Giancarlo De Nicolò
(NPG 1981-03-27)
Il lavoro è un problema.
Effettivamente è per molti il problema. E lo è diventato oggi ancor più di una volta, non solo a livello di interpretazione filosofica o ideologica, ma soprattutto a livello di vissuto, di comportamento soggettivo.
Sembra quasi che oggi si sia tolto il coperchio a questa realtà dentro cui ribollivano una serie di frammenti di analisi, di processi strutturali, di mutamenti della coscienza e di riferimenti culturali di cui si aveva una sorda e confusa sensazione. Ne è emersa una realtà che, dicevamo, fa sempre più problema.
Lo è per chi è già da anni inserito nel processo produttivo, e per chi ne è ancora ai margini; per chi ha costruito attorno ad esso la sua identità e per chi rifiuta di lasciarsi definire da esso; lo è per chi lo cerca o lo contesta, lo pratica o lo rifiuta; per chi lo sente come un valore e per chi lo vede come alienazione irricuperabile. Lo è diventato non solo per chi non ce l'ha, ma anche per chi ce l'ha: le vicende ultime legate alla Fiat, alla cassa integrazione e al licenziamento di migliaia di lavoratori dell'industria torinese e delle industrie legate ad essa, ed anche al Sud, hanno fatto capire che il lavoro può mancare, può essere sottratto: ridiventa visibile nella sua dura forma di merce, e «accessorio della macchina», determinato da un meccanismo sociale che domina l'individuo. Come è stato scritto, il lavoro «riappare come variabile del sistema, maledizione che può essere negata dal padrone e che la crisi riporta alla sua "oggettiva materialità"; le idee e i vissuti sono spietatamente subordinati».
Quanto sia un problema che interessa oggi non solo i giovani, ma anche gli esperti di scienze sociali e i programmatori politici ed economici, è indicato dal numero di pubblicazioni sull'argomento, dai numerosi convegni che si sono appena conclusi (cito per es. quello di Milano dei primi di novembre '80, organizzato dal Manifesto; quello di Napoli di metà novembre, organizzato dalla FGCI; quello di fine novembre sempre a Napoli della Fidae); delle inchieste a livello nazionale e regionale (es. quella della GiOC).
Ma il lavoro resta problema soprattutto per i giovani: sia come posto di lavoro che come esperienza soggettiva. Da problema astrattamente carico di significato storico, ideologico, sociale, economico e politico, diventa per i giovani un problema personale, una realtà estremamente concreta con cui devono fare i conti a un certo momento della loro vita, e anche durante la scuola: e che influirà in maniera determinante sulle loro persone.
E per questo interessa anche i responsabili di pastorale: il modo in cui il lavoro viene visto e vissuto, influenza la coscienza del giovane, si traduce in comportamenti, forma una «cultura».
Cercheremo di leggere questo fenomeno al di là degli stereotipi con cui è stato fissato, leggendo soprattutto attraverso le ricerche sociologiche, gli atteggiamenti dei giovani verso il lavoro: cosa ricercano, come lo vivono, quale parte ha il lavoro nella loro vita e nella formazione della loro identità personale e sociale.
Ne parliamo in questo articolo: incominciando anzitutto dalla situazione del «mercato del lavoro», e tornando in un secondo momento sul tema specifico dell'atteggiamento dei giovani verso di esso.
UNA SITUAZIONE OGGETTIVAMENTE DIFFICILE
Si valuta oggi che il tasso di attività in Italia sia intorno al 40%, mentre la disoccupazione raggiunge il 12-14% della forza lavoro. L'occupazione complessiva è intorno ai 21 milioni, cui si aggiunge una quota di lavoro nero (3-3,5 milioni di persone, secondo le stime).
La disoccupazione giovanile nei paesi industrializzati occidentali
Questi sono dati generali, che riguardano globalmente tutta la problematica del lavoro in Italia: sono importanti per poter inquadrare e valutare il grosso problema che ora qui ci interessa: quello della cosiddetta disoccupazione giovanile, problema che indistintamente riguarda l'intero Occidente.
Vediamone i dati più rilevanti, seguento gli ultimi studi pubblicati sull'argomento.
Ora, l'impressione più condivisa è che le dimensioni della problematica del lavoro giovanile sono enormi, al di là del pensabile, e non si racchiudono unicamente attorno al concetto della disoccupazione, sebbene esso sia l'aspetto più rilevante. 1 In un rapporto presentato nel 1978 dagli esperti dell'Ocse, si rilevava come dopo la crisi 1974/5 la disoccupazione giovanile avesse ormai abbondantemente superato, nelle aree sotto osservazione, il tasso del 10%, con una tendenza pressoché generale al peggioramento; emergeva inoltre il fatto che i giovani fino a 24 anni di età rappresentavano due quinti dei disoccupati, mentre le forze di lavoro giovanili erano pari a un quinto.
