(NPG 1981-07-37)
Introduzione
Non si può oggi parlare di animatore senza fare riferimento a un gruppo, con le sue dinamiche complesse e la sua collocazione dentro un piano organico di intervento.
Solo che del gruppo si potrebbe parlare tanto senza arrivare a niente.
In questo capitolo volutamente abbracciamo il tema per mettere l'animatore sull'avviso che qui deve approfondire di più. Esprimiamo le cose essenziali: che cosa è un gruppo, che tipo di cammino può fare, che significa favorire la comunicazione, quali atteggiamenti assume l'animatore? Soltanto queste domande possono costituire un corso per animatori.
È più importante a questo riguardo esperi-
mentare seriamente in un gruppo e in seguito rivedere il proprio modo di porsi. Queste pagine hanno la pretesa di avviare soltanto l'esperienza e di stimolare l'animatore su alcuni problemi: la comunicazione, la partecipazione nel gruppo, gli atteggiamenti.
In primo luogo un gruppo è luogo di comunicazione tra i membri. Ma quale comunicazione è corretta? A quali condizioni? Un gruppo dice, in secondo luogo, partecipazione di tutti alla gestione delle attività e prima ancora delle decisioni sulle attività. Come attivarla?
Comunicazione e partecipazione rimandano nuovamente alla figura dell'animatore, sia come persona ( lo «stile» ) che come gruppo di animatori entro una comunità ed una società.
Definizione di gruppo e sue caratteristiche
Perché esista un gruppo non è sufficiente una pluralità di persone fisicamente insieme. Infatti, quando tra gli individui mancano interazioni e comunicazione reciproca, si può parlare solo di aggregato sociale (una folla, un vicinato anonimo...).
Cos'è gruppo?
Definiamo quindi gruppo un insieme dinamico costituito da individui che si percepiscono individualmente come più o meno interdipendenti per qualche aspetto. Ciò che in primo luogo caratterizza il gruppo è appunto la presenza di reciproche interazioni, cioè di scambi tra membri del gruppo oppure tra un membro e il gruppo intero.
Quando ci sono poche comunicazioni, lunghi silenzi, iniziative che cadono nel vuoto, il gruppo quasi non esiste.
In sostanza l'interazione è l'unità di misura della partecipazione. Quindi, per l'animatore, aumentare la partecipazione significa provocare le interazioni; ciò tuttavia non equivale a moltiplicare i piccoli dialoghi tra se stesso e ogni singolo partecipante del gruppo, bensì a intensificare gli scambi dei membri tra loro.
Ogni persona vive quotidianamente in una serie di «piccoli gruppi», nella famiglia, nella scuola, nel lavoro, e in parrocchia. Fare gruppo è nell'esperienza naturale di ciascuno. L'attenzione all'uomo e alle sue espressioni più spontanee, fanno del gruppo un momento degno di essere valorizzato in ogni ambiente e quindi anche nella parrocchia, dove può diventare esperienza ecclesiale.
Perché si fa gruppo?
Si può fare gruppo per tanti motivi: per avere degli amici, per far qualcosa assieme, perché non si sa dove andare... Esiste però una serie di bisogni più profondi che l'uomo tende a soddisfare nel gruppo:
- bisogno di sicurezza: il gruppo diventa luogo che permette di affrontare e superare particolari difficoltà di tipo psicologico; la compagnia di altre persone aiuta a sopportare situazioni di ansia, o collegata ad eventi particolarmente temibili o alla responsabilità e all'assunzione di rischi in alcune decisioni importanti o quella che nasce in stadi evolutivi particolari quali quello adolescenziale e giovanile
- bisogno di appartenenza: è desiderio di sentirsi accettato e approvato, di avere un elemento di identificazione e una carta di identità da opporre o mostrare all'ambiente in cui si vive
- bisogno di affermazione: tante persone sono dei leaders potenziali: capaci di aggregare, capaci di organizzare, di influire, di opporsi alla disgregazione, di controllare. Il gruppo è l'ambito di soddisfazione e di realizzazione di queste aspettative
- bisogno di nascondersi: prendere alcune decisioni è difficile, esigerebbe una forte capacità di «andare contro», col gruppo si entra talvolta nell'anonimato e nella deresponsabilizzazione e questo permette di dare corso a comportamenti di solito inibiti per timore degli altri
- bisogno di agire, di risolvere problemi, di stare assieme, di avere una scorta, di contrapposizione: sono tipiche esigenze che un adolescente soprattutto tende a demandare a un gruppo.
È importante tener presente che
- un gruppo può essere stato formato per rispondere a bisogni diversi per i vari membri
- se un gruppo si è costituito per alcuni bisogni, non per questo la sua esistenza dipenderà esclusivamente da questi bisogni.
Ne deriva che il gruppo deve superare a mano a mano lo stadio di pura soddisfazione dei bisogni per farsi educativo.
Quando un gruppo è educativo
Un gruppo educativo si caratterizza per:
- la comunicazione profonda tra persona e persona, frutto di una conoscenza reciproca che aiuta a scoprire le qualità, i doni, i limiti di ciascuno
- la condivisione dei valori, dei doni, dell'originalità di cui la persona è ricca, nel gruppo
- la cooperazione dei singoli membri con un atteggiamento non competitivo, ma di corresponsabilità nella gestione del gruppo
- il raggiungimento di un fine comune: sapere cosa si deve fare insieme, che cosa si vuole raggiungere con l'attività di tutti.
Perché si verifichi sono necessarie alcune condizioni:
- Il numero delle persone non deve essere eccessivo, da 9-10 a 15, in modo che tutti sempre possono comunicare fra loro.
- L'omogeneità fra le persone potrebbe essere un elemento favorevole all'inizio, ma limitante poi, se il gruppo non è attento alla realtà che lo circonda e non si lascia mettere in discussione; la non omogeneità è un intoppo all'inizio, ma se poi le persone si impegnano potrebbe rivelarsi molto utile per la vita di gruppo.
- Lo scopo deve essere chiaro o, almeno, deve progressivamente chiarirsi se non si vuole che le persone si sentano a disagio e poco coinvolte.
Per questo è necessario spesso una verifica.
- La vita di gruppo sia un alternarsi di attività.
Perché il gruppo deve poter sperimentare momenti di riflessione, situazioni di comunicazione profonda, attività di servizio, approfondimenti culturali, esperienze di scambio, collegamento e proposte all'esterno.
Gruppo non si nasce ma si diventa: alcune tappe
Fare gruppo non è mettersi assieme, ma mettersi assieme in un certo modo. È utile che l'animatore prenda coscienza che deve percorrere alcune tappe necessarie per arrivare a una vita di gruppo rispettabile. Il luogo privilegiato dell'attività dell'animatore è appunto il gruppo. Peraltro non sempre egli svolge la sua attività all'interno di un gruppo coeso. A volte, il suo compito può essere proprio quello di favorire il passaggio dal non-gruppo al gruppo.
Ad esempio, si può pensare a una situazione in cui un insieme di individui si unisce allo scopo di avviare un processo formativo.
^ Inizialmente queste persone sono tra loro sconosciute e pertanto si sentono piuttosto insicure. Per superare il loro stato di insicurezza, tendono così a scoprire «l'altro» nella sua dimensione sociale, cioè a capire il suo ruolo e il suo status sociale.
