Babilonia e la Shekinah fu con loro, come è detto: 'per vostro amore io fui mandato a Babilonia' (Is 43,14: secondo l'interpretazione rabbinica). Così, quando nel futuro saranno redenti, la Shekinah sarà con loro, come è detto: 'il Signore tornerà con la sua cattività' (Dt 30,3: sempre secondo l'interpretazione rabbinica). Non è detto: 'il Signore ricondurrà' ma 'tornerà con', il che significa che il Santo - benedetto egli sia - verrà indietro con loro» (Meg 29a).
L'essere «compagno» della Shekinah che gli si fa vicina è, per Israele, il segreto della sua autocoscienza religiosa e teologica. È questo il senso della seguente parabola: «un re possedeva un orto piantato a filari di fichi, viti, melograni e meli. Lo affidò ad un giardiniere e si allontanò. Dopo qualche tempo, il re venne a ispezionare l'orto e a verificare ciò che il giardiniere aveva fatto. Lo trovò pieno di pruni e di spini; così incaricò dei sarchiatori di tagliarli via. Però vide fra quei pruni una bella rosa che colse: la odorò e si deliziò della sua fragranza. Disse il re: per amore di questa rosa tutto l'orto sarà salvato». La «rosa» è Israele che Dio colse e «odorò quando gli diede il decalogo e se ne deliziò».
Immagini come queste non vanno interpretate in chiave di contrappposizione e di esclusione, ma di universalizzazione e di inclusione: non vogliono dire che solo Israele - e non gli altri - vive all'ombra della Shekinah ed è portatore di dignità, ma che tutti i popoli - allo stesso modo di Israele - sono dentro lo stesso orizzonte e sono portatori della stessa dignità.

b) Rapportarsi a Dio è ascoltarlo. Dio, nella tradizione biblica, non è quasi mai presentato come oggetto del desiderio, ma come parola imperativa. Il testo fondamentale resta Dt 6,4-9, parte integrante dello shema: «Ascolta Israele: il Signore, nostro Dio, è l'unico Signore. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze. Queste parole che io oggi ti ho detto restino impresse nel tuo cuore. Tu le ripeterai ai tuoi figli; gliele dirai sia stando seduto nella tua casa che • camminando per la strada, sia coricato che in piedi. Le attaccherai alla tua mano come un segno, sulla tua fronte come un pendaglio, le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte». Si tratta di ben sette imperativi con i quali Dio vincola a sé Israele. La sua parola non è infatti facoltativa (se vuoi ascoltarmi) ma iussiva (devi ascoltarmi). Si tratta però di intendere correttamente questa imperatività, la cui finalità non è la privazione della libertà ma la condizione del suo stesso costituirsi.
Questo aspetto paradossale dell'imperativo divino è espresso efficacemente dal seguente midrash: «Quando Dio creò la colomba questa tornò dal suo creatore e si lamentò: Signore dell'universo, c'è un gatto che mi corre sempre dietro e vuole ammazzarmi ed io devo correre tutto il giorno con le mie gambe così corte. Allora Dio ebbe pietà della povera colomba e le diede due ali. Ma poco dopo la colomba tornò un'altra volta dal suo creatore e pianse: Signore dell'universo, il gatto continua a corrermi dietro e mi è così difficile correre via con le ali addosso. Esse sono pesanti e io non ce la faccio più con le mie zampe così piccole e deboli. Ma Dio le sorrise dicendo: Non ti ho dato le ali perché tu le porti addosso ma perché le ali portino te!».
Così è anche per gli Israeliti, conclude il midrash: quando si lamentano della Torah e dei comandamenti, Dio risponde loro: non vi ho dato la Torah perché sia per voi un peso e perché la portiate ma perché la Torah porti voi.

