Elementi per una educazione politica alla pace

Inserito in NPG annata 1982.

 

Giovanni Bianchi

(NPG 1982-04-27)

Come un'onda lunga che copre e si ritrae la pace torna, ad ogni svolta della storia, ad essere la questione nodale, il centro nevralgico di ogni progetto umano che si proietta nel futuro e di ogni possibilità di convivenza nel presente. Così era stato - per restare agli ultimi trent'anni - all'epoca della guerra fredda con la costituzione dei blocchi (sovietico e americano) e dell'equilibrio tra i blocchi in seguito agli accordi di Yalta; così era stato all'inizio degli anni sessanta, con il disgelo internazionale imperniato attorno alle tre grandi figure di papa Giovanni XXIII, di Kennedy, di Krusciov e, in Italia, con l'apertura della stagione del dialogo tra cattolici e comunisti originata proprio dall'urgenza di fronteggiare le minacce di una guerra atomica che avrebbe segnato la fine dell'umanità; così era stato, infine, a cavallo degli anni 1967-72, in particolare di fronte al tentativo di genocidio attuato dagli Stati Uniti in Vietnam, ma anche di fronte all'instabilità guerreggiata del Medio Oriente e all'insorgere di conflitti regionali nelle aree desolate del Terzo Mondo.
Quasi una sorta di festino generazionale per tutte quelle fasce giovanili che, non avendo conosciuto il trauma della guerra, devono tuttavia fare i conti con la spada di Damocle della minaccia di distruzione totale che all'epoca del secondo conflitto mondiale era ancora sconosciuta. Hiroshima e Nagasaki ne costituivano soltanto l'oscuro presagio. Ed oggi, ogni volta che l'esito apocalittico si ripresenta o viene percepito nel suo volto di possibilità reale, ecco rinascere, in particolare tra i giovani e i giovanissimi, l'istinto di sopravvivenza, la presa d'atto di una paura incombente, la dichiarazione del proprio diritto di avere un futuro.
Per questo la pace è la questione che più coinvolge, l'unica oggi in grado di spingere nelle piazze di Roma e di Milano, di Londra e di Bonn, di Berlino est e di Bucarest, migliaia e migliaia di giovani; perché in essa si addensa la paura della morte e il desiderio di vita, il senso della perdita e l'aspirazione alla pienezza, come pure l'intreccio tra dimensione pubblica e dimensione privata, tra voglia di cambiare e possibilità di autorealizzarsi.
La pace non è dunque un problema tra altri problemi: è la questione attorno alla quale si riannodano i problemi oggi più gravi. Non può essere perciò ridotta a slogan, col rischio di diventare una moda. Deve essere indicazione profetica, ma non può restare soltanto indicazione: la pace deve farsi ipotesi politica, elaborazione culturale e politica.
Ciò impone di lasciare le nostre «invadenti certezze» per il gusto tutto pascaliano di «lavorare per l'incerto», non per perpetuare un'atmosfera permanente di crisi, quanto piuttosto per conferire reale corposità alle possibilità racchiuse oggi negli uomini e nella società. È necessario scommettere sull'incerto non perché sia bello navigare nell'incertezza, ma perché le possibilità di pace che stanno nel reale divengano realtà.
Si tratta allora di passare in rassegna i molti volti che la questione della pace oggi assume proprio con l'atteggiamento, tra il profetico e il politico, di chi non ha certezze storiche da difendere, ma cerca piuttosto di costruire un itinerario di cambiamento e di pace.