Dal 1976 al 1979 mentre l'espansione della disoccupazione complessiva è apparsa minore di quanto si temesse per il limitato sviluppo produttivo, è risultata invece in deciso peggioramento pressoché ovunque la disoccupazione giovanile: i dati del 1978, in media per i giovani dai 15 ai 24 anni, rilevavano tassi di disoccupazione dell' 1 1% per la Francia, del 14 per la Danimarca, del 15 per la Finlandia, del 19 per la Spagna, del 17 per il Portogallo, del 13,5 per il Regno Unito, dell' 11,7 per gli Usa, del 23,7 per l'Italia; mentre era contenuto sotto il 6% per Germania, Norvegia, Svezia. Questi dati però non tengono conto del fatto che la disoccupazione «esplicita» giovanile femminile, in particolare delle giovanissime, aveva tassi elevatissimi e a ritmo crescente.
Da notare inoltre che il rapporto tra i tassi di disoccupazione dei giovani fino ai 24 anni, e quelli degli adulti, era superiore a 3 in Francia, Svezia, Regno Unito, Spagna e Portogallo, con punte fino a 7 per l'Italia: dati che sottolineano ancora una volta la gravità del fenomeno della disoccupazione per il settore giovanile rispetto agli adulti.
Bisogna però fare attenzione ai numeri, alle percentuali e ai confronti. Osserva lo studio Ocse del 1977 su L'inserimento dei giovani nella vita attiva:
«Se volessimo fare dei confronti in campo internazionale, il numero o la percentuale dei giovani disoccupati registrati sono misure inadeguate, così come vanno corrette le cifre in funzione dei metodi di valutazione di ogni paese. Bisogna adottare un'ottica più ampia, perché esistono forti differenze tra i vari paesi per quanto riguarda il numero dei giovani sottoccupati in rapporto al numero di quelli disoccupati, le conseguenze della diminuzione del numero di offerte d'impiego sul tasso di attività, il ricorso al lavoro part-time, i cambiamenti nel contenuto degli impieghi offerti ai giovani e la loro tendenza ad accettare impieghi meno qualificati piuttosto che rimanere senza lavoro. Alcuni economisti americani hanno ideato, per misurare la sottoccupazione, differenti indici sperimentali, che comprendono i diversi elementi dei tassi di disoccupazione, durata di disoccupazione, disoccupazione mascherata, diminuzione dei tassi di partecipazione alla vita attiva, lavoro ad orario ridotto e salari inferiori alle norme».
Un ulteriore aspetto che risulta evidente dalle ricerche riguarda il livello di istruzione dei giovani disoccupati. La disoccupazione di diplomati e laureati si è negli ultimi anni ulteriormente accentuata, con minor rischio per i laureati, ma con rischio crescente di dequalificazione.
In questi casi appare sempre più come il connotato dominante della problematica del lavoro giovanile ad elevato livello di istruzione è l'espansione della sottoccupazione.
Tali dati inducono l'opportunità di considerare la problematica del lavoro giovanile come un insieme articolato di problemi piuttosto che come un problema: è necessario pertanto chiamare in causa considerazioni sull'intero mercato del lavoro, così come è strutturato: permettendo così di vedere il problema del lavoro giovanile come un insieme di fenomeni che non sono solo di occupazione/disoccupazione, ma anche di sottoccupazione, cioè il lavoro precario e discontinuo a condizioni anormali, e del fenomeno del lavoro nero: mentre il più delle volte i dati offrono soltanto indicazioni sulla disoccupazione «esplicita». L'allargamento della prospettiva permette anche di considerare l'insieme delle cause, che sono certo soprattutto di tipo strutturale (dipendente cioè dal modello di sviluppo adottato nell'Occidente, e la particolare forma in cui è stato attuato nelle singole nazioni) e congiunturale (causa il rallentamento dello sviluppo produttivo dopo la crisi del 1974/5), ma anche di altro tipo: l'influenza dei fattori demografici, e soprattutto la condizione di inferiorità della forza lavoro giovanile, di fronte ai processi di selezione operati dalla domanda di lavoro (rigidità/flessibilità del lavoro): espresssi sia in termini di persone che di ore (reclutamento senza vincoli, ricorso al lavoro straordinario e contratti a tempo parziale): condizioni tutte estremamente sfavorevoli ai giovani. Dal lato poi dell'offerta di lavoro una crescente esigenza di flessibilità, in termini di persone e di ore, è desiderata in vista di migliori condizioni di lavoro e di migliori condizioni di vita. Si legano così insieme nella ricerca delle cause sia fattori strutturali che fattori di comportamento, soggettivi.
La situazione in Italia
Bassi-Pilati in un saggio sui Giovani e la crisi degli anni '70, presentano così la situazione in Italia:
«La situazione attuale del mercato del lavoro in Italia (stagnazione nell'assorbimento di nuove forze di lavoro, estendersi dei mercati marginali, forti squilibri regionali, calo della popolazione ufficialmente occupata) è da considerare non tanto il prodotto di una specifica fase congiunturale, quanto piuttosto l'esito di un'evoluzione distorta che si manifesta da oltre un quindicennio. infatti dall'inizio degli anni sessanta, dall'avvio del boom, che il mercato del lavoro si struttura secondo modalità «irregolari», le quali, approfonditesi nel corso degli anni, mostrano oggi compiutamente i propri effetti perversi. Fin dal 1960 le fonti ufficiali registrano un calo della popolazione occupata» (pag. 33-34).
