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    Il fine-vita


    Paolo Carlotti con note di Cristina Mustari

    (NPG 2009-04-21)


    LA QUESTIONE, IL CONFRONTO
    A cura di Cristina Mustari

    La questione

    Il tema della fine della vita è stato ed è particolarmente dibattuto. Il progresso della scienza e il cambiamento della società hanno portato l’opinione pubblica a interessarsi e confrontarsi sempre di più sulla questione. Tanti dunque gli argomenti che ruotano intorno alla materia e i termini utilizzati nel dibattito. Eutanasia è uno di essi. La parola è di etimologia greca, buona morte, oggi usata per indicare una azione o un’omissione compiuta da medici o da altri, avente come fine quello di accelerare o di causare la morte di un malato terminale, per porre fine ad una situazione di sofferenza tanto, fisica quanto psichica, che il malato stesso, o coloro ai quali viene riconosciuto il diritto di rappresentarne gli interessi, ritengono non più tollerabile. È soppressione della vita del malato per pietà.
    Frequentemente viene fatta una distinzione tra eutanasia attiva, là dove il medico, o chi per lui, interviene direttamente per procurare la morte di un paziente utilizzando farmaci letali, ed eutanasia passiva, dove si ha invece l’omissione di interventi che manterrebbero la persona in vita: essa consiste infatti nel lasciar morire il malato, sospendendo con scienza e coscienza le cure ordinarie. necessarie al suo mantenimento in vita.
    Per cure ordinarie si intendono quei trattamenti proporzionati, utili e quindi dovuti nell’ambito del quadro terapeutico relativo al paziente, comprese l’alimentazione e l’idratazione somministrate, ove occorresse, artificialmente. Sono invece considerate cure straordinarie quelle terapie che rispetto agli obiettivi della cura hanno scarse possibilità di successo o sono intollerabili per il paziente stesso e i suoi familiari.
    All’eutanasia si oppone talvolta il cosiddetto accanimento terapeutico, che indica invece il ricorso a terapie straordinarie di prolungamento della vita, non rispettosi della dignità umana del paziente. È la prosecuzione inefficace e ostinata di terapie per pazienti prossimi alla morte, con lo scopo di prolungarne la vita in modo forzato e solo per breve tempo.
    Per riconoscerlo si usa il criterio della proporzionalità dei mezzi in rapporto al loro effetto e risultato terapeutico. L’uso di mezzi sproporzionati rispetto al risultato delle cure, si configura come accanimento terapeutico.
    La giurisprudenza in vigore nel nostro paese considera l’eutanasia e il suicidio assistito come veri e propri omicidi.
    Oggi la questione è sempre più dibattuta a causa dei rapidi progressi delle tecniche di rianimazione e delle terapie intensive, che consentono di mantenere in vita anche per lunghi periodi di tempo individui che hanno subito gravi lesioni cerebrali. Essi dipendono totalmente dalle macchine per la respirazione e da sonde gastriche per la nutrizione.
    Da qui anche la discussione sul cosiddetto «testamento biologico», il documento con il quale la persona, in pieno possesso delle sue capacità mentali, esplicita la sua volontà circa i trattamenti a cui vorrebbe essere sottoposto nel caso in cui, a causa di gravi malattie o inabilità sopravvenute, si trovasse nell’incapacità di esprimere il suo volere. Nel documento in genere si esprime il proprio rifiuto a qualunque intervento medico-terapeutico nella fase terminale di una malattia, soprattutto finalizzato ad impedire il cosiddetto accanimento terapeutico.
    In assenza di una legge in materia, il testamento biologico non è vincolante, la decisione sui trattamenti è essenzialmente medica.

    Argomenti correlati
    Accertamento di morte; Determinazione della morte; Dignità della vita; Direttive anticipate; Disponibilità della vita; Eutanasia; Malattia terminale; Macchine vicarianti; Qualità della vita; Stato vegetativo; Suicidio assistito; Terapie intensive.

