Distillare sapere dall’esperienza viva


Atteggiamenti dell'educatore /7

Isabella Casadio

(NPG 2009-08-66)


Si può scegliere –

più o meno consapevolmente –
di non fare esperienza
delle proprie esperienze.
D’altra parte, si può scegliere
di farla.
(P. Jedlowski)

Fare esperienza di qualcosa a lungo, come svolgere per molti anni attività educative, può portare alla routine, all’abitudine, a una dimestichezza nell’esecuzione del compito che non sempre è accompagnata da un affinamento della sensibilità e della disponibilità emotiva. Se quell’esperienza, invece, viene sentita, pensata, compresa ed elaborata, essa certamente produrrà un apprendimento in termini di una più acuta capacità di leggere gli eventi, di cogliere i segnali, di comprendere i messaggi, di prendere le decisioni corrette nelle diverse situazioni, di interrogarsi sul senso dell’agire senza cadere in forme standardizzate di risposta.
Educare gli altri, infatti, non esige soltanto buone intenzioni o soli buoni sentimenti: richiede anche la comprensione profonda degli accadimenti e soprattutto dei vissuti emotivi. Poiché tale comprensione spesso sfugge ed è difficile da possedere stabilmente, va riconquistata in ogni nuova situazione e con ogni diversa persona.
È, dunque, necessario prendersi cura del proprio pensare e del proprio sentire come pratica di riflessività e di autoconsapevolezza per evitare che si venga assorbiti continuamente nella routine e nella consuetudine.

Per un sapere esperienziale educativo: ricercare un contatto fra sé e sé

L’agire di chi esercita l’educazione per professione è frutto di un insieme di conoscenze concettuali e procedurali che devono essere rapportate alla realtà in cui la persona opera e calate nelle situazioni uniche, singolari, differenti che, di volta in volta, incontra. Questo è il motivo per cui il sapere educativo è anche un sapere prassico, esperienziale, che si costruisce con la capacità di cogliere le specificità del contesto oltre che con la continua revisione critica indispensabile per «illuminare» l’agire.[1]
Tale sapere va, dunque, individuato sia nell’esercizio pratico sia in quello dell’elaborazione del pensiero riflessivo.
Il momento dell’esercizio rimane anche nelle realtà più mutevoli: esso si deposita come apprendimento di una serie di capacità che rimangono lì a disposizione quali, per esempio, l’acquisizione di familiarità con i gesti di pratica quotidiana.
L’elaborazione, invece, consente di prendere atto di ciò che si sta attraversando ovvero esperendo.

Quando l’esperienza si trasforma in competenza

Esperire, dal latino ex-per-ire, significa «venire da» e «passare attraverso», per cui l’esperienza è ciò che io nel presente attraverso provenendo dal passato. Se esperienza vuol dire «attraversamento» della vita, «fare esperienza» non significa solo attraversarla, ma piuttosto comporta un «processo attivo» che si sovrappone al vissuto e che gli attribuisce senso e continuità. In quanto processo attivo, esso è oggetto di scelta, poiché parte da una spinta interiore a ricercare un «contatto» fra sé e sé, che si può instaurare a tratti ma che, se elaborato, permette di orientare l’azione. Il momento del pensiero riflessivo qualifica, dunque, la buona pratica perché consente di prendere atto di ciò che si sta attraversando, inducendo a fermarsi nel proprio percorso e a sostare sui propri passi al fine di comprendere ciò che accade.[2]
In tal senso, poiché l’esperienza è sia ciò che ciascuno vive e conosce sia il processo attraverso cui il soggetto diviene consapevole di sé e della propria vita, essa è caratterizzata da una paradossalità: si può fare esperienza ma contemporaneamente si può non acquisirla mai. Questo accade, per esempio, quando il pensiero diviene una forma di mera «intellettualizzazione dell’esperienza», in cui tutto viene scandagliato e messo in discussione solo attraverso la ragione calcolante che riduce i fenomeni a entità misurabili secondo il loro impiego.
Nel pensare strumentale, ogni attività cognitiva deve essere utile, mirata a un prodotto immediatamente spendibile e riferito all’esperienza. Essa corrisponde a un bisogno di difesa poiché sterilizza gli stimoli e ne assicura la gestione. In questo caso, tuttavia, il processo attraverso cui il soggetto diviene consapevole di sé viene smorzato perché, pur rimanendo una esperienza personale, prescinde dal vissuto e dalla ragione del cuore.
I presupposti per la costruzione di un sapere esperienziale sono, invece, che il pensiero sia elaborato a partire dall’«esperienza viva»[3] e non da contesti svincolati dalla pratica, e che la messa in parola del proprio sapere non sia lasciata ad altri, ma sia un compito personale frutto della riflessione sul proprio vissuto e dell’appropriazione consapevole del senso che porta con sé. «Partire dalla propria esperienza», in senso fenomenologico, non significa essere dispersi nell’oggettività e impigliati nelle cose, ma stare in contatto con se stessi, in ascolto pensoso e intelligente di ciò che si vive e di ciò che si sente.
Questo contatto diretto e immediato con sé e con il mondo delle cose non assicura, di per sé, la generazione di un sapere esperienziale. È necessario un «processo riflessivo» che si sovrapponga al vissuto e che gli attribuisca senso e continuità. In quanto processo attivo, esso è oggetto di scelta poiché parte da una spinta interiore a ricercare un atteggiamento riflessivo. Senza questa riflessività sul vissuto, l’esperienza non diventa competenza.
Pertanto, più che cercare fuori di sé l’ennesima ricetta per rendere efficace il proprio lavoro, può essere utile scorgere dentro la propria esperienza le risorse di cui si ha bisogno. In questi termini trasformare l’esperienza in competenza vuol dire «distillare» pazientemente dal vissuto, attraverso la riflessività, ciò che può essere trasferito e condiviso.
L’obiettivo è diventare professionisti riflessivi, che non si limitano ad applicare quel che hanno imparato, ma sono in un continuo atteggiamento di ricerca e di riflessione, nella consapevolezza che ci sia una teoria nascosta in ogni pratica e che, soprattutto in questo tipo di lavoro, la teoria più vera nasca dalla pratica più valida.