Le modalità «nuove» del mercato del lavoro in Italia si caratterizzavano come un trasferimento progressivo di forze lavorative dai mercati primari (persone occupate nei settori della grande e media industria), ai mercati secondari del lavoro precario e domiciliare.
Tale fenomeno di compressione del mercato del lavoro regolare era visibile pure negli altri paesi occidentali.
Quali le spiegazioni adottate in riferimento al calo della popolazione occupata? Le prime interpretazioni davano largo spazio alla scelta volontaria di chi usciva dal mercato di lavoro perché il miglioramento generale del tenore di vita permetteva ormai che lavorassero solo uomini tra i 30 e 50 anni, mentre i giovani potevano continuare gli studi, e gli anziani il meritato riposo.
Ma erano spiegazioni che non si interrogavano sul perché della non occupazione o della non ricerca di lavoro, erano troppo ottimistiche rispetto alla realtà. Altre interpretazioni sostenevano la tesi del «lavoratore scoraggiato» davanti alla mancanza di occasioni di lavoro e alle difficoltà di accedere ai pochi posti disponibili.
Lungo questa strada si tornava alla primaria considerazione delle trasformazioni strutturali dell'economia in Italia, e alla considerazione delle caratteristiche dell'offerta di lavoro: venivano così alla luce nuove categorie di lavoratori prima trascurati (i precari, gli inoccupati) e si vedeva sempre meglio la frammentazione («balcanizzazione») del mercato del lavoro: scomparti quasi impermeabili nei quali i rapporti di forza si strutturano in modo diverso: il mercato urbano-industriale, con le quote forti di lavoratori, ma pure con limiti e costi non trascurabili (costo della vita, orari di lavoro, esclusione della forza giovanile e femminile); il mercato di lavoro marginale sempre più funzionale e integrato a quello centrale, adatto alle frange deboli (es. il lavoro a domicilio femminile); infine il mercato di lavoro intellettuale, che presenta un'offerta in condizioni di grande debolezza nei confronti della domanda ormai da anni sovrabbondante.
Gli effetti di questa balcanizzazione del mercato di lavoro, a lungo andare avevano permesso il consolidarsi di un'accresciuta rigidità dell'offerta di lavoro nei settori centrali, e dall'altra avevano riproposto in termini più urgenti il problema scuola come tipo e qualità di insegnamento.
Situazioni estremamente sfavorevoli all'occupazione giovanile.
I dati Istat
Si può procedere ad un'ulteriore specificazione e caratterizzazione della realtà italiana, alla ricerca di dati oltreché di spiegazioni.
Utile a questo riguardo è la ricerca del Ceres, curata da L. Frey, La problematica del lavoro giovanile, le sue prospettive negli anni '80. In essa si rileva come già da tempo in Italia è stata colta la presenza di rilevante disoccupazione giovanile: l'analisi dei dati che si riferivano all'aumento delle persone in cerca di prima occupazione, specie negli anni '70, e il progressivo aumento del rapporto tra persone in cerca di prima occupazione e disoccupazione complessiva, parlavano chiaro. In sostanza già i dati ufficiali permettevano di cogliere una tendenza negli ultimi vent'anni all'aumento della disoccupazione «esplicita» in Italia.
Però le dimensioni della disoccupazione giovanile sono nettamente superiori di quelle quantificabili soltanto tramite la ricerca della prima occupazione: ciò risulta dai dati Istat «nuova serie».
Nel luglio 1979 risultavano 1.375.000 giovani (dai 14 ai 29 anni) in cerca di occupazione (che corrispondono al 73% di tutte le persone in cerca di occupazione), senza specificare se di prima o di seconda.
Le dimensioni della disoccupazione giovanile rilevata dall'Istat appaiono effettivamente enormi rispetto alla partecipazione dei giovani alle forze di lavoro e, soprattutto all'occupazione: il confronto con la tabella n. 1 permette di rilevare l'impressionante sproporzione, per esempio, tra il 32% della disoccupazione di giovanissimi sotto i 20 anni sul totale di disoccupati a confronto con il 5,9% dell'occupazione; così pure è impressionante il confronto con la classe di età tra i 20 e i 24 anni (disoccupazione: 27,9%; occupazione: 9,3%).
Ancora più evidente appare la gravità del problema dalla tabella n. 2, relativamente al numero assoluto e ai tassi di disoccupazione (il 33% per i giovanissimi dai 14 ai 19 anni; il 21,4 per i giovani da 20 a 24). Risulta lampante che caratteristica fondamentale della problematica del lavoro giovanile è la gravità di essa nel caso dei giovanissimi.
Notevole pure è la disoccupazione «esplicita» dei giovani da 20 a 24, e tutt'altro che trascurabile quella per la classe di età da 25 a 29 anni.
Con riguardo a queste due classi di età emerge un'altra caratteristica della problematica del lavoro giovanile in Italia: il peso della disoccupazione intellettuale, sia dei diplomati dai 20 ai 24 anni, sia dei laureati dai 25 ai 29 anni. Nel complesso la disoccupazione giovanile ad elevato livello di istruzione (diploma/laurea) sta crescendo a ritmo sostenuto: mezzo milione nel luglio '79; 524.000 nell'ottobre dello stesso anno, e rappresenta il 41% dell'intera disoccupazione giovanile.