In questa fase, l'animatore deve limitarsi a facilitare il superamento di disagio e insicurezza mentre - dopo di ciò - deve stimolare il gruppo ad affrontare il lavoro. Quest'ultimo, infatti, è lo scopo più evidente dell'esistenza del gruppo.
^ Mentre l'animatore osserva il procedere del lavoro, analizza anche la dinamica dei rapporti interpersonali. In genere, tra i membri del gruppo si giunge - a un certo punto - a una confidenza maggiore e a un desiderio più marcato di conoscere «l'altro» non solo sotto l'aspetto del suo ruolo, ma dal punto di vista umano. In tale momento, l'animatore deve stimolare lo sviluppo di una comunicazione reale tra i soggetti.
Quando nasce un minimo di fiducia interpersonale, cioè una tolleranza reciproca, si può parlare veramente in termini di gruppo.
^ Giunti a questa fase, si forma un clima di distensione e di sicurezza per cui il gruppo diventa l'angolo rassicurante in cui si cerca di evitare ogni disaccordo. Infatti la paura di perdere il gruppo è dominante. L'animatore allora deve far emergere i conflitti rimossi, personali, culturali, ideali, per superare la situazione di dipendenza reciproca la quale finisce per bloccare il lavoro.
Per far sì che emergano i conflitti, è inevitabile un momento di scatenamento delle tensioni che, però, consente di uscire dal gruppo-rifugio e di giungere a una più intensa e attiva partecipazione di tutti al lavoro.
Animatore e leader
Quello che non si può negare - e l'esempio ora fatto lo chiarifica - è che l'animatore esercita un'autorità nel gruppo. Egli ha un potere e influenza il gruppo, aldilà della sua presa di coscienza. Lo influenza anche quando è materialmente assente.
L'animatore non va confuso con il leader in quanto quest'ultimo si impone naturalmente nel gruppo per le sue qualità fisiche, dialettiche... Egli fa parte del gruppo e proprio per le sue capacità diventa punto di riferimento degli altri membri, in quanto dà sicurezza e ispira fiducia.
È quasi inevitabile che in un gruppo emerga qualche membro che, in certe situazioni, può rappresentare il gruppo complessivo. Quest'ultimo, facilmente, può delegarli la gestione dei problemi più emergenti e delle decisioni più gravose, in quanto si sente garantito dalla sua personalità.
L'animatore, invece, svolge il suo ruolo di guida, di coordinamento, ecc., poiché gli è assegnato.
Può anche diventare l'amico, il confidente dei membri se ha con loro un atteggiamento di disponibilità e apertura.
In definitiva, molto dipende dal modello di comportamento che egli assume con il gruppo, cioè dal suo stile di esercizio dell'autorità.
La comunicazione nel gruppo
La comunicazione è uno dei problemi più grossi del mondo giovanile e di conseguenza lo sta diventando anche del gruppo. Il linguaggio dei giovani oggi corre il rischio di diventare lo strumento dell'implosione, del collasso dell'essere all'interno di un frammento del proprio spazio-tempo. I giovani stanno a mano a mano perdendo la parola.
Vediamo una semplice collocazione del problema.
Che cosa significa comunicare, comunicazione?
Perché un gruppo sia tale occorre che le persone che lo compongono comunichino tra loro. Senza comunicazione non c'è rapporto personale; infatti comunicazione è anche, oltre alla parola, qualsiasi comportamento che ha valore di messaggio per l'altro, e può quindi influenzarlo. Si può identificare la comunicazione col comportamento, in quanto ogni comportamento, indipendentemente dalle intenzioni, può influenzare gli altri. Quindi chiamiamo comunicazione qualsiasi comportamento atto a stimolare una risposta. Gli elementi essenziali della comunicazione sono: una emittente, il soggetto della comunicazione; un ricevitore, colui a cui è indirizzata; un canale di trasmissione, lo strumento che permette lo scambio o per lo meno l'incontro; un codice, un vocabolario che permette di porre in corrispondenza i segni trasmessi con i loro significati.
Per poter comunicare è necessario un lavoro di codificazione e di decodificazione. Tenuto conto che non si può non comunicare, vediamo semplicemente alcuni elementi che aiutano la comunicazione.
Rimandiamo l'animatore ad un approfondimento sul tema su testi specializzati, anche perché la comunicazione diventa sempre più problema e perno della questione giovanile.
Un esperimento di comunicazione
Facciamo un esempio: un test-esperimento di comunicazione.
«L'animatore affida ad un partecipante il compito di dettare al gruppo di uditori una figura prestabilita; colui che detta è bendato, non può gesticolare, non può chiedere agli uditori la conferma della sua chiarezza di esposizione.
Il test è composto di due momenti:
- nel primo gli uditori sono muti; non possono partecipare né col consenso né col dissenso;
- nel secondo (colui che espone ripete quanto detto la prima volta), gli uditori possono chiedere precisazioni e ripetizioni.
L'immagine che il gruppo ricostruisce nel secondo caso presenta maggior precisione rispetto alla prima compilazione.
Il tempo è circa identico».
Nel primo caso la comunicazione è unilaterale: da me a te o da me a voi. Nel secondo caso la comunicazione è bilaterale: da me a te e da te a me.
Spesso quando uno parla crede che quanto dice sia percepito secondo il significato che lui gli attribuisce. Ciò non si verifica perché la comunicazione per essere valida deve essere data e ricevuta. Nella comunicazione unilaterale si risparmia tempo, ma non si è sicuri del risultato.
La comunicazione nel gruppo
Cerchiamo di presentare quindi il modo di intendere la comunicazione: Comunicazione unilaterale: da A a B. Comunicazione unilaterale più complessa: più persone che comunicano: ma in una sola direzione (vedi il gioco del telefono senza fili).
Comunicazione completa: tutti con tutti all'interno del gruppo.
Comunicazione del gruppo: con quelli che stanno «sopra» e «sotto» (vedi gruppi parrocchiali con il parroco e con tutti i giovani della parrocchia), in modo che non sia un gruppo da laboratorio, ma " aperto ", inserito nella realtà.
Caratteristica della comunicazione è il feedback (risposta di ritorno) che si esprime variamente (accondiscendere verbalmente, con cenni, oppure dissentire).
In italiano si potrebbe chiamare «verifica» in cui ci rendiamo conto del punto in cui siamo e adattiamo la successiva comunicazione alla situazione.
Elementi favorevoli alla comunicazione
- Chiarezza dei contenuti.
- Adattabilità del contenuto al gruppo (a volte è meglio ridurre i contenuti per favorire la comprensione).
- Disposizione spaziale delle persone (l'ottimale è il cerchio).
- Numero delle persone.
- Durata della comunicazione.
- Linguaggio (semplice e adatto al gruppo).
- Esperienza dei componenti.
- Attenzione alle aspettative dei componenti, a ciò che le persone si attendono dal gruppo o dall'animatore; nel caso in cui non si manifestano aspettative, suscitarle significa aiutare le persone a prendere coscienza della situazione in cui sono.
- Tener conto del punto in cui sono le persone, del loro cammino, della realtà come è, non di come vorremmo fosse.
- Verifica.
- Clima di accettazione o di fiducia tra le persone. Ognuno deve essere accettato e ascoltato. Fiducia che la persona può dare qualcosa. «Meno ho fiducia nell'altro, più lo strumentalizzo».
