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    Fragili e scalzi: gli antieroi


     

    Letteratura e formazione /8. Libri memorabili tra classici e contemporanei

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2010-09-71)


    In questi tempi nei quali sembra che la figura dell’eroe attraversi una crisi profonda a livello sociale, forse perché ne sono state smascherate le assurde pretese totalizzanti, è davvero curioso constatare che molte agenzie educative si ostinano a riproporre canoni «eroici» di educazione e di formazione volte ad ottenere figure «eroiche»; ma purtroppo oggi, soprattutto in campo militare la figura dell’eroe (maschile e virile!) viene riproposta, senza traccia di alcuna ironia e di autocritica. Ci sembra molto interessante, come contravveleno nei confronti di questa formazione di pericolosi superuomini, proporre la figura educativa dell’antieroe/dell’antieroina; ci pare allora che una educazione antieroica costituisca il vero eroismo della nostra quotidianità, e possa mostrare ai ragazzi e alle ragazze che è possibile opporsi al conformismo e all’omologazione non solo attraverso grandi gesti, ma anche e soprattutto con piccoli accorgimenti quotidiani, strategie minimali di resistenza e sopravvivenza che ciascuno e ciascuna possono mettere in atto; si tratterebbe di una declinazione a livello teorico sul piano delle proposte educative per il XXI secolo.
    In fin dei conti l’antieroe Cosimo di Rondò, protagonista del Barone Rampante di Italo Calvino, propone una forma di resistenza inedita, fantasiosa e coerente, quando per sfuggire alle provocazioni e alle umiliazioni del padre sceglie di passare la sua vita sui rami degli alberi:

    Vorsicht! Vorsicht! Ora casca, poverino! esclamò piena d’ansia nostra madre, che ci avrebbe visto volentieri alla carica sotto le cannonate, ma intanto stava in pena per ogni nostro gioco.
    Cosimo salì fino alla forcella d’un grosso ramo dove poteva stare comodo, e si sedette lì, a gambe penzoloni, a braccia incrociate con le mani sotto le ascelle, la testa insaccata nelle spalle, il tricorno calcato sulla fronte.
    Nostro padre si sporse dal davanzale.
    – Quando sarai stanco di star lì cambierai idea! – gli gridò.
    – Non cambierò mai idea, – fece mio fratello, dal ramo.
    – Ti farò vedere io, appena scendi!
    – E io non scenderò più! E mantenne la parola.[1]

    Anche i piccoli (Cosimo ha dodici anni), gli antieroi sono capaci di coerenza, di perseguire il proprio scopo fino in fondo.
    Ma quali sono gli altri tratti caratteristici dell’antieroe, e di conseguenza, quali le tappe di una pedagogia «antieroica», da contrapporre alle pedagogie eroiche, balillesche o da figli delle lupe che tanto male hanno fatto in Italia e in Europa in questo secolo?

    La normalità

    La prima caratteristica dell’antieroe sembra essere la sua normalità: normale è Co­si­mo, normali sono gli eroi inventati della Collina che raccoglie le ossa dei morti le cui storie sono narrate dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.

    Dove sono Ella, Kate, Mag,
    Edith e Lizzie,
    La tenera, la semplice, la vociona,
    l’orgogliosa, la felice?
    Tutte, tutte, dormono sulla collina.
    Una morì di un parto illecito,
    Una di amore contrastato,
    Una sotto le mani di un bruto
    in un bordello.
    Una di orgoglio spezzato,
    mentre anelava al suo ideale,
    Una inseguendo la vita lontano,
    in Londra e Parigi,
    Ma fu riportata nel piccolo spazio
    con Ella, con Kate, con Mag –
    Tutte, tutte dormono, dormono,
    dormono sulla collina.
    Dove sono zio Isaac e la zia Emily,
    E il vecchio Towny Kincaid
    e Sevigne Houghton,
    E il maggiore Walker
    che aveva conosciuto
    Uomini venerabili della Rivoluzione?
    Tutti, tutti dormono sulla collina.
    Li riportarono, figlioli morti,
    dalla guerra,
    E figlie infrante dalla vita,
    E i loro bimbi orfani, piangenti –
    Tutti, tutti dormono, dormono,
    dormono sulla collina.