LA PACE, UN PROBLEMA COMPLESSO

Impostato così il problema è in grado di coniugare spinta profetica e necessità della fase attuale, tutta contrassegnata dalle incognite di un trapasso d'epoca. Dove la spinta profetica può essere letta in termini di promozione di valori e le necessità della fase attuale in termini di trasformazioni. Si tratta infatti di andare oltre sia ad una predica sui valori che rischia l'astrattezza, sia all'inno alla modernizzazione - che si eleva oggi da più parti - intesa come assenza di valori.
Il problema è piuttosto come coniugare valori e trasformazioni, proposta ideale e reale capacità di cambiamento.
È un connubio possibile?
Max Weber in un testo significativo fin dal titolo, La politica come professione, osservava che il politico non può scegliere senza valori, siano essi sociali, etici o culturali, o sia, al limite, la scelta di non avere valori, che è per Weber pur sempre una fede. E ciò da una parte perché attraverso il valore è possibile cogliere aspetti della realtà altrimenti insondabili; dall'altra perché il tenere assieme valori e trasformazioni è la vera questione epocale e morale con la quale facciamo oggi i conti, come pure la vera questione politica di una democrazia governante. Il problema oggi non è infatti, almeno in Italia, assicurare la governabilità del Paese comunque essa sia, ma piuttosto coniugare democrazia e trasformazioni, capacità di governo e ricchezza di soggetti, e quindi anche di una pacifica conflittualità sociale, dal momento che la democrazia, diversamente dalle dittature, è il luogo in cui le diversità e i conflitti sono - o dovrebbero essere - legittimati.
Tutto ciò induce a constatare come la pace sia una questione complessa, difficilmente riducibile ad un unico aspetto o sintetizzabile in proposte univoche; come la pace sia quindi, già per se stessa, luogo della complessità, rifiuto di tutto condurre entro schemi pre-confezionati, accettazione e interscambio tra differenze e diverse soggettività (persone, gruppi, partiti, classi, nazioni).
Perché ogni popolo, ogni comunità, ogni cultura ha sempre attribuito un significato diverso alla pace. «La pace - scrive Ivan Illich sul numero 11/12 di Bozze 81 - è altrettanto vernacolare che il linguaggio», è legata cioè a condizioni precise sia storiche che antropologiche, è imprescindibile dal contesto che scava, ad esempio, un abisso profondo tra il significato che, all'epoca della nascita di Gesù, aveva la pace per un ebreo (shalom, ossia pienezza, benessere, vita) e per un romano (pax, cioè legge e ordine).

Un problema di comunicazione interpersonale e interculturale

Per questo la pace è affrontabile anche come un problema di comunicazione e di informazione; perché attraverso una corretta conoscenza possono diminuire le distanze tra gli uomini, emergere le peculiarità di ciascuno, diventare ricchezza per tutti ciò che è disperso o nascosto. Non è un caso che su questi aspetti insista anche papa Giovanni Paolo II nel messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace del 1° gennaio 1982.
La guerra tende infatti a rendere le culture simili; la pace è la condizione per la quale ciascuna cultura fiorisce nel proprio incomparabile modo. La guerra macina diversità e annulla ogni cosa sotto l'uso indifferenziato delle armi. La pace invece non può essere esportata. «Quando la ricerca della pace - nota ancora Illich - trascura questa elementare verità etnologica», ossia l'imprescindibile unicità di ogni popolo, «si trasforma in una tecnologia per mantenere la pace». Ma la pace, a differenza della guerra, non è riducibile alle ragioni di scambio, perché è un bene così grande e insostituibile per ciascuna persona da non poter essere contrattata. Quando si contratta la pace non si fa altro in realtà che pattuire una sospensione della guerra, una tregua nello scambio e nell'uso incessante delle armi. Ma la pace non è assenza di conflitti. È molto di più. Ogni pacificazione raggiunta rimanda a una pienezza sempre maggiore, a un'umanità più realizzata, a un compimento di cui avvertiamo sempre la mancanza: la pace spiazza così ogni accomodamento ed ogni ordine apparente.