- Clima di simpatia.
Schemi di comunicazione
È comunemente riconosciuta l'importanza della comunicazione nel gruppo, perché da essa dipende la vita e lo sviluppo di tutte le attività dei suoi membri. La rilevanza della comunicazione nel gruppo
può essere meglio compresa se pensiamo all'enorme disagio e alla tragica situazione di astronauti che non potessero più comunicare tra di loro e con la terra per avarie ai congegni elettronici. E facile anche immaginare la situazione angosciosa che si verrebbe a creare, allorché tra i membri di una famiglia non ci fosse più modo di comunicare e tutti rimanessero muti. Ogni azione di gruppo esige delle informazioni e delle comunicazioni. E le relazioni interpersonali nel gruppo sono strettadiente legate alla rete della comunicazione attuabile tra i membri. Le possibili reti di comunicazioni sono numerose.
Gli schemi dei canali comunicativi più qualificati sono: lo schema circolare (1), lo schema centralizzato (2), lo schema a catena (3) e lo schema All Chanel (4).
Di grande interesse per la comprensione della dinamica della comunicazione è la scoperta che ogni tipo di schema provoca degli effetti propri sul lavoro e sul morale del gruppo. La forma dello schema inoltre definisce per ogni posto il grado di accettabilità delle informazioni.
Nelle reti centralizzate (2 e 3) la base ha limitatissime possibilità di avere delle informazioni su ciò che fanno gli altri, a meno che sia il centralizzatore a rinviarle. La centralità, posizione più informata, ha un grande influsso sul comportamento dell'individuo e del gruppo. Chi lo occupa, si sente maggiormente indipendente, tende ad un più spiccato senso di responsabilità, gode di maggiori soddisfazioni. Al contrario avviene per l'ultimo della catena che si sente in costrizione, portato alla irresponsabilità e insoddisfatto. Gli effetti riguardo al compito passano corrispettivamente dal dinamismo per il centralizzato all'amarezza e aggressività per l'emarginato, dallo spirito di iniziativa alla pigrizia, dall'accelerazione di rendimento a un rallentamento di ritmo.
Nelle reti decentralizzate (1 e 4) invece ciascun individuo non si sente totalmente dipendente dagli altri e il suo ruolo non viene chiaramente definito da nessun altro membro del gruppo. Da maggiore autonomia consegue comunemente una maggiore soddisfazione e partecipazione.
A conclusione si può affermare che dal punto di vista educativo sono preferibili i sistemi decentralizzati, poiché promuovono l'interazione e la partecipazione, anche se spesso i sistemi centralizzati potrebbero essere, per la soluzione di problemi semplici, assai più efficaci.
La partecipazione
Nel gruppo bisogna essere protagonisti. Alla domanda: che cosa facciamo, gli adolescenti rispondono in coro: boh! E un animatore non sa più che fare.
Che cosa facciamo, non deve essere solo una domanda, ma il punto di arrivo di un processo di protagonismo.
Anzitutto cosa si intende per partecipazione? Si può distinguere tra un senso debole ed un senso forte. Partecipare in senso debole significa «prendere parte in misura più o meno intensa e regolare alle attività caratteristiche di un gruppo, di una associazione..., sussista o meno per il soggetto la possibilità reale di intervenire efficacemente nelle o sulle decisioni» (L. Gallino). In questo caso, la partecipazione si riduce alla frequenza passiva, alla iscrizione ad una associazione e alla delega delle decisioni.
In senso forte - ed è quello che ci interessa in questo contesto - partecipare significa «intervenire nei o sui centri di governo di un gruppo, di una associazione, di una comunità di cui si è membri; dove partecipare alle decisioni implica una possibilità reale e l'atto concreto del concorrere a determinare, su un piano di relativa uguaglianza con gli altri membri, gli obiettivi principali della vita della collettività, la destinazione delle risorse a determinati impieghi, il modello di convivenza verso cui tendere» (L. Gallino).
Come si attua e si può favorire la partecipazione?
Innanzitutto ci vuole movimento dal vertice alla base, articolato nei seguenti momenti:
Informare (a)
Informazione il più completa e onesta possibile: è il primo atto democratico di un gruppo. Essa deve essere ampia e arti-
colata. Quando si deve agire, occorre avere alle spalle delle analisi, la storia, i modi diversi di affrontare il problema che esistono "sul mercato ". Un po' di «cultura», nel senso di una conoscenza più approfondita, non guasta soprattutto nei gruppi in cui si decide a sentimenti.
Se manca l'informazione sul problema, non si potranno sollecitare discussioni e decisioni.
Fare proposte (b)
Fare delle proposte significa prospettare soluzioni aperte, aiutare a inventarle; il che non si riduce a dire: «E adesso che facciamo?». L'animatore non deve supporre la maturità e la creatività del gruppo, ma fornire elementi per stimolarla. Non si può frustrare continuamente il gruppo mettendolo di fronte all'incapacità di trovare soluzioni, se non si prospettano alcune vie di uscita che l'animatore con pazienza riesce a far emergere dalla situazione e dai bisogni del gruppo.
Decidere (c)
I momenti più critici della vita di gruppo sono quelli che corrispondono all'assunzione di decisioni. Normalmente ci si comporta così:
- si «lasciano cadere» le idee o le soluzioni proposte o per inerzia o per disinteresse del gruppo. Spesso nessuno condivide questa scelta, ma tacitamente la operano tutti e ne rimangono scontenti;
- decide il leader o l'animatore: il gruppo può proporre, ma chi decide è sempre l'animatore. Metodo efficiente, ma non coinvolge e influisce negativamente quando si devono attuare le decisioni;
- si decide «a minoranza», cioè sulle manovre di alcuni pochi che influenzano e non permettono dibattito creando timore, a chi si oppone, di sentirsi isolato dal gruppo;
- si segue il «parere della maggioranza» dopo votazione. Anche questo strumento, che sembra il più democratico, lascia spesso scontente le minoranze, che si sentono fraintese, a cui sembra non ci sia stato dibattito sufficiente, che in un altro incontro la cosa potrebbe essere capovolta...; - si raggiunge un accordo unanime. E la più perfetta sul piano razionale, ma molto difficile da realizzare, spesso è un fine troppo elevato e si risolve in una perdita di efficacia a lungo andare.
Il metodo più efficace è di arrivare a un consenso che non significa unanimità, ma decidere in un clima di gruppo aperto, dopo una vera comunicazione in cui a ciascun membro viene data la consapevolezza di aver avuto una adeguata possibilità di gestire la decisione.
Evidentemente non esiste un metodo di decisione valido per tutti i gruppi, però è importante che l'animatore sappia che esistono metodi diversi e impari a scegliere di volta in volta quello più adeguato e a integrare le divergenze.
Il cammino di ritorno
Attraverso le tre fasi: (a) informazione, (b) proposta, (c) decisione, la comunicazione percorre un cammino che va dal vertice alla base. La comunicazione non è tuttavia conclusa: per essere corretta deve ritornare dalla base al vertice.
Si possono individuare in questo cammino di ritorno altre tre fasi: (1) critica delle proposte fatte; (2) suggerimenti o proposte alternative maturate attraverso l'accoglienza critica delle proposte già fatte; (3) azione concreta per realizzare insieme quanto ormai si è deciso.