    I termini del confronto

    Per le posizioni del mondo laico (qui poste in contrapposizione a quelle cattoliche, per le quali vedi più sotto) conta, al di là di ogni altra considerazione, il diritto del malato di poter decidere di porre termine a un’esistenza divenuta intollerabile. È certamente vero che la vita rappresenta il valore supremo che va rispettato e salvaguardato come tale. Tuttavia, nella visione laica si opera in sostanza una distinzione tra la vita biologica e quella «biografica»: quando la vita «biografica» cessa, come nel caso di uno stato vegetativo persistente, oppure divenga intollerabile, come nelle malattie terminali, deve essere presa in seria considerazione l’eventualità di porre termine alla vita biologica.
    Rivendicando l’autonomia decisionale della persona, l’eutanasia e il suicidio assistito, praticati in un contesto di precise regole e di controlli, costituiscono un’espressione di libertà e di dignità dell’individuo, nel momento in cui egli giudica che la medicina non sia più in grado di migliorare il suo stato e che l’esistenza, ulteriormente prolungata, gli sarebbe intollerabile. La bioetica laica prende dunque le distanze da ogni mistica della sofferenza e del sacrificio, facendo propria la tesi ripresa da Seneca: non è bene vivere ma vivere bene: non è la vita in quanto tale ad essere preziosa ma la qualità della vita, ossia una vita che sia degna di essere vissuta, una vita che possa realmente dirsi umana.
    Il mondo laico dunque rivendica per ogni individuo il diritto di morire coscientemente la propria morte. L’arte medica deve assecondare le dinamiche della natura e non andare al di là dell’aiuto. Il medico che si rende disponibile al suicidio assistito o all’eutanasia non commette un crimine, non viola alcuna legge divina, compie un gesto umano, di rispetto e a difesa di quella vita che ha un nome e una storia di relazioni. Da ciò la richiesta di norme che colmino le lacune legislative in materia. I recenti fatti di cronaca impongono una riflessione seria e responsabile, senza preconcetti e che miri il più possibile ad evitare inutili sofferenze.