Il caso Polonia e la pace

Si pensi agli «spiazzamenti» prodotti dal golpe polacco.
La posizione pro-sovietica, che ha riscontrato un assai scarso consenso nella mobilitazione diffusa contro i missili, ha subito un ulteriore colpo dal riconoscimento della fine degli effetti e del mito della Rivoluzione d'ottobre, a seguito di un lungo itinerario di svelamento. Le prime e più sensibili antenne della crisi e dell'esaurimento del mito e degli effetti della rivoluzione leninista si collocano nella sinistra, in una o più delle sue aree marginali ed estreme. «Operaisti» ed «autonomi» sono - e non di recente - i primi ad avvedersene. Essi spostano studi ed accenti dall'ottobre rosso al New Deal statunitense, al parallelogramma delle forze negli anni trenta in America del Nord, alla composizione di classe degli operai americani.
È del 1963 il libro di Mario Tronti su Operai e capitale, che non a caso titola l'ultimo capitolo «Marx a Detroit», non fallendo di un centimetro il bersaglio e cogliendo nella metafora di Detroit l'esaurirsi di una fase «sintetica» del movimento operaio, ben rappresentata dalla città dell'automobile, la più letteralmente distrutta e pericolosa tra le metropoli statunitensi.
Gli fa eco Toni Negri (ed anche in questo approccio si rivela una distanza culturale fin dalle origini del «7 aprile» rispetto alle «filo-sovietiche» bierre) la cui elaborazione è tutta interna e antesignana del discorso sulla metropoli, attenta quant'altre mai al New Deal, alla composizione di classe e ai comportamenti dell'operaio americano, all'americanismo in generale.
E del resto, chi ha tradotto e importato nell'immediato dopoguerra la letteratura statunitense se non la sinistra di Pavese e Vittorini?
Ma risultano spiazzate anche le posizioni rigidamente anti-sovietiche, messe in questione dal problema di mantenere rapporti con l'URSS al fine di assicurare approvvigionamenti economici alla Polonia, ma a propria volta preoccupate di garantirsi la fornitura di metano attraverso i gasdotti che partono dalla Russia.
E spiazzate sono pure, per altro verso, le posizioni annessionistiche (e integraliste) sul piano religioso che tentavano una riproposizione della Polonia in una situazione profondamente diversa quale quella italiana.
Non tenendo conto che il problema polacco è politico e interroga, proprio in nome della pace, questa convenzione della politica nella quale viviamo, e ne postula una diversa. La situazione della Polonia va inquadrata infatti all'interno della logica bipolare dei blocchi contrapposti che possono reggersi soltanto se fortemente coesi al proprio interno. Ma questo equilibrio, che evidenzia la questione della pace come pregiudiziale per ogni futuro, non è altro che un equilibrio del terrore atomico nato dagli accordi di Yalta ai quali si vuole attribuire il «merito» di aver preservato la grande pace mondiale, un «merito» contrassegnato in realtà dallo svolgimento di centinaia di sanguinosi conflitti locali. Tanto è vero che il famoso politologo Karl Schmitt ha potuto affermare che la terza guerra mondiale è già cominciata, proprio per il proliferare di fenomeni bellici come guerre locali, guerriglia, terrorismo.
Cosa comporta del resto questo equilibrio bipolare del terrore atomico? Gli effetti più evidenti sono il ristagno e il blocco della dinamica democratica. L'equilibrio viene concepito come bene supremo e quindi nulla di nuovo deve muoversi al di là e al di qua del confine. Il che significa, in altri termini, niente partiti comunisti al governo in occidente (a parte l'eccezione francese, dovuta del resto alla tradizionale autonomia di Parigi) e niente nuove soggettività in dialettica con il partito unico in Oriente (l'unica eccezione, rappresentata dal caso di Solidarnosc è stata subito eliminata in quanto luogo di organizzazione della società civile). È rispetto a queste logiche immobilizzanti che si pone la necessità di analizzare anche le motivazioni di carattere internazionale del terrorismo italiano. Aldo Moro non è morto incidentalmente: la sua inventiva politica - pur in un temperamento così cauto - forzava i confini dei due mondi artificialmente separati e delle loro rigide ideologie.

UNA CULTURA DI PACE

Qui si misura la capacità di pensare e di sperimentare una cultura di pace, che fori i limiti guerreschi degli equilibri internazionali e delle conseguenti rigidità interne alle singole nazioni; e che nel contempo, sostanziando un nuovo stile di vita, crei una convivenza civile fondata non soltanto sul disarmo (degli eserciti come delle coscienze), ma anche sul rifiuto della violenza come strumento di risoluzione dei problemi sociali, economici, politici.
La costruzione di una tale cultura non è certo facile perché l'abitudine consolidata va tutta nell'altra direzione, e oggi vediamo sempre più diffondersi una violenza distruttiva e autodistruttiva in fasce giovanili, ma anche tra gli adulti, se si pensa soltanto a come il nome della politica stia diventando sempre più nel nostro Paese, la prepotenza.