Purtroppo spesso succede che si solleciti la partecipazione tenendo conto solo dei punti (c) e (3), cioè si richiede una collaborazione esclusivamente per attuare qualcosa, senza informare né fare proposte.
Il gruppo degli animatori
Anche gli animatori hanno bisogno di sentirsi gruppo?
Se sono giovani devono avere spazio in cui crescere come tali, in cui fare un cammino di fede, in cui non si pensano in funzione di, ma per quello che essi sono e pongono attenzione ai problemi della loro condizione. Gruppo sì o gruppo no?
L'animatore va in «tilt»
Mettersi al servizio dei giovani, degli adolescenti o dei preadolescenti in un ruolo che superi quello del vecchio catechista che studia la strategia da usare per far passare in silenzio attento quei famosi 45 minuti, o del dilettante che tenta di formare un gruppo a settembre sull'onda dell'entusiasmo di una esperienza estiva e termina prima di Natale al cadere delle prime nevi, è diventata una passione per molti giovani, una necessità per tante comunità, una meta per gruppi di giovani maturi che si vedono alle spalle un vuoto di giovani generazioni.
Alcuni discorsi di catechesi, alcuni approfondimenti di pastorale giovanile, qualche riflessione «smaliziata» su tanti comportamenti spontaneistici del passato, hanno creato una mentalità. Obiettivi chiari, suddivisione del lavoro in tappe, organicità di interventi, strumenti adatti, un nome nuovo (non tanto!): animatore.
A questo punto immaginiamo di applicare la tecnologia alla pastorale giovanile, magari con una piccola macchina logica a vari ingressi (situazioni, ipotesi di partenza, previsioni, variabili, postulati teologici), con un comando (rispondere per favore!) e una uscita: la soluzione del problema. In questa macchina introduciamo la complessità della vita dell'animatore, una richiesta di risposta secondo la variabile gruppo. Questa variabile è importante perché la dimensione gruppo è una secon-
da pelle che si fa l'animatore, gli sembra talmente qualcosa di sé che quando di notte si sogna di essere solo o di comunicare con gli altri da una torre di controllo con un quadro elettronico, si mette in crisi di identità. Assieme a questa introduciamo nel calcolatore la variabile tempo, il che equivale a chiedergli come deve comportarsi un animatore rispetto ai doveri complessi del suo ruolo e come organizza per questo il suo tempo.
Il calcolatore allora risponde:
- Animazione di gruppo: (cammino con coloro di cui sei animatore): due pomeriggi o due serate alla settimana. Altrimenti che gruppo di appartenenza è? o come ti senti uno di loro se ti fai vedere due minuti prima dell'incontro e sparisci subito dopo?
- Approfondimento di fede formativo con i coetanei: una sera alla settimana. Sei una persona in cammino, hai bisogno di confrontarti con la vita reale, devi dare delle risposte col gruppo dei pari.
- Preparazione professionale: un'altra sera almeno quindicinale. Per stare con gli adolescenti occorre saper fare, ti serve oltre che un approfondimento anche qualche tecnica di animazione e questo non puoi farlo da solo, devi incontrarti con gli altri animatori che hanno le tue stesse difficoltà e fare gruppo con loro.
- Collegamento con la comunità cristiana: è la comunità cristiana il soggetto della catechesi e della evangelizzazione, bisogna partecipare almeno al Consiglio pastorale. Occorre un'altra sera almeno mensile, da non sabotare, perché altrimenti si dice: i nostri giovani partono per la tangente, bisogna fermarli in tempo.
- Collaborazione interparrocchiale associativa o diocesana. Questi giovani non vivono appena nel tuo centro giovanile, sono cittadini del mondo (anche se è solo quello raggiungibile con la vespina), la Chiesa non finisce nella sede dei vostri incontri, ma si esperimenta con quelli con cui si vive nel lavoro, nella scuola, nel tempo libero. Occorre dedicare una sera a un gruppo zonale.
- Attività nell'ambiente. Un animatore di giovani non può non essere attento all'ambiente in cui vive, deve aiutare ad aprirsi a un servizio sociale. Bisogna essere cristiani che promuovono gli uomini e non contemplativi di se stessi. Occorre dedicare qualche tempo a un gruppo di impegno sociale.
L'animatore che legge la risposta della macchina logica va in «tilt», e la macchina logica si impietosisce e con una servo-risposta descrive l'animatore adatto:
giovane trentenne, possibilmente senza fidanzata/o, passa le notti col sacco a pelo nel centro giovanile, in continua tensione su progetti pastorali, possibilmente anche sacrista, tanto è sempre nei paraggi.
Ciononostante, necessità di un gruppo per l'animatore
Questo discorso semiserio pone in evidenza se non altro la necessità di un equilibrio che l'animatore può trovare solo a contatto con una realtà molto varia, ma soprattutto fa pensare a un animatore che deve vivere, esistere anche indipendentemente dal suo ruolo. Se educa scorge non solo di aver bisogno di un gruppo alle spalle che ne sostiene il cammino, ma di entrare in un mondo di relazioni comunitarie importanti.
Al di là delle facili schematizzazioni esistono delle grosse istanze che fondano la proposta di un gruppo per l'animatore:
- Un cammino di formazione esistenziale in una fede incarnata
«Sono testimoni e partecipi di un mistero, che essi stessi vivono e che comunicano agli altri con amore... Testimone di Cristo Salvatore, deve sentirsi e apparire, lui pure, un salvato: uno che ha avuto non da sé, ma da Dio, la grazia della fede, e si impegna ad accoglierla e a comprenderla, in un atteggiamento di umile semplicità e di sempre nuova ricerca» (RdC 185).
- Una seria professionalità
«Egli non può improvvisare, né tanto meno recitare una lezione; deve impartire un insegnamento vivo, che lo renda interpre-
te del colloquio di Dio con gli uomini... perché chi ascolta entri concretamente in comunione con Dio, per mezzo di Gesù Cristo» (RdC 187).
- Una collocazione ecclesialmente corretta
«La vocazione profetica richiede ai catechisti una solida spiritualità ecclesiale...» (RdC 189). «Evangelizzare non è mai per nessuno un atto individuale e isolato, ma profondamente ecclesiale... Ciò presuppone che egli agisca non per una missione arrogatasi, né in forza di un'ispirazione personale, ma in unione con la missione della Chiesa e in nome di essa... Nessun evangelizzatore è padrone assoluto della propria azione evangelizzatrice, con potere discrezionale di svolgerla secondo criteri e prospettive individualistiche...» (EN 60).
- Una riflessione sulla realtà non filtrata, finalizzata o stimolata solo da atteggiamenti educativi
«Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell'economia...» (EN 70). L'attività educativa è politica, ma ha bisogno di termini di confronto più vasti di quelli strettamente interni alla vita degli adolescenti o ragazzi.
Queste istanze sono raramente soddisfacibili al di fuori di una vita di gruppo, soprattutto se gli animatori sono in giovane età. Senza essere un assoluto, il gruppo media in maniera naturale tutte queste istanze.
Le esperienze di gruppo degli animatori
In questi anni si sono tentate e tuttora si propongono varie risposte a queste esigenze. Ogni associazione sente vivo questo problema, dà vita ad alcune esperienze non sempre ben riuscite proprio per le discrete difficoltà che tale problema presenta. Si possono comunque descrivere alcune soluzioni che normalmente vengono date a livello parrocchiale. Si presentano fondamentalmente secondo due modelli.