Numerose poi sono le donne: e ciò rileva un'altra caratteristica della problematica in questione: l'elevato grado di femminilizzazione della disoccupazione giovanile, soprattutto nei riguardi delle giovanissime, come pure si rileva dalla tabella riportata.
Ma i dati «ufficiali» non danno l'esatta misura della questione: la problematica del lavoro giovanile si accentua decisamente qualora si cerchi di andare oltre i dati di cui sopra, per includere, oltre ai dati sulla disoccupazione, quelli sulla sottoccupazione.
«In verità - afferma Frey nello studio citato - la disoccupazione giovanile rilevata dovrebbe essere considerata più come sottoccupazione, soprattutto se si vuole utilizzare i dati per un'analisi corretta (in termini di flussi) della problematica occupazionale, in quanto che nel corso dell'anno è facile che il giovane disoccupato cerchi di " arrangiarsi" prestando, almeno temporaneamente ed in condizioni "precarie", lavoro contro reddito monetario».
In tal modo «corrette» le dimensioni della problematica del lavoro giovanile in Italia salgono a 1.678.000 unità (luglio 1979). E ancora la sottoccupazione riguarda altri margini di giovani classificati tra le non forze di lavoro: per cui si è indotti a ipotizzare che molti studenti e casalinghe sono coinvolti in qualche momento dell'anno in forme implicite di sottoccupazione, oltre a quelli disposti a lavorare a particolari condizioni.
Se si volesse completare il quadro per aree geografiche, balza subito all'attenzione la tragica realtà del Mezzogiorno: ivi sembra concentrata la problematica occupazionale, soprattutto giovanile.
La disoccupazione meridionale rilevata si avvicina al 50% del totale nazionale per i giovani dai 14 ai 29 anni e supera nettamente la metà per i giovani da 20 anni in su. In numeri reali, la disoccupazione/sottoccupazione giovanile meridionale conta, nel luglio 1979, 884.000 unità.
Da tenere presente poi che nel Mezzogiorno sono di molto accentuati, rispetto alla media nazionale, i dati riferentisi alla disoccupazione «esplicita» delle donne, soprattutto giovanissime, e il peso della disoccupazione intellettuale: e si vanno accentuando nel tempo con una rapidità molto preoccupante.
Alla ricerca delle cause
Le cause individuate per una spiegazione della disoccupazione/sottoccupazione giovanile si ricollegano a quelle accennate in precedenza per l'intera area industrializzata occidentale, tenendo ancor più in considerazione la particolare situazione dell'Italia coi suoi cronici problemi di debolezza strutturale.
Tra le tante cause richiamate dagli esperti, acquista particolare interesse, per l'argomento che dobbiamo trattare, quella che si riferisce agli aspetti di rigidità dell'offerta di lavoro verso la domanda, riconducibili al comportamento dei giovani. Quale è il comportamento soggettivo dei giovani verso il lavoro?
È vero che non vogliono lavorare, che attuano verso questa realtà soltanto un atteggiamento di rifiuto?
L'analisi dei dati e le spiegazioni finora offerte ci hanno lasciato nel campo dell'economico, del come si è venuto strutturando il mercato del lavoro in Italia: ma come tutta questa realtà viene vissuta dai giovani?
IL COMPORTAMENTO DEI GIOVANI VERSO IL LAVORO
Finora si è parlato della oggettiva difficoltà di inserimento dei giovani nell'attività lavorativa: le cifre parlano chiaro.
Si è anche accennato, tra le cause di questa situazione, alla rigidità dell'offerta, richiamando così considerazioni che riguardano il comportamento dei giovani verso il lavoro.
Ad essi verrebbe imputato di accettare solo lavori puliti, o addirittura di non aver voglia di lavorare. Sono spiegazioni tutt'altro che accettabili, ma sono anche opinioni raccolte un po' ovunque, abbastanza diffuse nella letteratura sull'argomento e in certe analisi sociologiche del recente passato: danno in ogni caso l'impressione di poca informazione e chiarezza sul modo con cui i giovani oggi sentono e affrontano il lavoro.
Si è così maggiormente cauti nell'esprimere giudizi affrettati ed equazioni tipo: giovani = rifiuto del lavoro. Su questo punto hanno fatto l'autocritica sinistre e sindacati: essi ormai riconoscono di essere rimasti prigionieri degli schemi ottocenteschi sul lavoro di cui è intrisa tuttora l'ideologia marxista.
I giovani, si è scoperto, lavorano moltissimo: moltissimi di loro sono coinvolti in lavori precari, buoni o cattivi, manuali o intellettuali, pagati bene e pagati male, d'estate, di sera.
Quello che invece è mutato è l'atteggiamento del giovane verso il lavoro. Il come lo cercheremo attraverso l'analisi di studi ed inchieste recentissime.
