Apprendere dall’esperienza /1
Michele Pellerey
(NPG 2010-01-59)
Se c‘è una parola che molto spesso è sulle labbra di giovani e anziani, questa è «esperienza». Più di duemila anni fa Aristotele affermava che i giovani non possono essere saggi, perché mancano di esperienza. Questi ultimi insistono presso i loro genitori per avere più libertà di movimento per fare nuove esperienze. I genitori sono invece preoccupati per l’effetto deleterio che certe esperienze negative possono produrre: sanno bene l’influsso positivo o negativo delle compagnie frequentate dai loro figli. In ambito pastorale il ruolo positivo e negativo delle esperienze è evidente. Fin dalla prima infanzia alcune disposizioni interiori verso la preghiera, verso l’incontro con Gesù, nascono dall’esperienza di un clima famigliare aperto alla dimensione spirituale e religiosa dell’esistenza. Per contrasto, sperimentare fin da piccoli l’assenza di tale apertura o l’ostilità verso le cose di chiesa o di religione tende a favorire l’estraneità, se non l’avversione.
In generale si può dire che ogni apprendimento è basato sull’esperienza e, viceversa, che ogni esperienza promuove apprendimento, nel bene e nel male. Un’esperienza negativa può portare a sviluppare pensieri, atteggiamenti e comportamenti negativi verso ambienti, situazioni, persone, organizzazioni, oggetti. Viceversa, un’esperienza positiva sollecita pensieri, atteggiamenti, comportamenti positivi. L’apprendimento, anche quello scolastico, per essere tale implica una partecipazione attiva, affrontare una nuova esperienza, accettare la sfida di far proprio qualcosa che ancora non si possiede. Ciò vale anche per lo sviluppo di ogni dimensione della persona umana: da quella sociale, a quella morale, a quella religiosa. Nella prospettiva del rapporto Delors il sapere, il saper fare, il saper essere, il saper stare con gli altri trovano il loro fondamento in una adeguata base esperienziale, sulla quale innestare consapevolezze e scelte personali di impegno. Se, come affermava Maritain (L’educazione al bivio, Brescia, La Scuola, 1951, 11), «Il primo fine dell’educazione è la conquista della interiore e spirituale libertà, che la persona deve compiere, o in altre parole la liberazione di quest’ultima mediante la conoscenza e la saggezza, la buona volontà e l’amore», occorre che i processi educativi e pastorali aprano i cuori e le menti in tale direzione promuovendo proprio l’esperienza del valore personale e sociale di tale prospettiva.
Ciascuno di noi è passato attraverso esperienze che lo hanno segnato positivamente o negativamente: in famiglia, nell’ambiente sociale, nella scuola o nel lavoro, nelle attività sportive e/o di volontariato, nelle attività pastorali e nelle celebrazioni ecclesiali. Quali ci hanno segnato di più? Perché? Che cosa ne è derivato nella vita personale, religiosa o sociale?
In una serie di interventi si cercherà di rispondere a queste domande valorizzando gli apporti di studi e riflessioni di natura psicologica, pedagogica e pastorale.
Le componenti di ogni esperienza
In psicologia l’esperienza può essere considerata sia come sostantivo, sia come verbo. Come sostantivo è: «la valutazione soggettiva (cosciente) degli stimoli recepiti, o la conoscenza da essi derivata». Come verbo: «provare qualcosa, imbattersi in qualcosa, trovare qualcosa, sentire, soffrire alcunché, o acquistare coscienza di un oggetto di stimolo, di una sensazione o di un evento interiore». D’altra parte Kurt Lewin identificava il campo di esperienza interiore con l’insieme dei contenuti interiori che emergono progressivamente e con diverso grado di chiarezza alla coscienza. Esso, quindi, varia da persona a persona sia per estensione, sia per strutturazione, nonché per la dinamica che si svolge nel suo ambito.
Perché un evento, un incontro, una situazione venga considerato un’esperienza occorre dunque che si possa riscontrare la presenza di almeno due elementi: uno affettivo, l’altro cognitivo. L’elemento affettivo è dato dalla reazione emozionale che si prova: paura, tristezza, gioia, rabbia, entusiasmo, soddisfazione, noia, rimpianto… Quello cognitivo consiste nel cercare di capire il perché, il senso di tale emozione, la sua radice profonda. Naturalmente ciò può essere vissuto a un livello più o meno profondo e coinvolgente, ma la reazione emozionale e la riflessione critica, anche se in forme talora assai attenuate, fanno parte di ogni forma di esperienza.