    L’ORIGINARIA BONTÀ DELLA VITA
    La posizione cattolica
    Paolo Carlotti

    Il motivo per cui la vita ha sempre un significato positivo, che sempre può essere scelto e vissuto, anche in condizioni terminali progressivamente invalidanti e degradanti, è manifestato dal modo positivo con cui ogni uomo, che viene al mondo, inizia la propria vita, a cui aderisce pienamente, prima che la distinzione tra biologico e biografico possa essere pensata o anche solo posta. Nessuna esperienza successiva può ritrattare questa originaria bontà, e rinunciare a vivere il significato della vita è un male, riconoscibile come tale da ogni uomo, indipendentemente dall’attivazione di un discorso religioso e confessionale. È il motivo per cui, in ogni epoca e luogo, l’umanità ha sempre stigmatizzato il suicidio – scelto o indotto – ed è anche il motivo per cui mettiamo in atto ogni tentativo, per salvare la vita di colui che minaccia di togliersela. Ma è ben vero che quando la nostra esperienza morale è di fronte a situazioni radicali, come quella della morte, propria o altrui, non se ne esce bene senza riconoscere la trascendenza della vita dell’uomo, trascendenza che può maturare poi in un itinerario religioso e cristiano.
    Certo, possiamo capire e aver compassione di chi vive una situazione esistenziale particolarmente dolorosa e forse arriva a pensare o a decidere di farla finita; ma questo implica che noi giustifichiamo questa scelta o che la riteniamo senz’altro buona? Una cosa è capire la persona, un’altra cosa è valutare una scelta che la persona fa. Mentre le situazioni esistenziali e culturali in cui le persone operano, variano tanto quanto sono le persone e le culture, il valore e la valenza delle scelte si ripropone in ogni persona e cultura. È per questo che qui ci occupiamo, in modo succinto, prevalentemente delle seconde e per una più ampia trattazione e informazione, anche bibliografica, rimando a: P. Carlotti, La terapia terminale tra eutanasia e accanimento. Per una valutazione etica, Salesianum 70 (2008) 491-524.
    La posizione cattolica a difesa della vita non è un vitalismo, cioè un considerare la vita biologica un valore assoluto e intangibile, tant’è vero che una delle espressioni più alte della vita cristiana è appunto il martirio, dove si è disposti a perdere la vita fisica pur di mantenere una coerente testimonianza del valore morale. Non è neppure il caso di passare all’estremo opposto, in base al quale la vita biologica non avrebbe alcun significato e quindi alcuna rilevanza, e neppure di introdurre una scissione tra il biologico e il biografico, che implicherebbe una visione antropologica dicotomica, quasi che io non sia il mio corpo e il mio corpo potesse vivere senza di me. Il discernimento poi di quando il biologico non è più biografico, sarebbe molto arduo da assicurare e si presterebbe a continui abusi, anche quando fosse lasciato al malato terminale, che, come agli inizi della vita, non è nella condizione di poter scegliere. È come se chiedessimo al neonato cosa desidera per pranzo: è la mamma che deve sapere ciò che è bene per lui!
    Per questo, anche il cosiddetto testamento biologico, che – per inciso – è moralmente vincolante solo se è morale e se ha per oggetto condotte moralmente lecite, risolve in un attestato e in un contratto una realtà molto più ampia, quella di un’intesa relazionale tra paziente e medico, che è poi l’unica realtà che può accompagnare in modo adeguato il momento della morte. Del resto, nessuna legge civile può rendere bene ciò che è male e per di più vincolare il personale medico e sanitario a trattamenti moralmente illeciti, anche se sono stati oggetto di dichiarazioni anticipate da parte della persona malata. Il consenso e il contratto non fanno la verità morale, che è la sola a poter essere attesa e richiesta. Per esempio, un medico non può essere e quindi sentirsi vincolato da una dichiarazione, che richiede interventi letali in presenza di condizioni terminali particolarmente degradanti, mentre lo è e lo deve, quando si richiede di sospendere un accanimento terapeutico, che coincide con ciò che ingiunge l’etica e la deontologia professionale, che, a differenza delle eventuali dichiarazioni anticipate, è in continuo stato di aggiornamento. Certo il quadro morale generale che ne deriva, dovrebbe essere anche garantito dalla legge civile, che in Italia purtroppo ancora manca. Il momento della morte poi, è un momento così unico, che l’intento di osservare delle dichiarazioni può complicarne il discernimento terapeutico, come nel caso in cui non siano aggiornate agli sviluppi in campo medico o non riescano a prevedere ogni possibile evenienza del decorso patologico.

