«Inside out»:
l'interiorità rivelata
Giovanni Arledler
Il più recente film di animazione di Pete Docter, prodotto dalla Pixar-Disney, sorprende non solo per il tentativo di superare i piccoli- grandi capolavori del passato - come la trilogia di Toy story, Wall-E [1], Up -, ma perché ci presenta il complesso mondo della nostra interiorità in una maniera così inedita, efficace e divertente, che coinvolge, stupisce e commuove non soltanto il pubblico dei piccoli e degli adolescenti, ma anche quello degli adulti.
Cose mai viste
Inside out ci mostra la storia di una ragazzina di undici anni, Riley Anderson, dai suoi primi istanti di vita al passaggio verso l’adolescenza e oltre. Riley ha una vita felice, in una casa sul margine di un bosco nello Stato del Minnesota. I suoi affetti, oltre a un’amica del cuore, Meg, sono tutti riposti in due genitori affabili e premurosi. La vita scorre serena e ordinata tra la scuola e il suo sport preferito, l’hockey su ghiaccio, finché un giorno, improvvisamente, la famiglia si trasferisce al sud, a San Francisco.
I credits del film vengono snocciolati mentre l’utilitaria di famiglia sta compiendo il viaggio attraverso gran parte degli Stati Uniti d’America.
In realtà, nei primi sette minuti del film abbiamo seguito la storia di Riley fin dal suo primo aprire gli occhi sul mondo con l’immagine dei propri genitori: questa sorpresa le ha strappato un gridolino di gioia e ha prodotto un ricordo racchiuso in una piccola sfera colorata e luminosa.
Questa pallina dorata è stata raccolta da una minuscola fatina, Joy (Gioia), multicolore ma tendente al giallo oro, apparsa un attimo prima all’interno della sua testolina. Gioia raccoglie la pallina luminosa e la instrada all’interno di una sempre più complessa rappresentazione di ingranaggi di pensiero e di mondi immaginari, isole fantastiche collegate tra loro e che, nel loro insieme, stanno edificando l’interiorità profonda e la personalità di Riley e possono guidare i suoi pensieri e il suo comportamento.
Ma a influenzare la sua e la nostra mente non c’è soltanto una bellissima fatina tuttofare: 33 secondi dopo il primo gridolino di gioia, in Riley affiora un motivo di pianto che si materializza al suo interno in un’altra fatina, Sadness (Tristezza), dal colore di un profondo azzurro, ma apparentemente l’opposto di Gioia - piccola, grassa, pigra, timida, pasticciona, con dei grandi occhiali -, che osserva anch’essa ogni avvenimento con grande curiosità.
Ma il mondo interiore, anche quello di una bambina, è decisamente più complesso. A mettere in guardia Riley dai mille pericoli che possono minacciare la vita dei più piccoli, sul far dei due anni, compare il violaceo Fear (Paura), sempre all’erta per ciò che può andare storto e nel timore di infinite malattie.
Intanto Riley ha imparato a camminare, perfino ad andare sui pattini da ghiaccio, e segna, avventurosamente, il primo goal in una partita di hockey, oltre a fare i capricci come tutti i bambini. Ha un’istintiva avversione per i broccoli bolliti, in ciò istigata dalla verde Disgust (Disgusto). Se il padre la rimprovera per questo, si intromette infine il rosso Anger (Rabbia), che teme ogni sorta di prepotenza e prevaricazione ed esplode con urla e proteste.
Ogni esperienza, ogni azione, ogni sentimento continuano a formare infinite palline colorate, che vanno ad arricchire i depositi-silos nel cervello di Riley e completano sempre più il suo mondo interiore.
Con gli anni, diviene sempre più ricca ed efficace la consolle tramite la quale questi cinque piccoli geni colorati - Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto, Rabbia - danno a Riley i loro suggerimenti. Potremmo pensare che questi folletti interiori siano in eterno conflitto tra loro, invece rispettano una certa gerarchia, che segue abbastanza l’ordine della loro comparsa all’interno di Riley: Gioia appare come la leader e sembra avere sempre più bisogno dell’aiuto di Tristezza; gli altri, per fortuna, intervengono più raramente.
Imprevisti e contrarietà
Tutto sembra andare per il meglio, e Gioia ne è molto soddisfatta, ma, come un fulmine a ciel sereno; appare un cartello che mette in vendita la casa di Riley e dei suoi; un furgone sta caricando gli ultimi mobili e, poco dopo, vediamo l’utilitaria della famiglia Anderson che inizia il viaggio per arrivare, dopo un certo tempo, a San Francisco, dove tutto, a iniziare dal famoso Golden Gate, non è proprio come lo si era immaginato.