La storia di una certa «disaffezione»
Il dato di partenza accertato è una certa situazione di disagio dei giovani verso l'attività lavorativa: essa non è più accettata e valutata col metro del passato o con la mentalità dei lavoratori adulti: i parametri di giudizio e di interpretazione del lavoro nella vita del giovane sono mutati, e questi sono probabilmente da considerare i motivi principali della freddezza e del distacco visibilissimo oggi tra la classe operaia nel suo insieme e i sindacati da una parte, e i giovani dall'altra. E una crisi di interpretazione e di significato effettivamente c'è.
La parola che più corre nella letteratura al riguardo, escludendo per ora quella di «rifiuto», è certamente quella di «disaffezione».
È a partire dal 1979 soprattutto che in Italia si fa largo uso di questo termine, e non soltanto a riguardo dei giovani.
«Disaffezione - dice R. Rossanda al convegno citato all'inizio - vuol dire molte cose: assenteismo, comportamento instabile o distratto, mobilità soggettiva, del giovane soprattutto, che prende il lavoro e lo lascia, o vero e proprio rifiuto del lavoro nelle marginalizzazioni volontarie o nelle forme violente del sabotaggio e della appropriazione diretta, peraltro tante rare in pratica quanto diffusi sembrano gli altri comportamenti».
E i nuovi comportamenti, prendono sempre più le distanze dalla cultura del vecchio operaio, che si definiva col concetto di «etica del lavoro».
Ci si distacca sempre più - è sempre l'analisi della Rossanda - dai tre temi di fondo di quell'etica, in base ai quali si esprimeva la necessità e il valore del lavoro: quello dello sviluppo (il lavoratore percepisce come buono lo sviluppo produttivo, identificato come portatore di maggior ricchezza sociale), quello del mestiere (il lavoratore è possessore di un suo «sapere» pratico, di cui va orgoglioso, e che lo rende diffidente verso il rifiuto del lavoro, e nella difesa di questa professionalità difende fino in fondo la propria rigidità inalienabile); e quello del ruolo sociale (il «vecchio» operaio sa di essere «altro» attraverso il sindacato o il partito, portatore di un'identità differente, che si forma anche nella solidarietà di classe: una collettività operaia come momento di identità culturale e morale autonoma; ma che in concreto si realizza attraverso il posto di lavoro).
Queste caratteristiche dell'idea tradizionale del lavoro, vanno tutte e tre in crisi nell'ultimo decennio, e saranno questi gli elementi della crisi che frantumeranno la coscienza del giovane lavoratore, e ne faranno «soggettività in crisi acuta». Primo, lo sviluppo: diventa ora senso comune che lo sviluppo non è sempre un bene (vedi Hiroshima, la diossina, la crisi della scienza): non c'è più dunque fondamento per una visione del lavoro come missione, finché il suo scopo non venga verificato fin dall'inizio.
In secondo luogo anche il mestiere e la professionalità subiscono un inarrestabile declino (la crescita della scolarizzazione dà all'operaio sempre più sapere di quanto egli non riesca ad utilizzare, la crescita tecnologica dequalifica via via le mansioni, la percezione che quello che domina in fabbrica è il ciclo...).
E infine è il destino del ruolo sociale operaio che salta negli scontri politici. Questi processi inducono una profonda modificazione della soggettività operaia, che è un modificarsi non solo di coscienze ma di comportamenti, che formano il terreno a cui attinge il vissuto del giovane, e che allargano il campo delle prospettive non più limitato alle semplicistiche semplificazioni: lavoro sì - lavoro no. I giovani vivono, e traducono in comportamenti, questa crisi della cultura ed etica del lavoro.
Conclude la Rossanda:
«La "disaffezione" si traduce dunque piuttosto che in "non lavoro" in una soggettiva "mobilità" (prendere e lasciare un posto come il giovane che va in fabbrica per sei mesi o un anno; non pensare più al lavoro come collocazione di vita, ma come transito; scelta volontaria di lavoro sottoqualificato rispetto alla propria formazione perché non si definisce più attraverso di esso, e si può tenersi mentalmente liberi per altro, eccetera) che in "meno" lavoro. Tant'è vero che essa si accompagna al fenomeno, in proporzioni sconosciute, del doppio lavoro, sia nell'industria che nel terziario: l'assenteista non è solo quello che va a pescare in odio alla fabbrica, ma quello che prende tempo alla grossa fabbrica per fare altri lavori, e poi magari va anche a pescare.
Non è neanche rifiuto, come spesso si dice e vale per altri paesi europei, del lavoro duro: fra lavoro legale, lavoro nero e la sempre più vasta zona di lavoro grigio, i famosi giovani e le donne sgobbano a condizioni di schiavismo, accettate senz'altro pro tempore, e nei lavori che i sociologi frettolosamente definiscono "liberi" (tempi parziali, o lavoro nero). Il lavoro sembra assunto crudamente (qualcuno dice "laicamente") come necessità, ma le sue arbitrarie leggi sono contestate dal "tempo parziale" meno di quanto un "vecchio operaio" contestasse la catena. Sarà perché si considera questo lavoro temporaneo? Perché ha cessato d'essere investito da affettività? Cessa l'etica del lavoro, ma anche il rifiuto attivo dello sfruttamento?».