Il gruppo esclusivo degli animatori di catechesi
In molte comunità cristiane dopo la promulgazione (1970) del documento base (RdC) e negli anni successivi (1973-76) si è avuto un grosso risveglio della comunità sui problemi della catechesi. La prima scelta organizzativa è stata quella di fare un gruppo di catechisti che si preoccupasse di cambiare mentalità, di fare un cammino di fede, di curare una seria professionalità. Il risultato è stato quello di creare negli animatori entusiasmo e sicurezza, preparazione, progettualità, rinnovamento delle «strutture» dell'annuncio.
Il rischio più grosso che si è corso e che per molti è diventato un dato di fatto, è stato quello di svuotare i gruppi giovanili della presenza degli animatori e dei catechisti che, essendo normalmente i più vivaci, potevano sostenere il gruppo e di conseguenza una attenzione pastorale verso i giovani. I gruppi giovanili, anche per altri motivi evidentemente, sono scomparsi e l'unico spazio per i giovani in parrocchia è diventato quello di far catechismo o fare da animatore: chi non ha questa vocazione o questo posto, non sa che cosa fare in una comunità cristiana giovanile. Nello stesso tempo i giovani animatori si sono buttati sempre di più sul ruolo da svolgere che sulla persona da «essere».
Altro pericolo è quello di rimanere scollati dal cammino concreto della comunità cristiana in cui si opera. Se gli adolescenti o i ragazzi sono gli unici punti di riferimento di una attività educativa (e questo un gruppo di animatori solo funzionale lo può consacrare di fatto, se non in teoria), si rischia di educarli a comunità non esistenti, ideali, teoriche, creando dei disadattati, senza continuità nella comunità cristiana.
Questa esperienza è stata ed è tuttora tipica di piccoli centri, in situazioni di precaria possibilità di azione pastorale tra i giovani. Centri giovanili più organizzati o con circolazione più ricca di persone hanno tentato e tentano un'altra strada.
Il gruppo di riferimento
Un'altra soluzione al problema del gruppo degli animatori è quella di creare per loro non tanto un gruppo di appartenenza che svolga attività sue proprie, centrato soprattutto su alcuni temi relativi al ruolo da svolgere, ma sul confronto delle varie esperienze che ogni giovane animatore fa. Capita che in un centro giovanile parrocchiale organizzato parecchi giovani svolgano un ruolo di animazione tra i preadolescenti, tra i giovanissimi, nel campo sociale, nel territorio o nel quartiere, nella liturgia, nelle varie associazioni (AGESCI, ACI...). La tendenza di ciascuno di andare per la sua strada è più di una tentazione. Si istituisce allora un gruppo di riferimento che cerca di coordinare i vari interventi, di analizzare le attività, di studiare strategie, di confrontare tra di loro le iniziative.
Nella migliore delle ipotesi ciascuno porta la sua sensibilità e si arricchisce di quella degli altri, vince l'isolamento, fa suoi i problemi degli altri, cresce in comunicazione e sperimenta la comunità evangelizzatrice. Tale scambio di esperienze non è di tipo aziendale e può trovare l'anima nella Parola di Dio che favorisce uno scambio interiore e porta una luce che permette di leggere le varie esperienze e gli atteggiamenti delle persone nell'ottica della fede.
Un gruppo di animatori di questo genere risponde a tante preoccupazioni e istanze, ma l'esperienza ci insegna che un gruppo di riferimento è significativo se gli animatori che lo compongono sono maturi. Ora nella nostra realtà ecclesiale ci capita di avere molti animatori in età pressoché adolescenziale (15-17 anni), bravissimi nel loro ruolo, entusiasti, ma con esigenze di consolidare un cammino di fede personale e non puramente «funzionale».
Ancora, dall'esperienza si coglie come il gruppo di riferimento tende sempre di più ad essere organizzativo, privo di contenuti, funzionale, facilmente dirottabile in un consiglio di gestione del centro giovanile o della parrocchia con il rischio non solo di non servire la formazione alla fede, ma di non permettere neanche un approfondimento e una rivisitazione continua delle proprie motivazioni di fondo.
A questo si deve aggiungere la necessità di coinvolgere in questo gruppo di riferimento anche altri giovani che non sono animatori, ma che lo potranno diventare.
Se poi escludiamo alcuni centri giovanili di grossi paesi o quartieri ben organizzati, un gruppo di riferimento di questo tipo non permetterebbe che un confronto tra preoccupazioni di tipo educativo interno alla comunità cristiana. Infatti in piccoli centri al massimo si ritrovano animatori di catechesi; il gruppo di riferimento allora perde lo scopo per cui è nato: allargare l'esperienza dell'animatore.
Le costanti di un gruppo di animatori
Mettiamo in evidenza alcune prospettive:
1) Un gruppo di educatori allargato a tutti coloro che sono «impegnati» anche in ambiti diversi dell'animazione (quartiere, sindacato, sport...). Soltanto in questo ambito si resta aperti alla realtà e si evita di rimanere delle persone slegate dalla comunità e dai propri coetanei, si toglie il rischio di coltivarsi come emarginati in potenza; infatti una volta conclusa l'attività di animatore, per es. quando i più giovani partono per il servizio di leva, non ci si ritrova più nella vita.
Una dimensione di questo tipo ottiene anche un altro effetto positivo: coinvolge nella «passione» educativa anche chi, impegnandosi nello sport o nel sociale, si preoccupa solo dell'attività e non del senso.
2) Nel gruppo si opera un confronto formativo sul progetto, che ciascuno realizza secondo i diversi incarichi che uno riveste o campi di azione che anima. Confrontarsi sul progetto implica chiarirsi sempre una analisi dei bisogni, una ricerca dei valori, trovare un centro su cui far convergere tutto, richiamarsi le motivazioni, riportare i metodi ad essere prima una scelta che una tecnica. Questo comporta un coinvol-
gimento personale e quindi risponde all'istanza della formazione esistenziale e nello stesso tempo una attenzione alla realtà e alla comunità che non possono essere saltate in un vero progetto. Quindi non confronto tra attività e attività, ma tra progetti o meglio tra progetto e diverse attività.
3) Il gruppo resta aperto sulla comunità reale. Come si sente responsabile della pastorale dei preadolescenti e degli adolescenti, si deve sentire responsabile della pastorale giovanile e dell'assetto della comunità cristiana. Traduzione pratica di questa apertura è che il gruppo degli animatori collabora con le altre realtà giovanili organizzate nel centro giovanile o nella parrocchia se già ci sono, oppure se tutto è ridotto a gruppo animatori, studia e propone iniziative per tutta la comunità o almeno per la comunità giovanile.
Un gruppo di animatori che non ha una comunità giovanile alle spalle deve «star male» per tanti motivi, soprattutto perché:
- non permette agli adolescenti una continuità educativa, un futuro nella comunità cristiana. Dove andranno dopo l'esperienza fatta in gruppo?