c) Ascoltare Dio è obbedire alla sua volontà. La parola imperativa di Dio costituisce l'uomo come obbedienza, cioè come recettivítà che si fa operatività. Nel termine latino oboedire (come pure in quello greco) si annodano infatti i due momenti fondamentali dell'ascolto fecondo: quello passivo (in cui si fa spazio alla parola) e quello attivo (in cui la parola da esterna si fa interna e di-viene nuovo principio operativo). L'obbedienza è l'ascolto che diventa azione, il sentire che si trasforma in agire. La tradizione ebraica sottolinea con particolare insistenza l'importanza di questo «agire», come mostra il midrash riferito da Pesiqta Rabbati 21: «Quando il Santo, benedetto sia, si manifestò per dare la legge a Israele, la rivelò non soltanto a Israele ma anche a tutti gli altri popoli. Prima andò dai figli di Esaù e domandò loro: 'volete prendere in consegna la Torah?'. Essi dissero: che cosa vi sta scritto ?'. Dio rispose: 'non uccidere'. Ma i figli di Esaù dissero: `...non possiamo prendere in consegna la Torah'... E così Dio andò da una nazione all'altra offrendo la Torah, ma nessuno voleva avere la Torah. Solo alla fine arrivò dagli Israeliti. Senza chiedere che cose stesse scritto nella Torah, gli, Israeliti risposero subito: 'eseguiremo e comprenderemo tutto ciò che ha detto il Signore' (Es 24,7)».

d) Obbedire a Dio è volere quello che lui vuole. Il discorso sull'obbedienza va ulteriormente precisato con l'esplicitazione della sua qualità. Si tratta di un'obbedienza non formale ma intenzionale, dove l'accento va posto non sull'obbedienza in quanto tale ma sulla motivazione che la sollecita e la orienta e che è il volere stesso di Dio. Dio chiede all'uomo di volere quello che lui vuole, cioè una obbedienza che sia la trascrizione della sua volontà che è la benevolenza dell'uomo, l'amore gratuito, l'agape. Obbedire a Dio è volere questo stesso amore, è riprodurre nell'agire quotidiano lo stesso atto originario sotteso alla creazione del mondo che è il bene dell'altro. E siamo così all'ultima delle nostre annotazioni che riguarda l'amore al prossimo, l'amore all'altro.

3. L'amore al prossimo

Il NT condensa tutto il contenuto biblico nel duplice comandamento dell'amore a Dio e dell'amore al prossimo. Ma qual è il legame tra questi due comandamenti? Quale il valore della e copulativa?
È necessario anzitutto evitare una lettura altrettanto comune quanto deviante, quella secondo la quale il rapporto tra l'amore a Dio e l'amore al prossimo sarebbe di ordine «gerarchico» e «concorrenziale». Secondo questa lettura Dio sarebbe colui che andrebbe amato prima e più dell'uomo. Il peccato consisterebbe nell'invertire tale ordine, dando all'uomo quell'amore che andrebbe dato solo a Dio.
Simile a questo tipo di lettura è anche quella secondo la quale il prossimo andrebbe amato «perché Dio lo comanda» e, quindi, in vista di un premio da ottenere o di un castigo da evitare. Resta anche qui un legame tra l'amore a Dio e l'amore al prossimo, ma si tratta di un legame estrinseco.
In realtà il legame tra i due «amori» è consostanziale ed intrinseco, nel senso che l'uno invera l'altro. Ciò vuol dire che l'amore a Dio trova la sua «verifica» nell'amore al prossimo e questo nell'amore a Dio. Amare Dio è «volere quello che lui vuole», mentre amare il prossimo indica il contenuto di questo suo volere: quello che Dio vuole dall'uomo è l'amore al prossimo. Per cui «amare Dio e il prossimo» significa amare il prossimo perché Dio lo ama e come Dio lo ama, volere per lui quello che lui stesso vuole. La domanda importante diventa allora: cosa vuole Dio per l'uomo?
La risposta a questo interrogativo può essere data attraverso le seguenti tappe:

a) Dio vuole il bene dell'uomo, cioè quella felicità e quella compiutezza di cui abbiamo già parlato e che la Bibbia esprime con termini vari, quali shalom, vita «eterna», «benedizione», «sazietà», ecc. La pagina biblica per eccellenza, che con linguaggio e efficacia insuperabili svela e trascrive il volere divino, è Gen 2 che narra la creazione dell'uomo e la sua collocazione nel giardino dell'eden. Questo «spazio» terrestre splendente di luminosità e di armonia non è la metafora di un mondo altro dall'attuale né l'espressione di un sogno impossibile ma la trascrizione, in linguaggio mitologico, della vocazione umana alla felicità compiuta.
Questa affermazione va presa in tutta la sua radicalità. Non è che Dio abbia voluto l'uomo anche per la felicità. Bisogna dire che Dio ha creato l'uomo solo in vista della felicità. Questo non è uno scopo accanto ad altri, come quando si dice, per es., che Dio ha creato l'uomo per la sua gloria; è l'unico scopo oltre il quale non è possibile andare perché non ce ne sono altri.
Dire che Dio ha voluto l'uomo solo per la sua (dell'uomo) felicità non è un'affermazione innocente ma costituisce il dischiudersi di un orizzonte nuovo che è oltre ed altro da quello umano.
Infatti compiere un gesto che sia esclusivamente centrato sulla felicità dell'altro, senza alcun ritorno sull'io che lo fa, è solo una possibilità divina. La trascendenza di Dio sull'uomo consiste proprio in questo: nel suo essere capace di un gesto motivato non da un suo «bisogno» ma esclusivamente dalla felicità dell'uomo. Così facendo Dio vuole qualcosa che solo lui è in grado di volere, a differenza dell'uomo che in tanto può volere la felicità dell'altro in quanto momento interno alla propria. Per avere un'idea della differenza tra l'amore di Dio e l'amore dell'uomo si pensi alla distanza che intercorre tra il bacio dell'innamorato alla sua ragazza e il bacio di s. Francesco al lebbroso, l'uno compimento dell'eros, l'altro esclusiva volontà di bene.

b) Dio vuole bene dando i beni. Volere il bene dell'altro non si iscrive, per Dio, nell'ordine del desiderio sterile ma in quello del «gesto» fattivo, cioè del gesto creatore. Volere il bene significa - per lui - fornire l'uomo di beni che lo facciano star bene. È questo il senso della creazione «del cielo e della terra»: l'insieme dei beni da Dio posti in essere per la felicità dell'uomo, per farlo vivere e renderlo felice. La riflessione teologica, tematizzando lo scopo della creazione, ha pensato di trovarlo nella gloria di Dio. Come dire: se Dio ha creato il mondo lo ha creato per sé; se l'uomo ne fruisce, è indirettamente e per partecipazione, allo stesso modo di un povero che è ospite nella casa di un ricco, dove è chiaro che questa è stata voluta dal ricco per se stesso, per la sua «gioia», e solo secondariamente per l'eventuale povero che vi viene ospitato.
Ma un modo come questo di leggere la creazione biblica è debitore del quadro concettuale ellenistico e non rende giustizia alla sostanza del discorso scritturistico, per il quale la creazione trova il suo télos (scopo) non in Dio ma nell'uomo: voluta esclusivamente per la sua realizzazione. Se è vero che la Bibbia parla a volte della creazione finalizzata alla «gloria» di Dio (cf per es. Is 6,3: «tutta la terra è piena della sua gloria»; Rm 11,36: «Da lui e in vista di lui sono tutte le cose. A lui sia gloria nei secoli»), non va dimenticato che il senso di questa «gloria» è, come già voleva s. Ire-neo, «l'uomo vivente». Dio è glorificato, raggiunge la sua massima"«gloria», dove l'uomo «vive», cioè dove raggiunge la sua misura colma di vita.
Tra tutti i passi biblici, quello che più efficacemente esprime il senso della creazione come dono di Dio all'uomo, per soddisfarne i bisogni e realizzarne i desideri, è il salmo 136 noto, nella tradizione ebraica, come il grande hallel, il salmo della grande lode. In esso Dio viene lodato per le sue «meraviglie» operate nella creazione e nella storia, «meraviglie» sottese dal suo grande amore (il salmo è scandito per ben 26 volte dal ritornello: «perché eterna è la sua misericordia!») e orientate alla soddisfazione di tutti i bisogni. Infatti la grande serie degli interventi divini si conclude con il v. 25 che celebra Dio come colui che «dà il cibo ad ogni vivente». Commentando questo verso la tradizione rabbinica ama far notare che l'intervento di Dio nel «dare da mangiare ad ogni vivente» è messo sullo stesso piano del suo miracoloso intervento nel far attraversare il Mar Rosso ad Israele (v. 13). Ma forse c'è ancora di più, nel senso che il miracolo del Mar Rosso (metafora di ogni azione potente di Dio) non è fine a se stesso né si colloca accanto al miracolo del «dare da mangiare» ma è esso stesso finalizzato a quest'ultimo. Tutto quello che Dio ha fatto e fa (creazione del mondo e rivelazione storica), lo fa per «dare il pane all'uomo» (il pane sta qui come immagine per tutti i bisogni umani). Se questo a noi sembra poco è per il nostro cuore padronale che, murandoci nella logica del dovuto, ci rende perfino incapaci di cogliere la novità della logica del gratuito.