La quinta generazione operaia
Irrompe, in altre parole, quella che è stata chiamata la quinta generazione operaia, e ormai respira a pieni polmoni di questo mutato clima: dopo la fascia degli «anziani», in prossimità della pensione, ma ancora presenti qualche anno nel processo produttivo con un bagaglio di competenza e di conoscenze talvolta insostituibili; dopo la fascia degli operai entrati nel processo produttivo negli anni Cinquanta e nei primi Sessanta, la prima generazione dell'operaio-massa; dopo la fascia dei trentenni, protagonisti del ciclo post-sessantottesco e ossatura delle strutture sindacali medie (con un fortissimo senso di egemonia sul resto della società avendo conosciuto la fase del massimo potere operaio); dopo la generazione di chi entra in fabbrica dopo la crisi del '73, caratterizzata per la fortissima tensione politica che porta in sé; ecco finalmente la generazione del '77, quella più complessa e contraddittoria, che rappresenta una vera e propria frattura con le altre, sia politica che di forza-lavoro: politica perché senza la memoria storica unitaria delle generazioni precedenti, e di forza-lavoro perché caratterizzata da nuovi comportamenti soggettivi verso il lavoro.
Così la descrive Sergio Bologna al convegno del Manifesto:
«Cerchiamo di indicare alcuni elementi di soggettività verso il lavoro. Il primo, ormai divenuto luogo comune, è quello di una disponibilità positiva al lavoro precario, determinata da una specie di autoimprenditorialità, in cui l'unico capitale che viene fatto fruttare è la propria forza-lavoro. Rifiuto del lavoro normato, del rapporto di lavoro a lungo termine. In tal modo la struttura dell'offerta, per un fatto di mutamento della cultura giovanile, si adeguava alla struttura della domanda, promossa sia dal decentramento della grande impresa che dallo sviluppo del terziario, sia pubblico che privato.
Entrava in crisi allora uno dei pilastri della cultura del '68 verso il lavoro: la rigidità. Ed entrava in crisi una cultura del conflitto che aveva visto nella difesa della rigidità operaia l'asse del potere sindacale e operaio in fabbrica».
Una descrizione
Quale sia il tipo di rapporto dei giovani col lavoro, quali siano i lavori che circolano nel mercato irregolare, in quella che è stata chiamata «disoccupazione piena di lavoro», è descritto da ricerche ormai abbastanza note. Citiamo da un'antologia ricca di studi e ricerche effettuate soprattutto a livello locale: da cui emerge un identikit abbastanza strano.
Laura Balbo afferma che la disoccupazione giovanile si presenta non come un vuoto, ma come un pieno dalle caratteristiche particolarissime.
L. Annunziata così continua: «La disponibilità al lavoro fra i giovani è d'altra parte verificata, senza neanche andar troppo lontano, dall'osservazione empirica: baby-sitter, traduttori, cooperative di servizi, correttori di bozze, intervistatori per ricerche di mercato è venditori di enciclopedie, scaricatori occasionali al porto e lavoratori nelle ferrovie per brevi periodi. Sotto la forma di una costante precarietà, si può parlare di un rapporto continuato dei giovani col lavoro. Ed è più vero al Nord che al Sud. È vero per le fasce di forza lavoro intellettuale come per i giovani che fanno lavoro manuale. Comunque, è questa, ci sembra, la linea di tendenza più significativa».
I bisogni non monetizzabili
Appare pertanto infondata l'ipotesi di rifiuto del lavoro tout court da parte dei giovani, quanto piuttosto un rifiuto del lavoro che fanno, che sono costretti a fare per vivere.
In altri termini dalle ricerche emergono elementi in linea con quanto si è avuto modo di constatare a proposito di altri Paesi industrializzati: i giovani che offrono lavoro prestano attenzione alle condizioni di lavoro, e soprattutto a quelle «non monetarie», e alle condizioni di vita, in misura molto maggiore che non i lavoratori adulti.
Già in un'inchiesta effettuata nel 1977 l'esame delle condizioni di lavoro considerate più importanti per i giovani già occupati (nei confronti del lavoro scelto) o per i giovani desiderosi di un lavoro (per l'attività desiderata) conduceva a rilevare una particolare attenzione alle condizioni «non-monetarie» del lavoro: tra le condizioni del lavoro svolto emergeva un rilevante interesse per le possibilità di studiare contemporaneamente, il prestigio del lavoro, i vantaggi dati al personale, le prospettive di miglioramento; tra le condizioni del lavoro desiderato, emergono la sicurezza del posto di lavoro, il tipo di lavoro, l'interesse per il lavoro che si fa, prima del guadagno attuale che continuerebbe però a rivestire un'importanza tutt'altro che trascurabile.
Dall'indagine emerge dunque «una sottolineatura degli aspetti professionalizzanti, la ricerca di sicurezza e di tutela, la presenza di elementi di rigidità ma anche di disponibilità estrema» (Frey).