Imparare a pensare

Il lavoro educativo non è naturale e spontaneo: esso esige la capacità di pensare, che è qualcosa di diverso dal conoscere. Pensare vuol dire ricercare il senso di ciò che si fa, non stancarsi di domandare e di mettere in atto un movimento di «autorischiaramento» attraverso cui disfare le parti conosciute di sé, dei propri modi di agire e di pensare per tendere a una comprensione profonda degli accadimenti. C’è mancanza di pensiero quando si preferiscono verità già formulate e ci si adagia sulle proprie credenze o su quelle della massa, sulle false sicurezze della consuetudine («ho sempre fatto così») e dell’ovvietà. È il pensiero pigro che dà per scontato le ragioni dell’agire e che evita altre modalità di pensare e di mettersi in discussione.
L’autentica pratica del pensare induce a sospendere l’azione (occorre fermarsi per pensare) e a «tirarsi fuori» (ex-sistere) rispetto al senso comune e scontato delle cose, rispetto alle condotte abitudinarie e irriflesse, rispetto al mondo impersonale del «si dice» e del «si fa». Pensare obbliga a stare fuori da orizzonti precostituiti, a rinunciare a re-agire alle circostanze lasciandosi trascinare dagli automatismi del pensiero e da codici di comportamento convenzionali o standardizzati, e fa stare nella dimensione dell’autenticità, del decidere «a partire da sé» e in «fedeltà a sé».[4]

Lo sguardo e il pensiero obliquo: l’intimo rumore che schiude le rose

Per Husserl «fenomenologia significa un metodo e un atteggiamento di pensiero»[5] attuabile attraverso una conversione dello sguardo e dell’attenzione che porta a guardare la realtà da un altro lato, quello da cui non siamo generalmente abituati. In questo modo l’immagine corrispondente non è più lo sguardo semplicemente spalancato di meraviglia, ma uno sguardo che si fa «laterale», «obliquo», in cui la vista non si fissa frontalmente ma si rivolge lateralmente, quasi avesse bisogno di coinvolgere anche l’udito nella sua traiettoria, per riuscire a fendere di sbieco i velamenti della realtà.
Per scorgere, notare cose già viste e ri-guardarle con occhi diversi è necessario uno sguardo che, invece di rimanere sulla soglia, cerchi non solo di entrare in profondità con un taglio «obliquo», ma di afferrare ciò che svela anche con il sentire e con gli altri sensi, ricavandone una percezione più sottile e contemporaneamente più ampia della realtà. In questo attraversamento dello sguardo, il pensiero obliquo che si genera assume la forma del «patire», nel senso letterale del lasciarsi toccare dalla mescolanza dei sensi e del sentire: «l’udire, lo stare a guardare, l’apprendere». È un «ri-volgersi restando in ascolto», un «pensare che guarda ascoltando».[6]
Quando il pensare si unisce al sentire, viene arricchito in profondità e ampliato di sfumature. In questo modo si intensifica la presenza al mondo e alle persone e, al tempo stesso, si alimenta la possibilità di entrare adeguandosi al profilo del reale, in quanto si attende sia il suo manifestarsi senza imporre una forma sia il suo dirsi senza anticipare un discorso preformulato.
Condizioni imprescindibili per il pensiero che, nel volersi rivolgere al mondo della persona e della sua formazione, cerca di preservarsi dal rischio di «cristallizzarlo» all’interno di una idea o di un concetto.