Il piccolo edificio che contiene il nuovo appartamento è piuttosto scialbo e si spera che l’interno sia migliore, ma gli imprevisti e le cose che vanno storte non sembrano aver fine: il camion con i mobili si è perso in Texas e il suo arrivo è annunciato con un ritardo sempre maggiore.
Attingendo ai suoi ricordi, Riley cerca di reagire a tutte queste contrarietà e improvvisa una divertente partita di hockey con i suoi, ma, nonostante sembri la più equipaggiata a reagire - avevamo visto solo il suo mondo interiore, ora vediamo anche quelli di papà e mamma, i cui rispettivi folletti conservano un che di infantile - tutto sembra congiurare contro di lei: presentandosi nella nuova scuola, si confonde e si rattrista; l’amica del cuore l’ha rimpiazzata con un’altra che la capisce al volo senza bisogno di parole; il provino con la nuova squadra di hockey termina quasi prima di cominciare per il ritorno di un ricordo demotivante, che invece più avanti si rivelerà fondamentale per la sua nuova stabilità.
Intanto ciò che avviene all’interno di lei sorprende lo spettatore più scaltro e informato: ad ogni delusione e smacco si sgretolano e crollano le ideali isole felici della «stupidera» [2], dell’amicizia, dell’hockey, dell’onestà, della famiglia, e a peggiorare le cose ci pensano Gioia e Tristezza, che naturalmente non si sono mai trovate in una situazione del genere. Gioia crede che si possano stabilmente prendere le cose in positivo, senza il minimo cedimento; anche Tristezza prova sempre a fare qualcosa di maldestro, ma intanto si evolve e rappresenta sentimenti e atteggiamenti più sfumati, come perplessità, preoccupazione, attesa e perfino ascolto e condivisione, e finisce con il suggerire inconsapevolmente a Gioia ipotesi e comportamenti più complessi, meno spontanei o evidenti.
Gioia, sempre sicura, appunto, di potercela fare, viene risucchiata per una mossa falsa nel complesso mondo interiore di Riley, una realtà piena di fantasie, luoghi immaginari, personaggi di ogni genere, dai più teneri ai più paurosi, e, se non perdesse e ritrovasse più volte Tristezza (che è finita, ormai quasi come un suo doppio, dietro di lei), rischierebbe di perdersi per sempre.
Ma l’aiuto più grande le viene dall’incontro con un ricordo ormai lontano di una Riley di pochi anni e si chiama Bing Bong, un grosso pupazzo rosa - un po’ gatto, un po’ elefante, un po’ delfino -, che tra le fantasie preferite aveva perfino progettato un viaggio immaginario sulla luna, tramite un carrettino, bilanciato da due scope che fungevano da razzi. Bing Bong sembra muoversi tra i ricordi base e quelli che stanno per essere dimenticati e conosce tutto, perfino l’inconscio, del mondo interiore di Riley e anche lui ha un sacchettino, con i ricordi più belli, e li lascerà in eredità a Gioia.
Con tutto il mondo delle fantasie e dei ricordi di Riley, che continuano a frantumarsi e a dissolversi sempre più, Bing Bong e Gioia finiscono nel grande burrone dell’oblio, e mentre il primo pian piano svanisce - è il momento più emotivamente drammatico per gli spettatori più piccoli - in mezzo a un mare di palline che perdono il colore e si stanno spegnendo, Gioia, guidata dalla sua determinazione e spinta dal carrettino con le due scope-razzo, riesce a emergere dal luogo senza ritorno e a rientrare - grazie ancora a un’altra grande invenzione e a un altro salto impossibile - verso la stanza della consolle e dei bottoni, dove Paura, Disgusto e Rabbia non sono riusciti a combinare un granché. Anche Tristezza, per suo conto, riesce a tornare alla consolle insieme a Gaia. E arrivano appena in tempo, perché nel frattempo Riley, sempre più presa dallo sconforto, ha deciso di tornare da sola in Minnesota, rubando la carta di credito a sua madre per pagarsi il viaggio, provocando così la quasi totale distruzione del suo mondo interiore e dei suoi valori.
Nel suo intimo, il lavorio incessante di Gioia e Tristezza ha messo in luce la vera natura del più importante dei ricordi rimasti, che non era completamente positivo come potevamo aver capito in un primo momento. Infatti, man mano che la storia va avanti, vediamo una versione sempre più completa di quel ricordo, che mostrava originariamente solo Riley portata in trionfo dalla sua squadra di hockey: il ricordo completo, invece, partiva da una Riley sola e sconsolata, perché aveva sbagliato il tiro decisivo a rete, e ci mostra, poi, l’arrivo dei genitori a consolarla e, finalmente, la comparsa di tutta la squadra dei suoi amici, che la porta in trionfo come se avesse segnato la rete decisiva e vinto la partita e il campionato.