Non mancava la constatazione di una non trascurabile propensione alla mobilità, motivata soprattutto dalla speranza di trovare un posto migliore, dall'insoddisfazione per il lavoro svolto e dal desiderio di un lavoro fisso. Essa riguardava prevalentemente i giovani maschi, sotto i vent'anni di età, appartenenti a gruppi sociali medio-bassi, residenti in regioni centro-meridionali. La flessibilità maggiore si rivelava per la figura mista dei lavoratori/studenti. La rigidità dei giovani studenti e ad elevato livello di istruzione si esprimeva in particolare nei confronti dei posti di lavoro incoerenti con il titolo di studio (e con le aspettative connesse) e sembrava notevole specialmente là dove il sostegno economico della famiglia, anche se limitato, consentiva di attendere un posto di lavoro ritenuto soddisfacente.
Conclude l'indagine di Frey: «Ecco quindi emergere anche in Italia, sia pure in modo probabilmente meno diffuso che in altri paesi industrializzati, aspetti di flessibilità dal lato dell'offerta di lavoro dominati dal confronto tra diverse condizioni di lavoro e della conseguente ricerca di condizioni migliori, in misura notevole condizioni «non monetarie»... L'analisi dei dati conduce a considerare il ruolo, tutt'altro che irrilevante, delle condizioni di vita nel sollecitare presso vari gruppi di giovani la ricerca di flessibilità del lavoro dal lato dell'offerta. Tra le condizioni di vita appare importante per i diplomati, accanto al diffuso desiderio di ridurre al minimo i tempi di spostamento/trasferimento e di disporre di tempo libero o per attività politico-sociali in misura maggiore, la possibilità di studiare». Anche studi ed inchieste fatte in Europa rivelano la crescente esigenza di flessibilità dal lato dell'offerta di lavoro, voluta in vista di migliori condizioni di lavoro via via nel tempo nonché di migliori condizioni di vita.
E l'affermazione recente delle figure miste del lavoratore/studente e della lavoratrice/casalinga sollecita lo spostamento dell'attenzione dalla flessibilità dell'offerta di lavoro in termini di persone alla flessibilità in termini di ore (lavoro part-time o durante le vacanze, esperienze di lavoro combinate attraverso la scuola, comunità di lavoro). La figura del lavoratore/studente che offre lavoro in determinati periodi dell'anno e/o per alcune ore del giorno nel corso degli studi, pur essendo formalmente impegnato in processi formativi a tempo pieno, appare molto diffusa negli ultimi anni, e in maniera crescente nei paesi industrializzati.
L'indagine della GiOC
Anche l'indagine della GiOC, diretta da Franco Garelli, conferma l'attenzione dei giovani al lavoro, considerato come un aspetto importante della propria vita, superando così l'ipotesi del rifiuto; e vede confermata pure l'attenzione dei giovani verso quegli aspetti del lavoro che non sono monetizzabili: come il significato del lavoro, l'esigenza di spazi personali soddisfacenti, l'esigenza di realizzazione. Il quadro tuttavia è complicato dal fatto che accanto a questi sono presenti anche aspetti garantisti, e i valori acquisitivi dello stipendio e della carriera. Tutto questo induce a vedere una polivalenza di significati attribuiti dai giovani al lavoro, pur nella comune accettazione di esso.
«In sintesi, nonostante le differenze tra i vari tipi di giovani, si può avallare l'ipotesi di relativa omogeneità dell'atteggiamento dei giovani nei confronti del lavoro, non riducendolo però a pura ricerca di significato indipendentemente da attenzioni garantiste e da elementi acquisitivi.
Considerato probabilmente come un aspetto necessario, i giovani sottolineano quegli aspetti del lavoro che più sono in linea con le loro esigenze di realizzazione personale. Il lavoro quindi come una dimensione della propria vita, recuperando in tempi recenti aspettative e motivazioni che servono a dare ad esso una dimensione più umana, a superare impostazioni conflittuali e condizioni di anonimato sociale, a comporre qui le eventuali istanze garantiste e l'impostazione economicistica e il miglioramento di status con altre dimensioni (condizioni di lavoro, qualificazione, interesse e utilità sociale) in grado di rendere anche il lavoro umanamente più comprensibile e vivibile nel bilancio di senso dell'individuo».
ALCUNI PUNTI CRITICI
L'analisi della GiOC con le interessanti riflessioni di Garelli ci permettono di evidenziare alcuni temi problematici, che da un punto di vista educativo bisogna tenere in adeguato conto, e che non permettono di considerare troppo accertato e pacifico il rapporto dei giovani col lavoro.
Tanto per cominciare, il difficile rapporto scuola-lavoro: non solo l'ormai classico scollamento tra mondo dell'istruzione e mondo della produzione, quanto piuttosto il fatto che la miriade di lavori offerti al giovane si incroci con una scuola che non prepara al lavoro concreto; e inoltre la difficile compresenza tra scuola e lavoro che condiziona scelte e prospettive di vita.
Ancora, il fatto che il lavoro precario viene sempre più assumendo il carattere di componente strutturale della domanda e offerta di lavoro: rimane così caratterizzato dalla assoluta provvisorietà, dall'offerta di minori tutele, garanzie e prospettive.
Il problema a questo punto è tanto delle implicazioni antropologiche («conduce all'avventura individuale vissuta al di fuori dei vincoli del sociale organizzato, di un progetto che orienta la vita»), quanto delle condizioni reali a cui è sottoposto.