«Pensiero obliquo. Non mi chieda di spiegarglielo, più che sentirlo io lo vedo» dice in Storia dell’assedio di Lisbona la dottoressa Maria Sara al revisore Raimundo Silva, descrivendogli la caratteristica che apprezza in lui e che va oltre alla semplice «capacità di osservazione critica».[7]

Si tratta di mettere in moto un processo di pensiero che è attento a non cadere nelle concettualizzazioni confezionate, nelle definizioni chiuse, astratte e che rimane aperto per commisurarsi con la complessità e con la mai del tutto afferrabilità della realtà personale. Ciò porta alla consapevolezza che l’esperienza che si può toccare non è mai data una volta per tutte.
Unitamente a questo «rivolgersi», il pensare obliquo come «patire» è anche la disponibilità a «lasciarsi trasformare» dall’esperienza viva, perché comporta il fatto di prendere su di sé, di accettare e abbracciare ciò che si vive, invece di neutralizzarlo o di inserirlo all’interno di certezze e verità già codificate.
In forza di questo, si crea una modalità di conoscenza che se, da una parte, espone, mette in gioco e trasforma il soggetto che «patisce», dall’altra, mira a una «comprensione» (e non «spiegazione») che, a sua volta, sarà ridotta o estesa a seconda proprio dell’intensità di questo patire.[8] Un modo di pensare e di comprendere, dunque, che, lungi dall’essere asettico e distaccato, prevede al suo interno un «costo» per chi lo attua.
Ciò comporta imparare l’arte di trasformarsi anche «disfando» le parti conosciute di sé, dei propri modi di pensare e di agire. Significa tirarsi fuori da orizzonti precostituiti, da automatismi del pensiero e da codici di comportamento convenzionali o standardizzati per trovare una visione originale e un rapporto inedito con la realtà e con le persone.
Perché ciò accada, occorrono assenza di compiacimento e una buona presenza di modestia e di ironia che aiutano a staccarsi dalla propria individualità e a sfuggire da tutti gli egocentrismi.
La circostanza in cui il vedere è costretto a diventare un guardare, il guardare un notare e il notare un patire, non allude a un atto di forza fragoroso, ma a un movimento di apertura spontaneo come il dischiudersi di un fiore, sottilmente riconoscibile in quell’«intimo rumore che schiude le rose».[9]
Questa è la visione generata da una forma di attenzione non orientata che non cerca di catturare con lo sguardo sempre vigile, quasi predatore, ciò che si sottrae o non è visibile, ma attende pazientemente il disvelarsi delle cose, cercando di mantenere in posizione di apertura il pensiero che ogni visione minaccia di chiudere.
L’attesa dello svelamento è necessario affinché non si catturi con lo sguardo o con l’udito solo quel che si cercava e non si arrivi a notare quel che già si voleva vedere o ascoltare. Preserva anche dal rischio di scambiare la realtà vissuta come unica, assoluta e indiscutibile, perché si tratta di una forma di visione ricettiva che riesce a cogliere l’insieme delle cose umane non nella loro assolutezza, ma nella loro connessione e reversibilità.
Da questa variazione di prospettiva – dal vedere al guardare al patire – che comporta, al tempo stesso, un alleggerimento e una intensificazione, prende avvio il movimento autentico del pensiero e la possibilità di guadagnare sapere dalle proprie esperienze. Nell’inoltrarsi lungo le vie dello sguardo obliquo, infatti, ci si libera dalla presunzione di non avere più nulla da conoscere e si intensifica la propria presenza alle cose, agli accadimenti, alle persone. Senza questa pratica che è tutt’uno con un atteggiamento, prende forma un «comune» modo di vedere e di pensare che equivale a eliminare tutto ciò che è noto perché già visto.
Quest’ultimo è un vedere che in realtà toglie alla vista quello che si ritiene non debba essere ri-visto in quanto, per l’appunto, conosciuto senza che per questo si giunga a vedere oltre o altro.
Questa modalità svogliata di vedere rimane in superficie, non approfondisce e crea distanza tra sé e il mondo.
Essa genera quel pensare pigro, addormentato che evita di mettersi in discussione e rinuncia alla problematicità del domandare per preferire verità già definite in nome di false sicurezze.

