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    Esperienze di preghiera: la liturgia pasquale


     

    Chiesa e giovani

    Carlo Molari

    (NPG 1983-07-36)


    La liturgia pasquale può diventare per i gruppi giovanili luogo privilegiato di preghiera e di esperienza cristiana.

    Una delle offerte più frequenti che oggi le comunità cristiane riservano ai giovani è costituita da esperienze di preghiera. Esse perciò oggi sono i luoghi più frequenti di socializzazione nella fede, i momenti attraverso cui una generazione trasmette alla successiva i suoi ideali, le acquisizioni vitali, le speranze per il futuro.
    Il periodo di Pasqua è uno dei più utilizzati attualmente per questo tipo di esperienze. Ne presento una in modo generico, senza riferimenti locali, per il valore paradigmatico che essa ha, comune a numerose altre iniziative prese nello stesso periodo in molte parti d'Italia.
    Un gruppo di una sessantina di ragazzi provenienti da tre diverse zone d'Italia si ritrovano per il triduo pasquale. Il ritmo dei tre giorni è scandito da una proposta di catechesi, da un momento di confronto in gruppo, dalla liturgia e da momenti di gioco.
    La catechesi del giovedì santo riguarda la vita cristiana come servizio: io sto in mezzo a voi come uno che serve (Le 22,27). La chiesa, ogni comunità cristiana nel mondo, dovrebbe caratterizzarsi per un servizio continuo a favore del mondo. La liturgia celebra questa dedizione senza riserve ogni giorno. Il giovedì santo lo fa con espressioni e toni molto accentuati: la lavanda dei piedi «anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri» (Gv 13,14); il ricordo dell'ultima cena «questo è il mio corpo dato per voi», «questo è il mio sangue versato». Il sacramento viene portato nel bosco sotto una tenda e là restano in meditazione a gruppi i ragazzi. Nella notte una paraliturgia raccoglie canti e preghiere come un mazzetto di fiori da deporre all'ingresso della tenda.
    Il venerdì è dedicato alla riflessione sul dolore nella vita dell'uomo. L'esperienza di Cristo è illuminatrice: non si possono vivere ideali autentici senza incontrare opposizione e contrasti.
    Per portare le sofferenze della fedeltà senza tentennamenti e paure occorre avere dei riferimenti sicuri. La fede in Cristo può esserlo solo se si hanno ben chiare dinnanzi agli occhi le componenti del suo dolore. Per Gesù affrontare la sofferenza e la morte costituì un'avventura reale e non solamente una recita come molti sospettano.
    Chi attribuisce a Gesù la visione beatifica o anche solo la conoscenza perfetta di tutto ciò che gli doveva accadere, priva la sofferenza di Gesù di un dato squisitamente umano che è l'angoscia dell'incertezza e la paura dell'ignoto.
    Se egli fu «in tutto simile a noi fuorché nel peccato» (GS 22, EV 1; cfr Eb 4,15), anche il suo dolore fu completo da un punto di vista umano.
    La sofferenza e la morte di Gesù fu voluta e causata dagli uomini.
    Per lungo tempo la teologia utilizzò formule ambigue per parlare della condanna di Gesù come se fosse voluta dal Padre per soddisfare la giustizia divina offesa dai peccati degli uomini. Non può essere certo un grave delitto a placare la giustizia divina, che d'altra parte non può essere giudicata alla stregua delle reazioni umane. Gesù ci ha salvato perché ci ha mostrato l'amore di Dio e la sua misericordia, perché ha donato lo Spirito della vita nuova agli uomini da parte di Dio. La morte è stata un momento supremo di amore misericordioso e di perdono proprio perché decisa contro ogni criterio di giustizia dagli uomini. Per questo Dio lo ha glorificato e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome (Fil 2,9): il nome di Messia e Signore (At 2,36).
    Gesù visse perciò il momento dell'odio e della violenza in modo tale da renderlo salvifico. Portò il peccato degli uomini senza esserne schiacciato; portò il dolore mortale continuando ad amare e ne emerse vivo. Continuò a compiere la volontà del Padre (annunciare il Regno, perdonare i peccatori, amare senza riserve) anche quando la fedeltà comportava la morte. Per questo Dio lo ha costituito principio di vita, per tutti coloro che gli obbediscono.
    La liturgia del Sabato santo si presta in modo straordinario a rinnovare la fede a Cristo e agli ideali che egli ha vissuto. Se ancora dopo duemila anni ci riuniamo a ricordare la sua avventura umana finita tragicamente e in modo disonorevole, se esistono ancora uomini che in nome suo decidono della propria esistenza, è solo perché la fede in lui rende ancora possibile la decisione fondamentale di vivere. In nome suo è ancora possibile amare senza riserve, perdonare senza ricatti, impegnarsi per la giustizia e offrire la vita. Il cammino antico della umanità è riassunta nella storia di un popolo da cui Dio poté suscitare un Messia per tutti.
    Ma il nuovo cammino, quello che apre il futuro, è aperto da un popolo che testimonia la forza dello Spirito del Salvatore. La notte di Pasqua è la festa di questo nuovo popolo, nato come l'antico dal Passaggio nelle acque, e attraverso il travagliato sentiero nel deserto approdato alla patria della libertà. Ogni generazione che si affaccia alla storia deve rinnovare la propria decisione di intraprendere il cammino e di continuare la testimonianza.
    I giovani hanno espresso personalmente le propria adesione con una formula espressa nell'accendere al cero pasquale la propria piccola candela. «Perché chiedi la luce?» domandava il celebrante. La risposta era l'indicazione della propria testimonianza e la ragione della fede. Poi le promesse battesimali e il canto dell'alleluia. I sacramenti quotidiani non sono che la ripetizione nelle diverse situazioni storiche di questo impegno rinnovato di vita: accogliere lo Spirito del risorto per divenire uomini vivi, autentici figli.
    Celebrare la Pasqua per una comunità cristiana è consegnare la fiaccola della fede alla generazione che nasce, è passare il «testimone» al corridore che incalza.


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