Quando ero piccolo ho vissuto la preparazione alla prima comunione come studio del catechismo di Pio X, e superamento del relativo esame, e apprendimento a memoria delle preghiere fondamentali del buon cristiano. Una simile impostazione viene vista oggi come poco significativa e valida proprio in vista di tale preparazione. Tuttavia, una lettura di questo tipo è assai riduttiva, perché in realtà tale studio aveva luogo in un contesto di esperienza religiosa assai ricco e penetrante: nella partecipazione alla vita famigliare, segnata spesso da preghiera collettiva e da letture e interpretazioni religiose di fatti e avvenimenti; nella partecipazione alla vita ecclesiale, liturgica e di oratorio. Lo studio era vissuto in un contesto che ne rivelava il senso personale di radicamento in una comunità di credenti: apprendere testi e preghiere, anche se in maniera ripetitiva e forse troppo meccanica, significava acquisire conoscenze che abilitavano a far parte a pieno titolo di essa, con la speranza di un possesso più pieno e profondo nel futuro. Le risonanze affettive di tale apprendimento erano assicurate dal contesto famigliare ed ecclesiale del tempo. Oggi nelle città, molte volte anche nelle campagne e nelle famiglie, viene a mancare un terreno adatto per questo tipo di apprendimento. Occorre troppo spesso una vera e propria iniziazione esperienziale di base alla dimensione religiosa cristiana per poter cogliere a un livello sufficiente il senso personale di un primo accostamento personale al mistero eucaristico. Occorre favorire cioè sia la dimensione cognitiva, sia quella emozionale di tale iniziazione.
La filosofia tende ad approfondire ulteriormente tale prospettiva. Con il termine esperienza non si intende «il semplice fare, l’essere coinvolto in qualche forma di attività; l’esperienza non coincide con il mero vissuto... modo diretto e naturale di vivere nell’orizzonte del mondo. L’esperienza prende forma quando il vissuto diventa oggetto di riflessione e il soggetto se ne appropria consapevolmente per comprenderne il senso... Il fare esperienza va inteso come il movimento dello stare in contatto di sé, il disporsi in atteggiamento di ascolto pensoso rispetto al divenire della propria presenza nel mondo. L’esperienza richiede ascolto: ascolto di sé, dei propri vissuti emotivi e cognitivi» (L. Mortari, Apprendere dall’esperienza, Roma, Carocci, 2003, 15-16).
In realtà la parola «esperienza» deriva dal latino experiri (passare attraverso), cioè provare, sentire, essere colpito da una situazione di vita. Il concetto di esperienza è diverso da quello di attività alla quale si partecipa. L’attività riguarda per un verso le cose che si fanno e per un altro il perché le si fa, cioè le mete che ci si propone di raggiungere. L’esperienza riguarda invece il singolo partecipante all’attività, quanto ne è o ne è stato coinvolto; la sollecitazione che prova o che ha provato; la modifica o trasformazione interiore che è avvenuta. Naturalmente con livelli o gradi diversi di profondità e di coinvolgimento a seconda dei partecipanti. Dal punto di vista dell’apprendimento è essenziale non solo che si sia sentito o provato qualcosa, ma anche che se ne sia divenuti consapevoli.
L’esperienza come cammino
Nella libera enciclopedia telematica Wikipedia sotto il termine «esperienza» si legge (o si leggeva nel 2009): «Come ha notato il filosofo Michel Serres la saggezza multimillenaria delle lingue greco-latine ha forgiato il termine «esperienza» servendosi di due preposizioni: «ex» (= da), che significa la partenza, l’allontanamento, il distacco più o meno volontario dall’ambiente familiare, usuale o iniziale, e «per», che designa il viaggio attraverso un ambiente, un mondo nuovo. L’esperienza significativa scaturisce da questo movimento duplice – intreccio di distacco e di peregrinazione – e comporta sempre dei rischi. Per questo il termine esperienza s’apparenta al termine pericolo, con cui condivide una radice. Anche l’espressione tedesca che designa l’esperienza – Erfahrung – racchiude in sé il motivo del viaggio (Fahrt) e quindi la duplice idea della partenza e della peregrinazione».