La costruzione di «aree di fiducia»

Quali dunque le possibili basi di una cultura della pace?
Si tratta in primo luogo di ricollocare al punto giusto il valore della politica. Ma - come ha puntualizzato Domenico Rosati nella relazione introduttiva al XV Congresso nazionale delle Acli, svoltosi a Bari nel dicembre '81 - non la politica «come idolo in un mondo secolarizzato, con la riduzione di ogni dimensione a politica: ma la politica come arte del possibile, intendendo questa definizione non come legittimazione del pragmatismo e del rifiuto della morale, ma come scienza della costruzione della promozione umana possibile su questa terra; ciò, appunto, che diviene possibile solo se gli uomini impegnano alla sua costruzione tutte le loro energie, competenze, capacità: tutta la loro sapienza umana».
A partire da questa consapevolezza, e proprio di fronte alle follie della corsa al riarmo e dell'inasprirsi dell'uso della forza nei rapporti internazionali, si ripropone con un'attualità sorprendente l'insegnamento della Pacem in terris di Giovanni XXIII: l'enciclica della distinzione tra ideologie e movimenti storici, della disinzione tra errore e errante; l'enciclica che esortava a partire, nel dialogo e nel confronto, da ciò che unisce la comune «natura umana» piuttosto che da ciò che divide. E oggi appare sempre più urgente costruire «aree di fiducia», nelle quali persone e gruppi possano ritrovarsi con tutte le proprie peculiarità sapendosi accettati per ciò che sono in un clima di ascolto reciproco, di comunicazione autentica, di sincerità, di mutuo rispetto anche nel confronto più duro.
Cultura della pace vuol dire allora - ed è questo il senso della costruzione di aree di fiducia - ritenere che la pace è possibile e che, appunto, questa possibilità si realizza attraverso la strada della politica.

La democrazia come metodo politico non-violento

Ma c'è solo un tipo di politica che affida a meccanismi diversi dalla coercizione fisica o morale la risoluzione dei conflitti: ed è la democrazia, la quale accetta e propone che sia la maggioranza a decidere e non la forza. È la tanto imperfetta e criticata - anche da parte cattolica - legge del numero. Ma la democrazia è lenta, dispersiva, aperta alle deviazioni e agli abusi. Offre sbocchi angusti alle pretese dei nostri ideali. Esige anzi una scelta pregiudiziale di compromesso: la rinuncia a far valere ideali ed interessi che non trovino nel tempo dato il consenso della maggioranza.
In ogni caso la democrazia resta l'unico metodo politico che esclude programmaticamente la violenza dall'ambito del proprio orizzonte operativo. Il ragionamento può, per usare ancora le parole di Rosati, così definirsi: «la politica è l'arte del possibile, se la pace è possibile, la politica deve diventare l'arte della pace; e se la democrazia è l'unico metodo politico non-violento, l'impegno di costruzione della pace presuppone l'impegno della costruzione della democrazia».
Ecco un terreno concreto su cui verificare una cultura di pace.
Ma ci si può chiedere se non sia una forzatura ridurre la democrazia alla costruzione della cultura della pace. È utile ricordare allora che la democrazia non esiste mai allo stato compiuto. Essa va continuamente riconquistata. E in questa fase di trapasso d'epoca essa esige che la politica sia ripensata alle proprie radici.