- non permette il ricambio agli animatori, e fa morire strumenti, metodi, esperienze conquistate con fatica e pazienza certosina;
- educa gli adolescenti e i ragazzi, e non è in grado di presentare modelli di giovani significativi per una vita di fede e di impegno. Educa all'impegno, alla serietà della vita di fede, a un progetto e presenta giovani che, eccettuati gli animatori, al massimo fanno delle partite di calcio e si coltivano il «nido» o il week-end come progetto principale di vita; evidentemente dopo anni di vita di gruppo e di catechesi attiva!
4) Momenti tecnici e di qualificazione che pure occorrono devono esserci, ma occupare spazi o corsi concentrati nel tempo e non costituire un cammino costante di un anno. Può essere un campo-scuola, una serie di incontri zonali o diocesani, per non disperdere forze e tempo, una programmazione e verifica di ampio raggio.
Tipi di animatore
Indicazioni per l'uso del capitolo
1. Per cogliere le dinamiche principali di un gruppo.
Si divide il gruppo degli animatori in due sottogruppi. Il primo si fissa un argomento di dibattito e lo svolge, l'altro sta ad osservare prendendo nota di come intervengono i partecipanti, dei loro gesti, della comunicazione che intercorre, dell'attenzione, della pertinenza degli interventi, dei vari leaders, ecc. È bene prima dell'esperienza preparare una scaletta di cose da osservare.
La scaletta può essere questa.
Rilevare:
- quali comportamenti manifestano la tensione dei componenti (disegni, mangiarsi le unghie, fumare molto...)
- quali comportamenti o atteggiamenti favoriscono un clima più disteso.(battute, osservazioni che tirano su il morale, sdrammatizzazione delle difficoltà, far sentire tutti alla pari...)
- chi partecipa chiedendo soprattutto orientamenti, informazioni, cercando conferme
- chi partecipa esprimendo le proprie idee, dando suggerimenti, pur rispettando le idee degli altri.
2. Per aiutare l'animatore ad analizzare il suo comportamento in una discussione
Fissare un animatore, iniziare una discussione e alla fine far compilare il seguente questionario a ciascuno, anche all'animatore.
3. Per aiutare l'animatore a scoprire i suoi atteggiamenti
Distribuire una copia ciascuno dei fogli che seguono (il lavoro è bene farlo prima di parlare degli atteggiamenti); ognuno fa una crocetta su una sola delle cinque risposte per ogni caso, quella che interpreta meglio ciò che lui avrebbe detto. Alla fine chi conduce il lavoro fa segnare accanto alle risposte le sigle riportate nei quadretti delle chiavi di lettura. Solo alla fine spiega il senso delle sigle e svolge una relazione sul significato degli atteggiamenti.
Obiettivo di questo esercizio è di far prendere coscienza degli atteggiamenti più abituali di ciascuno o per lo meno di avviare una discussione sulla loro portata.
1. Il nuovo impiegato
Vadano tutti al diavolo. Eppure faccio del mio meglio, lo vedono. Ma no, sempre criticare, darsi delle arie di superiorità, parlare della loro esperienza. Ancora ieri ho avuto un'idea per organizzare il lavoro; certo che loro di idee non ne hanno spesso. M'hanno fatto tacere: pare che non abbia niente da dire e che debba solo ascoltare. Io mi scoraggio, finisco per prendermi per un imbecille; mi chiedo se un giorno ce la farò.
Soluzioni:
1. Beh facciamo il punto. Non è così grave, capita a tutti.
2. Quando la si critica diventa aggressivo e si scoraggia, perché ha fiducia in se stesso e se la prende con chi gliela ha fatta perdere.
3. Lei fa del suo meglio, s'interessa del suo lavoro, ma quando è stato rifiutato un suo consiglio, allora di colpo dubita di se stesso.
4. Caro mio, se si lascia smontare da sciocchezze di questo genere non arriverà a niente. È un uomo o un bambino?
5. Vediamo di che si tratta. È la prima volta che delle contrarietà provocano in lei questa reazione?
2. Donna di 37 anni
Non so proprio che fare: accettare questo lavoro che sembra interessante e che non è mal pagato - ma allora dovrò trovare qualcuno per sorvegliare il mio bambino - oppure continuare come sempre a cucire a casa, ma divento pazza a sferruzzare dalla mattina alla sera sola sola con la casa da curare e mio marito che brontola quando la sera mi trova nervosa. Proprio non so che fare...
Soluzioni:
1. Mi può dire qualcosa di più sul lavoro che le è stato proposto? È importante conoscere tutti gli elementi del problema.
2. Stia attenta: prima di gettarsi in un lavoro esterno deve essere sicura che la sua famiglia non ne soffrirà. Non deve pensare soltanto a lei.
3. Beh, la situazione non è disperata. Posso occuparmi di trovare una persona che si curi del suo bambino.
4. Il suo imbarazzo si spiega doppiamente: da un lato non può continuare a cucire a casa sua e dall'altro si inquieta delle conseguenze di un lavoro esterno.
5. 0 continua a lavorare a casa sua, ma questo la snerva, o accetta questo lavoro esterno, ma c'è il problema di far sorvegliare il suo bimbo.
3. Uomo di 30 anni, reduce dal Viet-Nam
A che pro lottare? Nessuno si occupa di te, tutti i posti buoni sono presi. Ci hanno tutti presi in giro ed ora ci lasciano perdere. Li maledico tutti: fanno il doppio gioco. E mia moglie... (silenzio).
Soluzioni:
1. Non si ha nessuna considerazione per lei, e questo la fa rivoltare, perché pensa di aver più diritti degli altri e di meritare ancor più dei riguardi.
2. Lei non è il solo ad essere furioso e spesso ce n'è motivo, ma col tempo dimenticherà e rientrerà nel giro.
3. Aveva cominciato a parlare di sua moglie?
4. Capisco i suoi sentimenti, ma il suo sentimento di rivolta le impedisce di procedere; deve mostrarsi uomo; deve vincere il suo rancore se vuole arrivare a qualcosa.
5. Lei pensa di essere sfruttato e ciò la mette in collera.
4. Signorina di 28 anni
Quando la guardo... non posso capire come possa riuscire meglio di me: eppure i fatti parlano: non è né molto bella, né molto intelligente, ha anzi l'aria ipocrita e subdola: salta agli occhi... Fa la metà di quel che faccio, ma è lei che ha avuto la promozione mentre sono io che la meritavo... Questo mi fa deperire e divento letteralmente pazza quando la vedo fare le sue moine alla gente che resta incantata davanti a lei... Ma le farò vedere che mi ha preso in giro abbastanza.
Soluzioni:
1. Questa qui assomiglia a qualche altra ragazza con la quale è già stata in contatto?
2. Lei pensa che l'altra in realtà ottiene ciò che dovrebbe avere lei.
3. Lei ha forse un atteggiamento un po' violento nei suoi confronti. Abbiamo tutti dei pregiudizi contro le persone, ma in genere non serve a niente impuntarsi.
4. IL un caso tipico di gelosia provocata dalla presenza di una persona che si comporta in modo diverso dal suo e, pare, con più successo.
5. Perché non cerca di osservare ciò che fa e di batterla nel proprio campò? Se l'altra bluffa, lei dovrebbe avere l'ultima parola.