Come si può notare, c’è una convergenza in tutte queste considerazioni: fare esperienza implica andare oltre dove si è, quello che si è, quello che si sa, quello che si sa fare, quello che si gusta, quello che si prova di solito. Per fare esperienza occorre avere il coraggio di aprirsi a qualcosa di nuovo, di stimolante, di bello, di vero, di giusto, di arricchente di sé o degli altri. D’altra parte per apprendere qualcosa di nuovo bisogna avere il coraggio di affrontare un cammino, una nuova avventura, uscire da sé. Sant’Agostino si domandava a questo proposito se per conoscere bisogna prima amare o se per amare bisogna prima conoscere. In altre parole per aprirsi verso qualcosa di nuovo, occorre affrontare un rischio, più o meno calcolato; mettersi in viaggio, non sempre avendo chiaro dove si arriverà; dedicare tempo ed energie per qualcosa di cui ancora non si percepisce il vero valore; che ancora non possiamo amare. Il chiudersi in se stessi, l’aver paura del nuovo, il rinunciare in maniera triste e stanca a dedicare se stesso a qualcosa che va oltre quello che si è e si fa, perché si vuole avere tutto chiaro e poter calcolare bene il guadagno che si può avere, impedisce proprio di trascendere se stessi, di apprendere.
Sant’Agostino ha insistito sul fatto che accanto alle esperienze esteriori si collocano quelle interiori. Accanto a un apprendimento attraverso l’esperienza di situazioni, eventi, incontri che si collocano nello spazio e nel tempo esteriori, c’è un apprendimento che implica un viaggio interiore, quello che dallo stesso santo è stato così descritto: «Non uscire fuori, rientra in te stesso, all’interno dell’uomo abita la verità. E se scoprirai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso. Tendi là dove si accende la stessa luce della ragione». In qualche modo una vera esperienza deriva da un duplice viaggio: uno verso l’esterno, verso un nuovo orizzonte; uno verso l’interno, verso una nuova consapevolezza. In questo cammino siamo aiutati da due maestri: uno esteriore, l’altro interiore. Il maestro esteriore ha una particolare responsabilità nel sollecitare, orientare e sostenere il viaggio interiore tra esperienza del mondo e attribuzione di senso e prospettiva. Quello interiore ci aiuta a trovare il nostro io più profondo, la nostra vocazione fondamentale, qualche volta a ritrovare se stessi, spesso sperduti nelle vicende del quotidiano.
Qualcosa di simile è ciò a cui invita la «Lettera ai cercatori di Dio», che partendo da «l’esperienza della fragilità umana, del limite, della malattia e della morte» la accosta alla «gran voglia di vita, di felicità, di sicurezza, di tranquillità» ponendo quasi un dilemma. «La nostra esperienza quotidiana è tentata di cadere nella rassegnazione e nel cinismo. Eppure si spalanca continuamente verso una forte necessità di speranza». «Nei momenti più felici, come in quelli più profondi, anche quando sono sofferti, sogniamo una speranza che crede e che ama: la speranza di chi si sente amato, cercato, sostenuto nel quotidiano, in un crescendo di senso, di gioia, di operosità costruttiva, che va oltre la fine di tutto». Di qui nasce un cammino, una ricerca, un’avventura, un interrogarsi sulle domande ultime, stanchi di troppe risposte penultime.
Dimensioni dell’apprendimento ed esperienza
Riflettendo sul rapporto tra esperienza e apprendimento umano occorre a questo punto esplorare le dimensioni fondamentali di ogni apprendimento umano, proprio per il rapporto stretto che esiste tra esperienza e apprendimento. Qui entra in gioco la riflessione pedagogica sulla domanda educativa posta dall’uomo lungo tutto l’arco della sua vita e la concezione di persona umana che viene assunta come riferimento. Così ci sono pedagogisti che hanno insistito sulla dimensione sociale, morale e religiosa (Corallo); altri che hanno sottolineato la centralità di quattro grandi prospettive: maturazione dei rapporti sociali e affettivi; cognizione; integrazione e sicurezza emotiva; elaborazione di una propria filosofia di vita (Allport). Aristotele considerava tre dimensioni fondamentali: cognitiva, affettiva e volitiva. Esse ancor oggi in psicologia costituiscono la base dello sviluppo degli atteggiamenti, dei valori e del carattere della persona umana. Entrano in gioco cioè: un fattore cognitivo che concerne le ragioni a favore o contro cose, persone o situazioni; un fattore affettivo, che tiene conto dell’attrazione o repulsione verso cose, persone e situazioni; un fattore volitivo o comportamentale, che riguarda la tendenza ad agire facilmente o meno in coerenza con gli elementi cognitivi e affettivi coinvolti.