Così Riley, partita dall’infanzia, i cui ricordi assieme a Bing Bong sono ormai quasi del tutto dimenticati, supera forse anche la prima fase dell’adolescenza o della «stupidera » e fa qualche passo verso la maggiore età, come conferma un mondo interiore più ricco, che si è ricreato nella sua mente, e una consolle più grande e aggiornatissima, di cui possono disporre i cinque amici genietti racchiusi nella sua testa.
Semplificando, ma non troppo
Una parte della critica ha preso spunto dalla considerazione che la Pixar-Disney non poteva ancora a lungo riposare sugli allori, e allora ha sentito il bisogno di provare a superare quanto fatto in precedenza. E questo non tanto facendo leva sugli accorgimenti tecnologici per migliorare l’animazione, ma basandosi sulla credibilità e drammaticità di una storia e del suo impatto emotivo su vari tipi di spettatori.
Per certi aspetti, Inside out sembra tener presente Up, uno dei precedenti film dello stesso regista Pete Docter. Se in Up si partiva da provocazioni e incoraggiamenti offerti a un anziano per uscire dal grigiore della sua vita e sollevarsi «in alto» con la fantasia e l’avventura, in Inside out si scava invece «nel più profondo», nell’interiorità e nei sentimenti di una bambina, rappresentando concretamente i meccanismi complessi della psiche e chiamando a raccolta tutti i personaggi del regno delle fiabe, dell’immaginario e della macchina dei sogni aggiornati ai nostri tempi.
Se è pur vero che qualche soluzione può apparire semplicistica o perfino errata [3], ci sembrano però validi e indovinati parecchi spunti che rendono sorprendente il racconto e che forse faranno riflettere gli spettatori al di là del proporci come modello una famiglia statunitense di ceto medio o del farci osservare che le «verdurine», e in particolare i broccoli bolliti, non piacciono ai bambini di mezzo mondo.
Non si può non restare colpiti dalle tappe della crescita di Riley e da ciò che avviene al suo interno, per esempio l’evoluzione di Tristezza [4], che finisce per condizionare Gioia, la quale, sempre di più, impara che non può fare a meno di confrontarsi con lei, tutta azzurra, bella, rotonda e piena [5], incarnando difficoltà e sentimenti da integrare, perché anche questo è il sale della vita. Sembrerebbe esagerato che per un cambiamento di domicilio, un concatenarsi di avvenimenti che vanno storti (e non si deve dimenticare che il tutto è accaduto per le esigenze di lavoro del papà e, anche da quel lato, sembrano sorgere altre difficoltà), l’apparente poca partecipazione ai suoi problemi da parte dei genitori ecc., in pochissimo tempo il mondo interiore, i sentimenti, la memoria, l’onestà di Riley, tutto sprofondi in un terribile burrone dal quale è impossibile risalire. È comunque un ammonimento alla non superficialità.
Tra le finezze del film, la figura di Bing Bong rappresenta la parte migliore di Riley e di noi stessi, ma è forzatamente legata all’infanzia, quando si possono mescolare insieme un gatto, un delfino e un elefante senza dover render conto a nessuno. Che il frutto migliore della nostra fantasia sia una sorta di angelo custode, che supera se stesso per salvarci e accetta di essere dimenticato perché Riley possa diventare più grande è, innegabilmente, un bellissimo messaggio.
Tra i contenuti minori di una sceneggiatura molto accurata, ricordiamo che la fabbrica dei sogni notturni della protagonista è una sorta di studio televisivo che vivacchia con personaggi e storie che sono molto improvvisate e rabberciate rispetto agli originali: una giusta provocazione da parte di una cinematografia che nei suoi esiti migliori, a cominciare da quelli d’arte vera e propria, è ancora lontana dall’essere avvicinata dalla TV, una piccola musa che tende a rimanere un’arte decisamente minore.
NOTE
1. A. Spadaro, «Wall-E, un film di animazione alla ricerca della verità dell’uomo», in Civ. Catt. 2008 IV 319-324.
2. Il neologismo è stato inserito nel vocabolario Zingarelli nel 2009.
3. Manca, anche se stiamo parlando di una bambina, qualche serio accenno alla razionalità e alla responsabilità personale.
4. Forse gli autori della sceneggiatura si sono ispirati a un testo di A. V. Horwitz - J. C. Wakefield, The Loss of Sadness, New York, Oxford University Press, 2007 (in it. La perdita della tristezza. Come la psichiatria ha trasformato la tristezza in depressione, Roma, L’asino d’oro, 2015).
5. Alcuni dei personaggi fantastici sono resi con una particolare fisicità che sembra quella dei pupazzi di peluche.
© La Civiltà Cattolica 2015 IV 601-606 | 3972 (26 dicembre 2015)