E inoltre una considerazione da non tacere riguarda i tempi e i luoghi della socializzazione lavorativa e dell'identificazione sociale.
Il giovane non si identifica più col lavoro; esso è una parte importante ma marginale della sua vita; la strumentalità sembra l'elemento di fondo di questo rapporto (soprattutto in riferimento alle attività inserite nei mercati del lavoro ufficiali). Bassi-Pilati nel loro studio sui giovani denunciano i pericoli di questa visione:
«Il lavoro è strumento. adempimento sociale: l'emancipazione, il progetto si collocano (e nel momento stesso si perdono) fuori di esso, nel campo del consumo, della concretezza sociale: del privato. La proletarizzazione delle figure intermedie del processo sociale è, ci sembra, soprattutto questo: astrazione del lavoro, riconoscimento pratico dell'alienazione, ricerca di un risarcimento materiale nel consumo. I giovani, quelli che riescono ad entrare per la porta stretta del mercato del lavoro, lo sanno perfettamente: è questa, forse, la prima generazione che sperimenta a livello di massa, in modo consapevole, il decentramento del lavoro rispetto al proprio progetto di vita». (...)
«In ognuno dei modi in cui il lavoro si presenta di fronte ai giovani emerge una costante: la scissione tra lavoro e progetto, tra lavoro e sviluppo. Nel momento in cui se ne riconosce l'alienazione, la compiuta strumentalità, si nega al lavoro ogni qualità di fine. Il fine manca in quanto, attraverso l'astrazione e la provvisorietà, il lavoro denuncia -senza lasciare campo all'illusione - l'impossibilità di svilupparsi, di crescere come luogo della creatività.
La separazione dalla decisione e dal sapere negano al lavoro la possibilità di uno sviluppo costruttivo: dove si smarrisce la creatività (il sapere, la decisione) si perde anche il fine. Il lavoro, riconosciuto nella sua alienazione, esce dalla dimensione del tempo, della costruzione. La sua immobilità, parcellizzata e provvisoria, lo riduce a condizione materiale della vita, vincolo pratico. Non arricchisce l'esperienza, ne condiziona soltanto i modi di costituzione, Non costruisce la personalità, ne vincola solo i momenti di crescita.
In queste condizioni la perdita della finalità del progetto rappresenta anche una riduzione della socialità» (pag. 53 ss.).
Aris Accornero continua sullo stesso tono:
«Ora, non è tanto la durata, quanto la separatezza rispetto al lavoro e l'indeterminatezza delle prospettive che possono trasformare il passaggio attraverso l'adolescenza in un'emarginazione sociale o in un limbo esistenziale, accorciato quando il bisogno lo stronca nel lavoro minorile, allungato quando l'attesa lo stempera in un accumulo via via più distratto di conoscenze vane».
E si pone dei problemi cruciali.
«Che tipo di incontro è dunque questo con il lavoro, un'esperienza altrettanto importante dell'incontro con il sesso? Quali conseguenze possono venirne, nella miriade di casi e di situazioni? La precarietà ha sicuramente delle conseguenze, ma non è solo questo che conta, nel primo lavoro. Per esempio, quanto spazio dà al bisogno di fare cose utili, che nei giovani - soprattutto quando cominciano - non è meno vivo della soddisfazione di fare cose interessanti? È un momento in cui prevalgono la curiosità e la socialità. Quando queste vengono deluse con lavori che risultano stupidi, non tanto perché non se ne vede il senso ma perché se ne disapprova lo scopo, allora l'estraneità sopravviene precoce, si accentua la provvisorietà e l'approccio si mercantilizza... Quando i giovani si accostano al lavoro, lo fanno anche per fare una esperienza di vita. Semmai sarà poi il tipo di lavoro incontrato, l'ambiente di lavoro capitato, i compagni di lavoro trovati, a dirgli che quella non è vita».
In ultimo, le difficoltà di rapporto dei giovani col lavoro (lavoro sì, anche precario, ma marginalizzato, incapace di dare identità e di socializzare) sono segno forse di una crisi più ampia.
Una crisi volta da una parte alla ricerca di una nuova qualità del lavoro: i giovani denunciano infatti l'industrializzazione, amano la natura e l'ecologia, ricercano nuove forme alternative di energia, ritornano alla campagna e alla vita frugale, pur sentendo sempre, molte volte cedendo, al «fascino discreto» della vita borghese.
Essi insomma invocano un lavoro «liberato» («liberare il lavoro» è lo slogan corrente).
E dall'altra è una crisi che prelude a nuove forme di socialità, a una qualità diversa della vita: il rilancio dei bisogni non monetizzabili si accompagna alla ricerca del «senso» invece che del «valore».
Che attraverso il senso del lavoro non rientri anche il senso della vita?
BIBLIOGRAFIA
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Inchiesta GiOC, I giovani degli anni '80. Atti del convegno nazionale della GiOC (Torino, 2223 novembre 1980), Edizioni Cooperativa Don Milani, via Perrone 3, Torino. Convegno de «Il manifesto», Relazioni e interventi (in particolare quelli di Rossanda e Bologna), Milano 1980.
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