RIPENSARE LA POLITICA

Oggi rivela tutta la propria insufficienza la politica moderna fondata sulla categoria opposizionale amico/nemico che la rende, nell'abitudine a definirsi soltanto definendo l'avversario e attribuendo ad esso tutto il negativo, una politica di guerra.
Non si tratta infatti di introdurre un supplemento d'anima pacifica nello statuto della politica moderna, perché, rovesciando il celebre assioma di Von Clausewitz, può ben dirsi che la politica appare oggi una continuazione della guerra con altri mezzi. E il terrorismo, come forma estrema della politica, può ben apparire come guerra non guerreggiata.
È del resto la logica del terrore instaurata a Yalta che chiede questa politica, naturalmente correlata dall'esercizio intermittente di «guerre regionali», propric perché il terrore non appaia «tigre di carta». Il cannone allora deve continuare a tuonare. E in trent'anni di «pace» si è fatto sentire in Corea, in Ungheria, in Al. geria, in Vietnam, nel Medio Oriente, in Cecoslovacchia, in Angola, in Cile, in Afghanistan, in Iran e Irak, in El Salvador e in molti altri punti del globo.
Ma oggi la folle escalation della corsa agli armamenti evidenzia non tanto una crisi della distensione mondiale, dal momento che i rapporti economici e culturali continuano anche tra nazioni nemiche (e gli scambi di prodotti tra USA e URSS sono continuati anche nel momento nevralgico dell'invasione dell'Afghanistan) quanto piuttosto a partire dal 1979, del bipolarismo. Da una parte si pone la strategia statunitense volta all'instaurazione di un unipolarismo con la riduzione del. l'Unione Sovietica a potenza regionale, accerchiata dalle 2.500 basi militari americane sparse per il mondo. Dall'altra parte si pongono le basi per un multipolari. smo che pone, accanto all'asse ideologico Est/Ovest, l'asse Nord/Sud e oggi anche l'asse Ovest/Ovest (Europa/Stati Uniti).

Il nodo cruciale: il rapporto Nord/Sud

In ogni caso il vero problema dell'assetto internazionale pare contrassegnato da rapporto tra paesi ricchi dell'emisfero settentrionale industrializzato e nuovi po• poli che lottano per avere dignità di storia. Il Sud del mondo (si pensi a colossi co. me Cina e India) marcia ben oltre le prospettive di un generico riscatto terzomon• dista. Tanto più che il vero nodo dello scontro internazionale è oggi rappresenta. to dal controllo delle fonti di energia e dalla distribuzione delle risorse. La guerre si ostenta, in molti casi, come politica della fame. E pare questo del resto l'esitc tragico di una situazione in cui 800 milioni di esseri umani vivono al di sotto della soglia della povertà assoluta; in cui il 25% della popolazione mondiale che vivi nei paesi industrializzati detiene 1'80% del reddito mondiale, consuma il 70% d tutte le risorse disponibili e concentra nelle proprie mani il 90% della produzione industriale; e in cui, d'altro canto, la spesa mondiale per gli armamenti super ogni anno i 500 miliardi di dollari (seicentomila miliardi di lire).
«Con il costo di un missile intercontinentale - scrive a questo proposito Indire Gandhi - si potrebbero piantare 200 milioni di alberi, irrigare un milione di etta. ri, dar da mangiare a 50 milioni di bambini malnutriti nei Paesi in via di sviluppo acquistare un milione di tonnellate di fertilizzanti, un milione di impianti per 12 produzione di biogas, 65mila centri sanitari e 34 mila scuole».
In questo contesto, proprio perché i due blocchi si sentono minacciati e rafforza no il proprio potenziale bellico e il proprio potere nelle rispettive aree di influen za, venendo ai ferri corti nelle zone ancora «neutre» del globo, cresce la paura Tanto più che si sta sempre più prendendo coscienza che «l'Alleanza a cui appar teniamo - come osserva Raniero La Valle sul numero 11/12 di Bozze 81 - noi è principalmente la scelta di un campo, l'elezione di un amico, l'impegno di fe deltà con gli alleati, ma è diventata soprattutto l'obbligo di identificazione di ui nemico, il dovere di accettarne l'attribuzione come nemico, per ora e per sempre e l'impegno di concorrere a programmare la distruzione».
E la paura, non il coraggio - nota Ferrero, un autore che non è mai stato di mo da leggere e ancor meno meditare - è consigliera di guerra; essa è fondamento del potere e delle sue iniziative. È la paura ideologica che scatenando la «guerra fredda», produce, a partire dal '46, un'impennata dei bilanci militari nei blocch contrapposti che ridimensiona l'immagine dell'apparato bellico della Germani; nazista.

