Società e giovani
Claudio Bucciarelli
(NPG 1984-02/3-93)
Paure individuali e paure collettive rivelano, in un sondaggio del Censis, l'avvenuta rimozione della complessità sociale e una complessiva fragilità sul piano dei valori e del senso della vita.
Nel maggio 1983 il Censis ha effettuato un sondaggio su un selezionato campione di persone, distribuite sul territorio nazionale, alle quali è stata posta una domanda sulle situazioni di reale preoccupazione che hanno in sé tutti gli elementi per determinare stati incontrollabili ed irrazionali di ansia o di angoscia.
Gli intervistati hanno indicato una graduatoria percentuale così articolata:
1. La morte di una persona cara (76,2)
2. Una prolungata situazione di impedimento fisico (66,1)
3. Un furto e una violenza fisica subiti (52,2)
4. L'esplosione della guerra atomica (51,4)
5. La rottura definitiva del rapporto con il partner o con una persona amica (45,6)
6. Un cataclisma naturale, come il terremoto (43,2)
7. La propria morte (42,1)
8. L'affermarsi nel nostro paese di un sistema politico totalitario (36,4)
9. Il pensiero di ciò che accadrà dopo la morte (17,7)
10. Il crollo dell'economia nazionale (16,9).
Come si può notare, gli items posti nella domanda mescolano insieme una diversa tipologia di reali preoccupazioni: vi sono paure di tipo «collettivo» o «ancestrale», paure collegate più direttamente a problemi «personali» o «sociali». I risultati del sondaggio mettono in evidenza che le ansie e le paure «individuali» trovano più larga udienza di quelle «sociali».
Di qui alcune emblematiche e sintetiche annotazioni.
È interessante notare, innanzitutto, come la «morte di una persona cara» sia collocata al 1° posto della graduatoria, mentre la «propria morte» ed il «pensiero di ciò che avverrà dopo la morte» siano solo al 7° e 9° posto. La cosa non deve stupire: vi è, infatti, una conoscenza nozionale e una conoscenza reale della morte.
Nel primo caso la morte entra nell'ambito delle conoscenze periferiche dell'uomo, di quelle cose che si sanno per averle apprese da altri, ma che non coinvolgono direttamente e realmente la conoscenza personale e quindi non innescano una vera «produzione di senso».
Nel secondo caso la morte si rivela come minaccia reale sulla vita e si manifesta in tutta la sua identità nell'esperienza della morte altrui, più esattamente nella morte dell'essere amato. In questo caso l'uomo si rende esistenzialmente conto di che cosa significhi essere mortali e di quale natura sia la vera natura della morte.
Infatti noi non abbiamo un'esperienza diretta della morte, nè possiamo assimilare un'esperienza del genere quando assistiamo in modo impersonale alla morte altrui, ma quando muore una persona a cui vogliamo bene o che amiamo profondamente, la morte allora ci colpisce nel vivo e nella profondità del nostro essere, perché il senso della nostra vita è radicalmente legato alla persona a cui eravamo uniti da un'autentica comunicazione umana o da una profondità del nostro essere, perché il senso della nostra vita è radicalmente legato alla persona a cui eravamo uniti da un'autentica comunicazione umana o da una profonda comunione. In questo caso la morte piomba, irrompe nella vita e appare come un violento uragano che, spezzando il vincolo dell'amore, rimette in discussione e in crisi il senso stesso dell'esistenza. Un solo atto di amore personale è sufficiente per cogliere concretamente il nucleo essenziale della morte umana. «Amare è dire: Tu non morirai!»: G. Marcel con questa perentoria affermazione preludeva al mito dell'amore più forte della morte. Ma tale mito che valore ha? Con la morte la realtà umana finisce o si ridefinisce?
Se da una parte le paure più direttamente individuali occupano i primi posti della graduatoria, dall'altra va osservato come le paure cosiddette collettive o ancestrali sono sì segnalate, ma con un certo distacco. Le paure, allora, come la propria morte o ciò che accadrà dopo di essa, la guerra atomica con la conseguente fine dell'umanità, un cataclisma naturale o il crollo dell'economia nazionale con tutto ciò che ne consegue, data forse la fragilità della «natura interna», il reale senso di impotenza che praticamente si prova e lo sgomento che deriva dall'aumento incontrollabile della complessità sociale, fanno sì che tali paure sembrano quasi «rimosse» o semplicemente «derubricate», accettate cioè passivamente con fatalità, indifferenza, quasi insofferenza.
La «complessità sociale» dunque non sembra essere nè «padroneggiata» nè «controllata», ma semplicemente «neutralizzata» e «rimossa» seguendo un criterio di difesa personale che punta più al mantenimento dello status quo che al mutamento e alla promozione di un'ulteriore umanizzazione. Le paure che sembrano angosciare maggiormente gli italiani, allora, sono quelle rientrano nella sfera di vita sociale sulla quale è possibile esercitare una diretta funzione di controllo; sono cioè le paure che riguardano il nostro vivere quotidiano e che hanno come oggetto la nostra inadeguatezza oppure la perdita di beni o strumenti indispensabili per controllare e programmare positivamente la nostra sfera di quotidianità. Sono quindi le paure che ci toccano da vicino giorno per giorno, come l'inadeguatezza fisica, il furto, la violenza o la perdita del partner e non quelle collettive o ancestrali sui grandi temi della nostra morte, della guerra, della stabilità economica e politica, della partecipazione e della giustizia sociale.
L'immagine che ne risulta è quella di un Paese che manifesta un attaccamento angoscioso a piccole sicurezze personali, grazie alle quali esercitare una minima funzione di controllo del proprio destino; di un Paese che denota una certa sfiducia nelle istituzioni per non essere compreso nei propri bisogni fondamentali e non essere gratificato nei ruoli e negli sforzi che si assolvono per la società; di un Paese che trasuda un chiaro senso di impotenza di fronte alla crescente e spesso caotica complessità sociale; di un Paese che dimostra una grande fragilità sul piano dei valori e del senso della vita.
Il campione degli intervistati era formato da persone adulte, e pur individuando nella sostanza delle loro risposte una buona dose di realismo sensato, c'è da dire che tale modello di interpretazione circa il modo con cui sono affrontati i problemi pecca alquanto di riduzionismo, perché la vita non «produce senso» se è fondata esclusivamente sull'adozione di un meccanismo di rimozione o di riduzione dei conflitti o della complessità.
Aveva ragione Mitscherlich quando affermava: «si vorrebbe vivere senza invecchiare ed invece si invecchia senza vivere!
È questo un monito per le nuove generazioni.