Apprendere scrivendo e condividendo: dal vissuto all’esperienza

Lo strumento più idoneo per sviluppare la disposizione a un atteggiamento pensoso su quanto si è vissuto può essere rintracciato nella scrittura. Un conto, infatti, è abitare nella dimensione di immediatezza del vissuto e, un altro, è costruire riflessivamente l’esperienza: la prima situazione è il modo naturale e diretto di vivere a contatto con gli eventi; la seconda nasce quando si esercita un’attività di riflessione sul vissuto per comprenderne il senso.
Vi è una differenza tra il «fare esperienza», che spesso non è accompagnato dalla consapevolezza, e l’»apprendere dall’esperienza», che esprime un’intrinseca saggezza. Il primo nasce dal semplice fatto di trovarsi a vivere, il secondo da una continua riflessione sull’esistenza e dalla capacità di fare tesoro di ogni evento accaduto.
Questo passaggio è compiuto proprio dalla scrittura, che consente di dar voce a pensieri ed emozioni che accompagnano gli eventi, nella consapevolezza che non basta dire o raccontare qualcosa, ma occorre trovare parole che dicano il senso e il valore delle cose, contemplando anche il silenzio, poiché non tutto è dicibile, e rifiutando la tentazione di esprimere quello che tutti gli altri dicono, o vogliono sentirsi dire.
In questo modo, la scrittura riflessiva promuove un incremento di conoscenza della situazione e di sé-in-situazione.
Questo processo di riflessione e apprendimento dell’esperienza viene potenziato se fatto insieme e co-costruito. La condivisione dell’esperienza, quando giunge a seguito di un processo esplorativo e riflessivo individuale, può arricchire il sapere educativo che, in quanto sapere di relazioni, si nutre del dialogo e dell’incontro in cui confluiscono e trovano assonanze i diversi vissuti, filtrati dalla peculiare sensibilità di ciascuno.
Proprio per questo, sempre più numerose sono le esperienze di formazione nell’ambito di cura che utilizzano la scrittura di sé, oltre che come occasione di riflessione personale, anche come opportunità di confronto nel gruppo di lavoro attraverso l’ascolto delle storie dei colleghi, nelle quali è spesso possibile riconoscere gli echi dei propri vissuti.
La scrittura autobiografica può rappresentare uno strumento per mettere in parola la vita e farne dono all’altro; perché dall’incontro di narrazioni scaturisca quel sapere dell’esperienza che non è mai appannaggio esclusivo di qualcuno, ma si alimenta dell’apporto di tutti. Il «sapere dell’esperienza», infatti, è un sapere condiviso, non solo alla fine (come scambio di esperienze per cui ognuno dice la sua), ma nell’intera sua genesi (nasce e cresce nel racconto di sé e nell’ascolto dell’altro, ovvero si costruisce insieme).
La narrazione nei contesti di cura fa sì che i singoli possano riconoscersi nel gruppo, possano riscontrare risorse e competenze; contribuisce, inoltre, a creare tradizione e memoria all’interno del proprio gruppo e, al contempo, a restare in ascolto dei possibili elementi di novità e di mutamento.
Raccontarsi e scrivere insieme, quindi, può alimentare il senso di appartenenza, così importante nei momenti di crisi e di perdita del senso del proprio operato; aiuta a non perdere la bussola nella complessità delle situazioni educative e nella densità emotiva a cui si partecipa.

NOTE

[1] L. Mortari, Apprendere dall’esperienza, Carocci, Roma, 2003, pp. 9-13.

[2] P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, Carocci, Roma, 1994, pp. 137, 149.

[3] H. Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano, 1999, p. 38.

[4] I. Casadio, Il coraggio di partire da sé per ritornare a sé, in D. Bruzzone, E. Musi, Vissuti di cura, Guerini, Milano, 2007, pp. 37-40.

[5] E. Husserl, L’idea di fenomenologia, Il Saggiatore, Milano, 1981, p. 62.

[6] M. Heidegger, Domande fondamentali della filosofia, Mursia, Milano, 1988, p. 125. Si veda anche P. A. Rovatti, Il declino della luce, Marietti, Genova, 1988, pp. 24-29.

[7] J. Saramago, Storia dell’assedio di Lisbona, Einaudi, Torino, 2006, p. 103.

[8] M. Heidegger, Domande fondamentali della filosofia, cit., p. 125.

[9]  J. Saramago., Storia dell’assedio di Lisbona, cit., p. 161.