Chiave di lettura
4. Per analizzare le cause del silenzio in un gruppo
L'esercizio seguente è spesso rivelatore e utile per far saltare le barriere del silenzio: si propone ai membri del gruppo, dopo che abbiano preso visione dei 58 motivi per i quali si preferisce tacere, di indicare anonimamente su un foglietto di carta una, due o tre ragioni che personalmente li riguardano. In altre parole, si chiede che ciascuno annoti sul suo foglietto il motivo per cui gli capita di non parlare nel gruppo così come si presenta al momento del sondaggio. Basta segnare sul foglio il numero corrispondente a una, due o tre cause.
Si raccolgono poi tutti i foglietti e se ne trae una piccola statistica che si presenta su una lavagna. Le tre grandi categorie sono bene indicate (ragioni relative all'individuo, al gruppo, all'animatore) e si può così constatare perché, qui e in questo momento, nel gruppo presente, i membri tacciono. Conoscendo quali siano le barriere che si frappongono alla comunicazione, è possibile provvedere al miglioramento della situazione. Questa presa di coscienza del gruppo è, in genere, estremamente positiva e di colpo si manifesta un favorevole cambiamento.
Si riscontra che le motivazioni personali, quelle che concernono l'individuo, sono quasi sempre le più numerose, anche se alcune di esse si riferiscono indirettamente al gruppo. E utile, in questo caso, far rilevare ai membri che solo da essi dipende alla fine il miglioramento delle comunicazioni, e non dal gruppo, né dall'animatore.
Dalle ricerche effettuate su parecchie migliaia di risposte circa le ragioni di silenzio nel gruppo, si può stabilire il seguente elenco per ordine di importanza:
1. Si teme di essere valutati o giudicati dal gruppo (n. 30) 7,6%.
2. Altri più pronti e più rapidi, hanno già espresso ciò che si voleva dire (n. 6) 6,3%.
3. Si ha l'impressione di non sapersi esprimere (n. 2) 2,6%.
4. Esiste un grosso problema personale (n. 25) 4,7%.
5. Non si ha ancora un'opinione precisa (n. 25) 3,9%
6. Si resta in silenzio per ascoltare gli altri attentamente (n. 27) 3,5%.
7. Si «sogna» qualcuno o qualcosa (n. 24).
8. Non si ha l'abitudine di vivere in una comunità (n. 18).
9. Ci si ritiene incompetenti in materia (n. 1).
10. Si è stanchi, non in forma (n. 9).
Risultati per categoria
Secondo le tre categorie determinate, si ottiene la classifica seguente:
a) Ragioni inerenti all'individuo: 66% circa.
b) Ragioni relative al gruppo: 26% circa.
c) Ragioni riferentisi all'animatore: 8% circa.
Si constata dunque che i 2/3 dei motivi riguardano l'individuo.
Ragioni dominanti per categoria
a) Per le ragioni inerenti all'individuo, la ragione n. 6: «Altri hanno già detto quello che si voleva dire», e la ragione n. 2, che è quasi alla pari: «Si ha l'impressione di non sapersi esprimere».
b) Per le ragioni relative al gruppo, la ragione n. 30 (che viene nettamente prima di tutte le altre): «Si teme di essere valutati e giudicati dal gruppo».
c) Per le ragioni riferentesi all'animatore, la ragione n. 45: «Il leader tende a giudicare e valutare».
Si osserva dunque che le ragioni relative alla paura del giudizio sono di gran lunga le più numerose e le più importanti. Infatti il credere di esprimersi male cela, in realtà, un timore di venire negativamente valutato.
Sono state fatte ricerche per appurare i motivi che spingono alcuni componenti del gruppo a non partecipare al dialogo.
Sono state così rilevate tre grandi categorie di cause: ragioni inerenti all'individuo, al gruppo, all'animatore (responsabile funzionale del gruppo).
È bene tuttavia specificare che queste tre categorie non sono tre entità chiuse e circoscritte.
È infatti possibile che alcune motivazioni abbraccino più categorie, poiché la delimitazione è spesso difficile da effettuare.
I lavori di ricerca sono stati fatti sia su gruppi di adulti che su gruppi di giovani di oltre 16 anni.
Ragioni inerenti all'individuo
1. Si ritiene di essere incompetenti nella materia.
2. Si ha l'impressione di non sapersi esprimere: scarsità di vocabolario, esitazioni, balbettamenti, perdita del filo delle idee, parlata precipitosa, cattiva pronuncia, perdita di memoria.
3. Ci si crede antipatici, poco amati, incompresi. In una certa misura, si prova sofferenza a stare nel gruppo.
4. C'è un difetto fisico: handicap, malformazione, tic nervosi.
5. Non si è d'accordo su quel che si dice o si fa e si esprime in questo modo l'opposizione (smentendo il vecchio proverbio superato: Chi tace acconsente»).
6. Altri più pronti e rapidi hanno già espresso quello che si voleva dire.
7. Si aspetta che altri dicano quello che ci si augura di sentir dire.
8. Non c'è alcun interesse per ciò che si dice e si fa: è il caso dei membri obbligati ad assistere a una riunione insipida.
9. Si è stanchi, non in forma. Per esempio si è dormito poco o male.
10. Non ci si sente bene fisicamente: raffreddore, inizio d'influenza, mal di denti, mal di capo, un po' di febbre...
11. Si ha un accento straniero o provinciale.
12. Non si ha ancora un'opinione precisa e si esita a esprimere un parere prematuramente.
13. Non si comprende ciò che si dice o si fa, ad esempio, perché il livello della discussione è troppo alto, o fuori dei propri interessi.
14. Non si è stati informati del programma della riunione, e si indica con il silenzio la propria frustrazione.
15. una tattica: si aspetta il momento favorevole per inserire il proprio intervento, secondo certi principi di strategia, o perché ci si trova in un ambiente dove tutti compiono dei raggiri.
16. Si era assenti al momento dell'inizio della riunione o della discussione e l'informazione che si possiede è incompleta.
17. Si è dovuta lasciare la seduta per qualche istante, perdendo così il filo del discorso. Si tace fino a quando... lo si ritroverà.
18. Non si è abituati a vivere in comunità, non si conoscono bene gli altri membri e si è intimiditi (è il caso, spesso, dei figli unici e delle persone che vivono sole).
19. Quello che si vorrebbe dire potrebbe forse provocare una deviazione nello studio dell'argomento e non si desidera far uscire il gruppo dai binari.
20. Si è precedentemente espresso il proprio parere e il gruppo non ne ha tenuto conto: a che scopo parlare ancora?
21. Si attende un'occasione: il susseguirsi degli eventi forse la fornirà.
22. È tardi e non si vuole prolungare la riunione.
23. Si è distratti da un fatto esterno o vicino: un aeroplano che passa, una mosca che vola, un motivo decorativo, una conversazione a bassa voce.
24. Si «sogna» una persona, una cosa, progetti, ricordi...
25. Si ha un grosso problema personale, un peso sul cuore e non si ha voglia di intervenire.
26. Si tace per osservare e analizzare gli altri membri.
27. Si sta in silenzio per ascoltare gli altri attentamente, dal principio alla fine.
28. Ci si è assopiti un po'..., si sonnecchia.
Ragioni in riferimento al gruppo
29. Si teme di essere respinti dal gruppo.
30. Si teme di essere valutati, giudicati, dagli altri membri.
31. C'è aggressività nell'aria e si ha paura di subire assalti da parte di alcuni membri.
32. Ci sono membri che tolgono continuamente la parola, impedendo di parlare liberamente.
33. Alcuni membri monopolizzano gli interventi e parlano senza tregua. Ci sono dei chiacchieroni.
34. Si teme, parlando, di dare un dispiacere o di umiliare qualcuno che potrebbe scoprire nelle parole un'allusione.
35. C'è motivo, si crede, di diffidare di alcuni membri.
36. Ci si sente particolarmente aggressivi. Si preferisce, allora, attendere di ritornare sereni. Si ha la luna di traverso, ci si è svegliati male...