Un nuovo itinerario di pace fondato sull'uguaglianza dei popoli

E oggi la paura - alimentata nel nostro Paese da una sequela ininterrotta di «politiche d'allarme» che pongono l'attenzione ansiosa della gente su un problema per poi decidere indisturbato su altri - funziona da acceleratore del riarmo e dell'irrigidimento ideologico, producendo una distorsione nelle politiche nazionali. Anzi, non esiste forse più una politica nazionale definita, perché, al di là del velo ideologico artificiosamente steso, non esiste più la politica estera bipolare fin qui conosciuta. Ideologie deputate a far blocco per difendere dall'avversario esterno non interpretano infatti più credibilmente le situazioni reali. I conflitti che oppongono gli stati - e qui trova ragione proprio la recrudescenza ideologica aperta dalla politica di Reagan - sono sempre meno ideologici.
Ma l'arcano non va svelato.
Rivelare le ragioni reali dei conflitti internazionali (il controllo dei mercati, delle fonti energetiche, delle risorse) significa rivelare che la politica che regge gli attuali equilibri è una politica di guerra, e che la costruzione della pace comporta una ridefinizione della politica e quindi degli attuali equilibri. Il problema non è infatti restaurare una pace, ma costruire un nuovo itinerario di pace. La guerra è istituzione, la pace ancora no (i trattati di pace sono dipendenti dall'istituzione-guerra). E la guerra ascrive a sé, in quanto istituzione, la logica dell'equilibrio fin qui realizzato e dello sviluppo. Per questo il nome della pace è un nuovo sviluppo fondato sulla giustizia e sull'uguaglianza tra i popoli. Un nuovo sviluppo in cui l'Europa è chiamata a giocare un ruolo diverso, senza più oscillare tra blocco ideologico e mera espressione geografica. Di qui la necessità di una politica -meglio, di una cultura politica - che non dorma sulla fiducia di una razionalità di liberazione inscritta nella storia, né assegni agli equilibri militari la propria unica possibilità di sopravvivenza.

Una condizione diffusa di incoscienza

L'uomo ha superato una soglia di non-ritorno. Questo il fatto. Ma la sua coscienza non appare oggi adeguata al fatto. La sua è incoscienza o anche falsa coscienza, fino alla manipolazione delle menti perseguita attraverso il mastodontico apparato dei mezzi di comunicazione. E allora si tratta di andare oltre l'incoscienza degli uomini in generale circa il pericolo di un olocausto totale; oltre l'incoscienza degli europei, del ruolo che essi - 450 milioni di uomini «non nucleari», ma influenti sul piano economico e culturale - sono chiamati a svolgere sul piano internazionale; oltre l'incoscienza degli italiani circa modalità del persistere, al fondo di numerose manifestazioni di violenza, di un non letto intreccio di antifascismo e di fascismo e dell'opportunità di decodificare taluni settori del postfascismo; oltre l'incoscienza del nesso finora indissolubile che lega storicamente (nella storia occidentale) il diritto alla forza. Un nesso che probabilmente non è estraneo alle dottrine che hanno legittimato la «guerra giusta» in epoca moderna. «La giustizia è soggetta a contestazioni, la forza è del tutto riconoscibile e senza contestazioni. Così non si è potuto dare la forza alla giustizia, perché la forza ha contraddetto la giustizia e ha detto che era essa giusta. E così non potendosi ottenere che ciò che è giusto fosse forte si è ottenuto che ciò che è forte fosse giusto». Sono parole di Pascal (Pensieri, frammento n. 298).
La ragione moderna si è quindi incaricata di sancire questo nesso, riconoscendo come ragionevole, e quindi vero, ciò che era forte, ed in base a questo principio essa ha legiferato e punito.
Ma in questa grande tradizione culturale, segnata da un destino di violenza, si è inserito un elemento di superamento dall'interno dell'istituto della guerra. Perch( la guerra include nella propria distruttività anche la capacità di distruggere s( stessa.
Ciò si fa evidente con il superamento avvenuto della soglia atomica, che compor ta il rischio della distruzione totale così come il rischio di una guerra «per erro re».
È stato Franco Fornari (Psicoanalisi della guerra e Psicoanalisi della guerre atomica) a chiarire che la situazione atomica porta con sé la crisi della guerra perché ciascun contendente sa che l'uccisione del nemico corrisponde alla propria morte. La logica non può essere più mors tua vita mea. L'amico e il nemico noi sono più antitetici. La sopravvivenza dell'uno, in condizione atomica, non corri sponde più alla sconfitta dell'altro. L'uomo è oggi chiamato a rappresentati l'aggressione nei confronti del nemico senza compierla realmente, perché il su( compimento comporterebbe la propria morte. Anche se è da notare che i rapid progressi tecnologici degli armamenti nucleari, in termini di rapidità, precisione impossibilità di intercettazione, potrebbero porre le condizioni per una guern atomica, o meglio per guerre atomiche locali, con la distruzione di uno solo de contendenti.
In ogni caso, proprio perché la paura se è vero che può portare ad una crescita de gli armamenti è anche vero d'altro canto che può indurre a limitarne l'uso, un iti nerario possibile anche se faticoso si apre davanti a noi.