    Un bisogno di discernimento

    Ciò premesso è anche importante discernere con molta perizia e saggezza il naturale processo di conclusione di una vita umana, in una contingenza che vede esponenti elevati e crescenti di medicalizzazione e di sussidiarizzazione esterna di molteplici funzioni vitali. È cioè importante discernere, non in modo semplicemente preferenziale ma in modo oggettivo, il momento in cui non è più possibile opporsi medicalmente alla morte, che gradatamente subentra e occorre quindi lasciare – come si suol dire – che le cose facciano il loro corso. Se a questo punto – e solo a questo punto – invece si dovesse decidere di insistere in procedimenti medici, si incorre nell’accanimento terapeutico, moralmente inaccettabile perché lesivo della dignità della persona malata, che si trova a subire, talora con sofferenza, trattamenti perfettamente inutili e le si impedisce di vivere la propria morte.
    La sospensione invece di un qualsiasi atto medico o sanitario ancora utile, che di conseguenza provoca la morte del malato terminale, è detto eutanasia passiva o appunto – forse meglio – omissiva. Si avrebbe invece un’eutanasia attiva, se il malato fosse oggetto di trattamenti che di per sé provocano la morte.
    Se il malato si procura la morte da solo, abbiamo un caso di suicidio; se invece la morte è, a sua insaputa, procurata da personale medico o sanitario si ha un omicidio; se infine alla morte il malato acconsente e accetta l’intervento ausiliario di terzi, si ha il suicidio del malato e una collaborazione formale al suicidio altrui da parte di tutti i terzi intervenuti.
    È altresì qui da richiamare un’altra classica distinzione, quella tra eutanasia diretta e eutanasia indiretta. La prima consiste in quella di cui abbiamo parlato finora, mentre la seconda, impropriamente detta euta¬nasia – ma oramai l’espressione si è imposta nel linguaggio – ricorre quando le cure antidolorifiche e palliative, di cui è fatto oggetto il malato ter¬minale, provocano un collaterale e accidentale accorciamento della vita, che secondo il principio morale del du¬plice effetto – almeno una volta nella vita può essere utile sentire del¬l’esistenza di questo principio – è ¬moralmente compatibile e quindi le¬cito.
    Rimane tuttavia ancora aperta la questione, che abbiamo sopra posto, del discernimento del momento in cui viene meno ogni possibilità di opporsi alla morte del paziente. Nei termini della lingua degli specialisti, cioè dei teologi morali, si distinguono i mezzi ordinari di cura dai mezzi straordinari: i primi sono sempre dovuti e obbligatori, per cui la loro sospensione determina un’eutanasia diretta passiva, mentre i secondi sono facoltativi, la loro sospensione non determina alcuna eutanasia.

    I criteri del discernimento

    Quali sono i criteri che mi permettono di stabilire l’appartenenza dei molteplici mezzi terapeutici ad una delle due categorie, e quindi di sapere come il medico debba orientarsi nella prassi concreta?
    Il primo criterio è quello della proporzionalità delle terapie rispetto ai risultati attesi. Quando un organismo di un diabetico non dovesse essere più in grado di recepire l’insulina, questa terapia, che in altri momenti o in altri pazienti diabetici è ancora proporzionata, per lui e in questo caso, non può che risultare l’opposto, cioè sproporzionata. L’insistere è accanimento terapeutico, che ha alla sua base un rifiuto vitalistico e – forse – prometeico della morte. Si noti che col progredire della malattia, alcuni mezzi prima ordinari possono diventare straordinari e quindi non più dovuti. La verifica concreta di questa proporzionalità è demandata alla scienza e alla coscienza del medico, non del moralista.
    Il secondo criterio è di più difficile considerazione, e consiste nella tollerabilità della terapia da parte del malato e dei suoi familiari. Vi può essere cioè una terapia, anche proporzionata, che risulta tuttavia eccessivamente gravosa, da un punto di vista sia fisico sia psicologico, e inoltre procurerebbe soltanto un prolungamento breve, precario e penoso della vita. Una invasività massiccia e prolungata e il pesante sussidio esterno nelle funzioni vitali essenziali – come per esempio quella dell’evacuazione organica – magari accompagnate dall’assenza di apprezzabili prospettive vitali, pone la questione della tollerabilità terapeutica da parte del paziente, come del resto una rilevante tradizionale morale – risalente al magistero di Pio XII, ma ripresa dall’Evangelium vitae [n. 65] di Giovanni Paolo II – ha attestato e attesta.
    Un terzo criterio, non così determinante nei paesi occidentali come lo è in altri, è quello della economicità, e consiste nella compatibilità economica del mezzo terapeutico, secondo il criterio morale della giustizia sociale, possibilmente universale. In alcuni paesi, dove è addirittura endemica la scarsità alimentare, è presto stabilita questa incompatibilità, mentre nei paesi cosiddetti sviluppati i livelli richiesti sono indubbiamente più elevati. Più in generale si tratta di allocare le risorse economiche e finanziarie in modo giusto rispetto a tutte le esigenze presenti di una società. Oggi, troppo facilmente i soggetti socialmente deboli, cioè coloro che non hanno capacità rivendicativa sociale e soprattutto se costituiscono un costo rilevante costo, possono essere discriminati, anche al di sotto della loro dignità e dei loro diritti.
    La contestuale verifica positiva di questi tre criteri determina un mezzo di cura come ordinario, perciò proporzionato, tollerabile e socialmente giusto, mentre la mancata verifica di uno dei tre ne determina la straordinarietà e quindi la possibilità di non renderlo disponibile o di sospenderlo, perché sarebbe o sproporzionato o intollerabile o socialmente ingiusto.