c) Dio dona i beni all'uomo attraverso l'altro uomo. Si potrebbe pensare che Dio provveda direttamente ai bisogni dell'uomo, allo stesso modo con cui provvede agli esseri vegetali e animali attraverso lo spontaneo finalismo di determinati meccanismi. Certo, teoricamente Dio avrebbe potuto creare un mondo di uomini in cui la circolazione dei beni fosse stata garantita «automaticamente», sul modello delle radici che «cercano» l'acqua o su quello dell'istinto che spinge la cerva a sfamare il suo cerbiatto. Ma non è così per la tradizione ebraico-cristiana, essendo l'uomo non parte della natura ma partner di Dio di fronte ad essa. Ciò vuol dire che Dio, creando i beni per l'uomo, non li distribuisce lui direttamente né ne garantisce la circolazione deterministicamente ma li affida alla responsabilità reciproca. A proposito può servire l'analogia della torta preparata dalla mamma per la gioia della famiglia. Una volta pronta essa è per tutti, capace di rispondere al bisognodi ciascuno. Ma ad una condizione: che i commensali ne rispettino lo statuto di dono, il dinamismo interno che la costituisce come tale. In altri termini: a condizione che ciascuno sposi la stessa intenzionalità ad essa sottesa, volendo per ciascuno liberamente lo stesso bene di chi l'ha fatta, pensata e voluta.
Questo principio, secondo il quale i beni creati da Dio per il piacere degli uomini sono messi nelle mani degli uomini e affidati alla loro responsabilità, è conosciuto nella Bibbia come principio dell'alleanza. Secondo tale principio Dio associa Israele al suo progetto creatore, dicendogli «io sarò il tuo Dio e tu sarai il mio popolo», io sarò il tuo «signore» e tu sarai il mio «servitore». La «signoria» di Dio su Israele (e, per estensione, su ogni popolo e su ogni persona) è il suo progetto di amore (volere il bene degli uomini attraverso i beni creati), mentre il «servizio» di Israele a Dio è l'acconsentimento attivo al suo progetto di amore, volendo quello che lui stesso vuole.
Secondo questo principio il mondo riuscito, che è la felicità umana, è l'opera nè di Dio da solo né dell'uomo da solo ma dell'uno e dell'altro, dell'amore donante del primo e dell'amore acconsenziente del secondo, della benevolenza divina che crea e di quella umana che vi obbedisce. Da questo punto di vista l'uomo è, per la Bibbia, il con-creatore di Dio, il suo «luogotenente» dal quale dipendono le sorti del mondo, il suo essere edenico o il suo trasformarsi in inferno.