    Certo, questo termine può essere inteso in una declinazione negativa; e la «malattia della normalità», l’acquiescenza nei confronti dei gusti e delle inclinazioni della massa, l’omologazione a tutti i costi che livella le differenze, è davvero uno dei maggiori rischi di questa epoca. Ma sono proprio le differenze individuali ad essere sottolineate da un’educazione antieroica; differenze a volte consistono nelle scelte radicali, come per Cosimo:

    – Cosimo, – principiai a dirgli, – hai sessantacinque anni passati, come puoi continuare a star lì in cima? Ormai quello che volevi dire l’hai detto, abbiamo capito, è stata una gran forza d’animo la tua, ce l’hai fatta, ora puoi scendere. Anche per chi ha passato tutta la vita in mare c’è un’età in cui si sbarca. Macché. Fece di no con la mano.[2]

    Differenze, che spesso sono microdiversità, risiedono nelle pieghe dell’intimo, e fanno sì che un individuo sia un mondo da salvaguardare; sono quelle differenze individuali, «normali» che ritroviamo nel libro di Masters, o se lo si preferisce, nella sua versione musicale, Non al denaro non all’amore né al cielo di Fabrizio de Andrè: si può definire eroico in senso virile e superomistico il ragazzo Johnnie Sayre, che sente il morso della locomotiva nella carne mentre marina la scuola?

    Babbo, non potrai mai sapere
    quanta angoscia mi strinse il cuore,
    per la mia disubbidienza, quando sentii
    la ruota spietata della locomotiva
    mordermi nella carne viva della gamba.
    Mentre mi portavano dalla vedova Morris
    vidi ancora nella valle la scuola
    che marinavo per salire di nascosto
    sui treni.
    Pregai di vivere finché potessi
    chiederti perdono e poi le tue lacrime,
    le tue rotte parole di conforto!
    Dal sollievo di quell’ora mi venne
    felicità infinita.
    Tu fosti saggio a far scolpire per me:
    «Strappato al male a venire».[3]

    Certamente no. Ma non è forse eroico il suo modo di sopportare il dolore, di affrontare la morte, di chiedere perdono al padre, di gettare l’ultimo sguardo sulla vallata e sulla sua vita adolescente che scompare? Non è eroico il soldato di Addio alle armi di Ernest Hemingway (che qualche bene informato si ostina a definire fascista) che compie il gesto più antieroico che un militare possa compiere: la diserzione? E non è forse un manifesto dell’antieroicità la dolcezza con la quale Cosimo insieme al fratello veglia sugli ultimi minuti di vita della madre?

    Ci fu una giornata di sole. Cosimo con una ciotola sull’albero si mise a fare bolle di sapone e le soffiava dentro la finestra, verso il letto della malata. La mamma vedeva quei colori dell’iride volare e riempire la stanza e diceva: – O che giochi fate! – che pareva quando eravamo bambini e disapprovava sempre i nostri divertimenti come troppo futili e infantili. Ma adesso, forse per la prima volta, prendeva piacere a un nostro gioco. Le bolle di sapone le arrivavano fin sul viso e lei col respiro le faceva scoppiare, e sorrideva. Una bolla giunse fino alle sue labbra e restò intatta. Ci chinammo su di lei. Cosimo lasciò cadere la ciotola. Era morta.[4]

    Sorridere con gli altri

    Altra caratteristica dell’antieroe è il suo rapporto peculiare con il proprio fisico. Non è necessariamente vero (fa parte anzi degli armamentari della retorica) che l’antieroe debba per forza essere magro/a, gracile e senza muscoli; ma l’attenzione al proprio corpo, la capacità di trarne significati differenti da quelli dati per scontati, di sottrarlo alla dittatura della moda è il tratto distintivo dell’antieroe: lo si vede nelle evoluzioni di Cosimo, leggero come un uccello e agile come una scimmia, un ragazzino che reinventa il suo corpo ad ogni salto di ramo
    È poi l’ironia un tratto vincente dell’antieroe; ci sia permesso; ironia che però non è ridere degli altri; ma sorridere con gli altri; che si concretizza più nel riso lieve e nel sorriso che nella grassa risata (spesso alleata con il forte e il potente nella derisione del debole); che infine porta a scoprire i buchi neri e i doppi fondi del reale, che i muscolosi eroi non vedono, impegnati negli esercizi con gli estensori! Una ironia che permette anche di andare incontro alla morte in modo leggero, come fa Conrad Siever, il venditore di sidro amato dai bambini del villaggio mastersiano, che chiede di essere sepolto sotto il melo per poter transitare poi nel sidro e tornare dai suoi adorati bambini:

    «(...) qui sotto il melo
    che amavo, vegliavo e sarchiai
    con dita nodose
    per lunghi, lunghi anni;
    qui sotto le radici della vedetta del Nord
    aggirarmi nel moto chimico della vita,
    nel suolo e nella carne dell’albero,
    e negli epitaffi viventi
    di mele più rosse!».[5]

    I propri limiti

    La conoscenza dei propri limiti ci sembra un’altra caratteristica dell’antieroe; conoscenza che si muta anche in osservazione di quelli altrui; è proprio perché l’eroe/l’eroina sa di essere solo un uomo/una donna, che capisce che anche il suo avversario è solo umano; l’antieroe ha paura, conosce i propri limiti e sa che oltre di essi può esserci la morte: ma egli sa anche forzare i limiti per la spinta sovrumana dell’amore, come per il malato di cuore Francis Turner:

    Non potevo correre o giocare
    da ragazzo.
    Da uomo potevo solo sorseggiare
    dalla coppa, non bere –
    perché la scarlattina
    mi aveva lasciato il cuore malato.
    Ora giaccio qui confortato da un segreto che nessuno
    tranne Mary conosce:
    c’è un giardino di acacie,
    di catalpe, e di pergole dolci di viti –
    là quel pomeriggio di giugno
    al fianco di Mary –
    baciandola con l’anima sulle labbra
    all’improvviso questa prese il volo.[6]

    Ma conoscere i propri limiti significa anche acquisire una profonda saggezza, quasi la quadratura del cerchio tra gioventù ed esperienza che un altro dei morti di Spoon River, Alexander Trockmorton, non ha invece saputo ottenere:

    Da giovane, le mie ali erano forti
    e instancabili,
    ma non conoscevo le montagne.
    Da vecchio conoscevo le montagne
    ma le mie ali stanche non potevano
    tener dietro alla visione –
    il genio è saggezza e gioventù.

    L’antieroe è infine intelligente; non scaltro, non furbino, non abile a sgattaiolare attraverso le mille trappole del potere solo per salvaguardare la propria esistenza; l’intelligenza non è in lui/lei del tutto asservita all’autoconservazione, ma è giocata per creare alleanze con i deboli e gli esclusi; è una intelligenza che non costruisce le mine antipersona, ma che sa vedere le mille pieghe del reale, sa scorgere le crepe dove gli altri vedono solo muraglie invalicabili.
    È l’intelligenza di Henry Fonda che nello splendido La parola ai giurati vuole convincere undici giudici popolari non dell’innocenza di un imputato (di cui lui per primo non è del tutto convinto) ma della necessità di ammettere i propri dubbi, specialmente quando si ha a che fare con la morte di una persona; è l’astuzia profondamente umana del tenente Colombo (anche quanto a fisico ci sarebbe molto da dire, perdoni il grandissimo Peter Falk) che alla fine comprende le ragioni di alcuni tra i suoi assassini, ma li chiude in una morsa logica che li costringe ad abbandonare il loro glaciale distacco per recuperare la loro dimensione umana – fosse pure di assassini!
    Una educazione antieroica parte dunque dagli alberi di Cosimo o dalla terra che accoglie le spoglie dei morti di Spoon River; una terra che poi nutre altri alberi per Cosimo, che a sua volta si addormenterà in cielo ma senza rinnegare il suo amore per la terra (la sua epigrafe: «Visse sugli alberi, amò sempre la terra, salì in cielo»).[7] Che nell’antieroicità sia celato il segreto, ciclico e sempre nuovo, della vita e della morte?


    NOTE

    [1] Italo Calvino, Il barone rampante, Torino, Einaudi, 1980, pag. 14.
    [2] Ivi. 126.
    [3] Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, Milano, Mondatori, 1980, pag, 121.
    [4] Calvino, cit., pag. 85.
    [5] Masters, cit., pag. 231.
    [6] Ivi, pag. 127.
    [7] Calvino, cit. pag, 127.


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