D’altra parte le qualità umane fondamentali di organismo virtuoso nella tradizione aristotelico-tomista erano identificate sotto quattro dimensioni: la prudenza, fondamento di tutte le altre virtù, perché fornisce la capacità di deliberare, giudicare e decidere a tempo e luogo, in maniera seria e responsabile, cosa fare, come agire, quali relazioni instaurare; la giustizia, che guida non solo il rispetto dei diritti dei singoli e delle comunità ma anche i doveri verso se stessi e gli altri; la fortezza che garantisce la capacità di perseguire con costanza e fermezza gli obiettivi che ci si propone di raggiungere, nonostante difficoltà, incomprensioni, frustrazioni, fallimenti parziali; la temperanza, che regola l’uso equilibrato delle sollecitazioni interne o, in termini tradizionali, delle passioni, come l’aggressività perché non degeneri in ira, come l’appetito perché non degeneri in golosità, della sessualità perché non degeneri in lussuria. L’uomo maturo da questo punto di vista è l’uomo che, guidato dalla prudenza, sa agire con giustizia, fortezza e temperanza liberamente e responsabilmente. L’organismo umano nella prospettiva cristiana è poi strutturato più profondamente ancora dalle tre virtù teologali: la fede, la speranza e la carità.
Esperienze morali e spirituali
Tenendo conto di queste suggestioni si può allora parlare di esperienza morale, di esperienza spirituale, di esperienza religiosa, di esperienza estetica, ecc., come basi e fondamenti dei relativi apprendimenti. Per comprendere meglio tale affermazione esaminiamo un po’ più in dettaglio la dimensione spirituale dell’apprendimento umano e delle relative forme esperienziali. P. Ricoeur ha prospettato tre ambiti dell’esperienza umana che possono essere evocati dal termine «spirito» e «spiritualità»: a) la mente, nel senso generale di mentale (intenzionalità, significato, comunicabilità, intesa reciproca); b) il trascendentale, l’avere come obiettivo il vero, il bene, il giusto, il bello; è il livello delle funzioni direttrici o regolatrici che presiedono alle attività di conoscenza, d’azione, di sentimento; c) l’ispirazione, quella del poeta, dello scienziato; le diverse espressioni del sentimento religioso; l’entusiasmo, la passione, la «follia» (J. Changeux e P. Ricoeur, La natura e la regola. Alle radici del pensiero, Milano, Cortina, 1999, 171-174). In questa prospettiva la dimensione spirituale non si riferisce a una spiritualità religiosa specifica, bensì a una apertura e un impegno progressivo nella ricerca e nella realizzazione del vero, del bene, del giusto, del bello; a un dialogo interiore, riflessivo per dare senso e prospettiva alla propria esistenza; allo scambio di significati e di speranza con gli altri; alla fruizione interiore in tali prospettive dell’esperienza di lavoro, famigliare, sociale, politica, associazionistica, ecclesiale.
Una genuina esperienza del vero, del bello, del giusto e del bene implica lo sviluppo di uno spazio interiore, che permetta nel tempo di penetrare sempre più in profondità il loro valore infinito e di coglierne sempre meglio la connessione con il fine ultimo, il significato più profondo del tutto, la felicità personale ultima, e l’Assoluto, che ne sta alla base. Uno spazio che risuona positivamente sempre meglio e più facilmente, anche emotivamente, per le azioni buone, sia compiute personalmente, sia colte negli altri. La sensibilità a comprendere ciò che è bene in particolari situazioni e circostanze si deve accompagnare con il godimento interiore quando esso viene realizzato.
Le condizioni per sperimentare e coltivare la dimensione spirituale umana sono apertura e ricettività, senso di incompletezza, di impotenza, di mancanza, di vulnerabilità, di inquietudine, ma anche disponibilità, percezione della possibilità di essere diversi e migliori, di essere trasformati, di poter trascendere se stessi, di essere aperti all’attesa e alla speranza che la vita può essere diversa, migliore. E questo si realizza nel lavoro, nello studio, nelle relazioni interpersonali e istituzionali, nella vita sociale e culturale, nelle esperienze di vita fondamentali e quotidiane.