37. Il gruppo è duro; c'è ironia, dispetto, schermo, causticità.
38. I membri non sono all'altezza: incompetenti, infantili, incapaci.
39. Il gruppo è poco simpatico, l'atmosfera è fredda, glaciale, poco accogliente. Ci sono alcuni elementi irriducibili. Ci si guarda come cani e gatti.
40. L'intervento potrebbe far affiorare problemi nascosti.
41. Il membro si è già trovato in una situazione simile e la sua esperienza non è stata positiva.
Ragioni che si riferiscono all'animatore
42. Si ha paura dell'animatore, che è arcigno o inquietante.
43. L'animatore è troppo anziano o troppo giovane. Lo si ritiene fuori gioco.
44. L'animatore parla sempre e interviene continuamente.
45. Il leader tende a giudicare e valutare. Si annette grande importanza all'essere ben visti da lui. Si teme la sua disapprovazione e si preferisce conservare l'anonimato.
46. L'animatore impone il suo punto di vista e non serve assolutamente a niente discutere. Non sopporta l'opposizione o la contestazione.
47. L'animatore ha spezzato uno o due precedenti interventi.
48. Si opera un transfert su altri leaders con i quali si è stati precedentemente in contatto, o su altre figure autoritarie.
49. Il leader è un esperto di livello troppo alto; si serve di termini scientifici e di idee che i membri non afferrano.
50. L'animatore incute soggezione; ha una situazione molto superiore o un titolo particolare.
51. Si è in opposizione con l'animatore, sulla sostanza o sulla forma.
52. Il leader è incompetente e incapace; è dunque inutile intervenire, sarebbe una perdita di tempo e di fatica.
53. L'animatore ha delle preferenze tra i membri.
54. È un manovratore: ha alleati nel gruppo. È parziale, non dice tutta la verità.
55. Il leader resta distaccato: si mette su un piedistallo o vola su una nuvola. È fuori di ogni portata, inaccessibile.
56. L'animatore rappresenta una situazione contro la quale il membro è in reazione. Per esempio: la società degli adulti, l'istituto dell'insegnamento, la classe sociale.
57. Il leader rappresenta l'autorità, e il membro attraversa un periodo di ostilità verso ogni forma di autorità; è un po' un contestatore...
58. L'animatore incarna valori, principi, idee che non si accettano, o che momentaneamente si respingono.
(da E. Limbos, L'animatore, Armando 1979, p. 217 ss.).
5. Per aiutare ad affrontare problemi di atteggiamenti (gioco delle parti)
Questo esercizio può diventare una buona tecnica di animazione del gruppo, quando lo si è esperimentato personalmente.
Descrizione
Alcuni membri del gruppo, «volontari», recitano davanti al gruppo una situazione di vita in rapporto all'argomento trattato. Cercano di rappresentare degli atteggiamenti tipici. Non è assolutamente necessario che siano dotati per il ruolo di attore. La rappresentazione di ruoli è una specie di messa in scena, di drammatizzazione di una situazione.
In termini di tempo sembra opportuno un periodo da trenta a quarantacinque minuti. D'altra parte la rappresentazione di ruoli deve essere completata da un'altra tecnica: forum, periodo di botta e risposta, lavoro a gruppi, ecc., che permetterà di discuterla e interpretarla.
A titolo di esempio si può immaginare la scena seguente: discussione di 30 minuti a proposito della presenza della famiglia a scuola, tra:
- un direttore di una scuola
- un funzionario
- un padre e due madri, membri del Consiglio.
Per ogni personaggio, il moderatore dovrà prevedere delle precise caratteristiche personali, in modo che gli attori possano collocarsi nel loro ruolo. Per esempio: un direttore di scuola, uomo, 45 anni, di tipo piuttosto tradizionale sul piano della pedagogia e delle strutture scolastiche, abbastanza diffidente verso ciò che considera un'intrusione dei genitori nella sua scuola. La stessa caratterizzazione per gli altri personaggi.
D'altra parte, obiettivo della rappresentazione dei ruoli deve essere semplice e ben precisato dal moderatore, così come le circostanze ambientali. Per esempio: queste persone sono riunite per discutere sul seguito da dare a una decisione del Consiglio di istituto perché le macchine distributrici di bevande gassate siano soppresse a scuola. Devono arrivare a una decisione al termine della discussione.
Diversi ruoli
- Il moderatore propone gli obiettivi della rappresentazione e definisce la situazione. Deve essere anche capace di dirigere la fase che segue.
- Gli «attori» volontari membri del gruppo mirano innanzi tutto a rappresentare gli atteggiamenti tipici del loro ruolo e non a realizzare una prestazione di arte drammatica.
- L'uditorio osserva durante la rappresentazione di ruoli senza intervenire in quel momento. La qualità del suo interesse e della sua osservazione viene decisamente migliorata quando gli si chiede di stare attento a precisi aspetti della rappresentazione di ruoli.
Criteri di scelta della rappresentazione di ruoli
La rappresentazione di ruoli può essere utilizzata per illustrare scenicamente diversi aspetti di un problema interpersonale in vista di una ulteriore discussione; per facilitare la comprensione delle opinioni e dei sentimenti di altre persone; per permettere ai membri dell'uditorio di chiarire i propri atteggiamenti e comportamenti personali; per acquisire competenza in campi come la diagnostica o la soluzione di problemi.
Vantaggi e limiti della rappresentazione di ruoli
- La rappresentazione di ruoli è interessante innanzitutto per l'analisi di problemi che implicano atteggiamenti e sentimenti (l'affettività). D'altra parte ha come effetto di stimolare l'uditorio e di portarlo ad ascoltare e a osservare con interesse; di permettere a dei membri dell'uditorio di proiettarsi nei ruoli rappresentati, e in questo modo di conoscersi meglio; di portare a conoscere ciò che pensano e provano altre persone; e infine, di presentare una situazione in modo più vivo che non con una discussione o una conferenza.
- Ma la rappresentazione di ruoli è inefficace quando gli obiettivi da raggiungere sono complessi: si deve limitarne l'uso a problemi o a situazioni chiare e semplici. É necessaria un'animazione briosa e precisa. Deve essere completata con altre tecniche. Monopolizza talmente gli «attori» che essi trascurano l'argomento o il contenuto. Oppure, coinvolge talmente gli «attori» che essi manifestano emozioni molto personali e inopportune nel quadro di un grande uditorio. Può anche causare paura e ansia negli «attori» al punto da renderli incapaci di comunicare qualunque cosa. Infine la si utilizza spesso come passatempo piuttosto che come tecnica mirante a facilitare l'apprendimento: e questo porta a un certo numero di educatori a respingerla.
(da Beauchamp - Graveline - Quiviger, Come animare un gruppo, LDC 1977, pp. 41-42).