ELEMENTI DI UN ITINERARIO DI EDUCAZIONE ALLA PACE

Si è così già entrati nel campo aperto dell'educazione alla pace. Alla fin fine L questione della pace si riconnette infatti alla formazione di personalità mature capaci di vivere e di progettarsi in rapporto con altri in maniera gratuita e solida le, senza la paura e la dipendenza che portano a distruggere la propria vita e a( eliminare quella degli altri. Non è certo un itinerario facile. D'altronde il pensar nuovi ambiti di convivenza comporta che si pensino nello stesso tempo anche persone nuove.
C'è guerra infatti anche nell'animo umano. Ma se la pace dono di Dio nasce dal l'intimo del cuore, è in definitiva un atteggiamento interiore, essa è educata o diseducata tuttavia dal contesto sociale e dalle strutture di convivenza in cui viviamo: la famiglia come la scuola, la professione come il partito, le comunicazioni d massa come la Chiesa locale.
È perciò indispensabile elaborare una cultura di pace che operi anche nel campi dell'istruzione, a partire da quella elementare dove si inizia ad inculcare il valore preminente della virtù bellica, lavorando - come si legge nella Dichiarazione di pace diffusa alla festa nazionale di Gioventù Aclista nel settembre '81 - per la «desacralizzazione del culto del valore militare come virtù civile più alta».

La creazione di «centri per la pace»

Ciò può avvenire già attraverso una purificazione del linguaggio quotidiano, soprattutto di quello politico, che è impregnato di terminologia bellica, ma anche soprattutto costruendo ambiti di rapporti in cui si sperimenti l'ascolto, la collaborazione, la condivisione. Si tratta cioè di realizzare, a livello giovanile in parti colare, centri per la pace, in cui possano essere sperimentati questi valori. Ceni] che possono raccogliere conoscenze e diffondere informazioni più precise e «v( re» sulle questioni che si riconnettono alla pace: sugli armamenti come sulla distribuzione delle risorse, sulle strategie politiche internazionali come sul problema ecologico. Diffondendo nel contempo l'abitudine alla discussione, all'uso della ragione, ad una politica di pace, che non si definisca cioè in negativo rispetto ad un nemico più o meno apparente, ma che si ponga come raccordo tra valori e cambiamento. La politica mai come oggi si è rivelata infatti alternativa alla guerra per differenza di metodi e di risultati possibili.
È necessario perciò andare oltre un certo tipo di pacifismo tradizionale e un po' naif, fatto di sentimentalismo e di ideali astratti. La spinta profetica, che oggi non chiede di negare il pericolo della tragedia apocalittica, ma di dare senso alla costruzione della pace in un mondo di guerra, si deve incontrare con la capacità politica di fare i passi giusti. Persona matura è infatti quella che sa riunire in sé tensione ideale e operatività concreta. Se il tema della pace non viene preso sul serio, anche con la competenza tecnica che esso richiede, «avremo fallito - si può concludere con Ruggero Orfei - anche come cristiani. E ciò perché il Vangelo è soprattutto annuncio di pace. La guerra è la manifestazione estrema di un ateismo di massa che nega Dio e la buona novella».