d) Amare l'uomo è imitare Dio. Se, per il principio di alleanza, Dio associa a sé l'uomo chiedendogli di volere quello che lui stesso vuole, amare l'uomo vuol dire allora imitare Dio. Il tema della «imitazione» di Dio è molto sviluppato nella tradizione ebraica e il suo testo fondante resta Gen 1,27 secondo cui Dio crea «l'uomo a sua immagine e somiglianza». Nella tradizione cristiana questo versetto ha dato luogo a difficili interpretazioni di carattere spesso metafisico, preoccupate di definire l'essenza dell'uomo. Diverso è il senso che esso ha avuto e ha nella tradizione ebraica, per la quale l'importante non è sapere chi è Dio ma ciò che lui fa. Per cui l'«essere ad immagine» sua vuol dire agire come lui, volere concretamente quello che lui vuole.
Questa dimensione «imitativa» dell'uomo è espressa molto efficacemente dal seguente celebre midrash: «Rabbi Chama, figlio di rabbi Chanina, insegnava: che cosa significa il testo del Dt 13,5: `seguirete il Signore vostro Dio?'. Può un uomo seguire Dio di cui sta scritto che è un 'fuoco divoratore?' (Dt 4,24). 'Seguire il Signore' può quindi significare soltanto imitare le sue qualità. Così, come egli veste gli ignudi - poiché sta scritto (Gen 3,21): 'il Signore Iddio fece ad Adamo e alla sua donna tuniche di pelli e li vestì' -vesti anche tu gli ignudi. Il Santo, benedetto sia, visitava gli ammalati... Così anche tu devi visitare gli ammalati. Il Santo, benedetto sia, consolava i sofferenti... Così consola anche tu i sofferenti. Il Santo, benedetto sia, ha seppellito i morti... Così dài anche tu sepoltura ai morti».
Ugualmente in chiave di imitazione vengono interpretati Es 3,27 e Es 34,6-7, quest'ultimo è il testo che enumera tutti gli attributi divini.

e) Imitare Dio è fare la giustizia. L'imitazione non va intesa come riproduzione «formale» del comportamento divino ma come adesione interna al suo volere. «Imitare» Dio non vuol dire, in primo luogo, agire ma in ogni agire essere mossi dal suo stesso volere che è volere il bene. «Imitatore» di Dio è chi ama l'uomo allo stesso modo con cui lo ama lui, che posa su ognuno uno sguardo motivato esclusivamente dal bene. Questo tipo di agire, mosso dal bene dell'altro piuttosto che dal proprio, è chiamato dalla Bibbia giustizia, ed è l'agire specifico di Dio offerto all'uomo come imperativo. Per capire l'importanza della giustizia nella Bibbia - e nella nostra vita personale e sociale - bisogna guardarsi dall'identificarla con quella distributiva o punitiva (accezioni seconde e derivate) e coglierla come l'oggettivazione dell'«è giusto», dove le cose sono sottratte alle cure e agli interessi degli ego - individuali o di gruppo - e splendono della loro verità originaria. Sappiamo che per la Bibbia la verità delle cose è il loro essere donate, il loro essere state volute e create per il piacere e la gioia dell'uomo. Vivere nella giustizia è vivere secondo questa logica, è entrare nell'orizzonte della gratuità, che è la verità dell'essere e l'imperativo dell'agire.
Per questo nella Bibbia la giustizia è il valore per eccellenza, l'unico che garantisce la salvezza, che impedisce la morte e che la riscatta definitivamente, secondo un suggestivo racconto talmudico:

«Rabbi Jehuda soleva dire:
Nel mondo sono state create dieci cose dure.
La montagna è dura. Ma il ferro può spaccarla.
Il ferro è duro. Ma il fuoco può piegarlo.
Il fuoco è duro. Ma l'acqua può estinguerlo.
L'acqua è dura. Ma le nuvole la portano.
Le nuvole sono dure. Ma il vento può cacciarle.
Il vento è duro. Ma il corpo umano può resistergli.
Il corpo umano è duro. Ma la paura può spezzarlo.
La paura è dura. Ma il vino può bandirla.
Il vino è duro. Ma il sonno può vincerlo.
Ma la morte è più forte di ogni cosa.
Tuttavia 'la giustizia libera dalla morte' (Pr 10,2)»
(Dal Talmud babilonese, Bava Batra 10a).

La giustizia è l'orizzonte dove si incontrano l'amore a Dio e l'amore al prossimo e dove, grazie all'uno e all'altro, fiorisce l'amore alla vita. Questa diviene qualitativamente bella e dispiega il suo senso se vissuta «amando Dio» e «amando il prossimo». Essa diviene figura di «pace», cioè «compiuta», solo entro il circuito della benevolenza divina accolta e assecondata.
«Effetto della giustizia sarà la pace» (Is 32,16): cioè la vita abitata dal senso (la pace) matura sul terreno dell'amore a Dio e dell'amore ai fratelli (la giustizia).

(Rassegna di Teologia 31 (1990) 374-387)