    Il sostegno vitale

    Questa criteriologia, inoltre, riguarda i mezzi di cura, i mezzi terapeutici, da cui si distinguono quelli che assicurano il cosiddetto sostegno vitale essenziale, che consiste nell’assicurare al malato terminale il cibo e l’acqua, come pure quell’igiene essenziale, senza la quale il minimo vitale non è garantito. Il sostegno vitale dell’idratazione e dell’alimentazione è da considerarsi, in linea di principio, sempre moralmente dovuto, anche se dovesse essere assicurato artificialmente. Nei recenti anni passati, si è ampiamente discusso in teologia morale se l’intervento della strumentazione artificiale dovesse ascrivere, per esempio, le pratiche naso-gastriche all’ambito strettamente terapeutico e non a quello del sostegno vitale, come allora perlopiù si pensava.
    Tuttavia, vi è stato, progressivo e insistente, l’intervento magisteriale di Giovanni Paolo II che in questo, come in altri casi, ha rigorizzato le esigenze inerenti alla difesa e alla cura della vita umana, sottraendo l’idratazione e l’alimentazione dall’ambito strettamente terapeutico, anche quando assicurate in modo artificiale. Alcune risposte che la Congregazione della dottrina della fede ha dato ai Vescovi americani, che ponevano alcune domande, penso suscitate dall’esposizione mediatica del recente caso di Terry Schiavo, conferma questa linea di soluzione, che si giustifica come attualizzazione di un orientamento tradizionale della morale cattolica, che in questioni riguardanti la vita umana ha sempre coerentemente scelto quelle pratiche e quelle condotte che più di altre evitano il rischio di porre indebitamente fine ad una vita personale, nel nostro caso, per inanizione e disidratazione. È comunque ovvio che il decorso clinico può andare incontro a complicazioni e raggiungere un punto in cui non è possibile, neanche artificialmente, proseguire, senza peraltro escludere del tutto che possano presentarsi evenienze che risultino eccessivamente gravose e quindi intollerabili per il paziente.

    La determinazione della morte

    Un’altra considerazione mi sembra necessario addurre: mi riferisco alla distinzione tra malato terminale e malato in coma vegetativo persistente: quest’ultimo non è un caso del primo, è invece un disabile, particolarmente invalidato. Emerge però qui la questione della determinazione della morte, cioè della fine della vita, noi cattolici aggiungiamo l’aggettivo «fisica» per alludere al fatto che la nostra vita è eterna e quindi può finire solo un suo modo, quello appunto nel tempo. Ma quando avviene la morte, cioè – per noi cattolici – quando l’anima si separa dal corpo? In passato la si riteneva avvenuta quando la respirazione, il battito cardiaco e la sensibilità erano cessati. La morte di un papa, tradizionalmente, veniva accertata in un triplice modo: quando il vetro posto davanti alla bocca non si appannava, quando non si sentiva più il battito cardiaco e quando colpendo la fronte con un piccolo martello d’argento non si aveva alcuna reazione.
    Oggi si è imposto ed è stato accettato dal magistero e della morale cattolica il criterio cerebrale, cioè quello che considera morta una persona quando è cessata definitivamente l’attività cerebrale, che permette all’organismo umano di essere appunto tale, e non semplicemente un insieme non coordinato di funzioni vitali. Tuttavia, il progresso delle terapie intensive ha presentato il caso di persone in coma vegetativo persistente, cioè di persone il cui cervello è attivo solo a metà, nella parte inferiore. Infatti la parte cerebrale superiore, dove risiedono le funzioni nobili, le funzioni coscienziali, resiste, senza ossigenazione, per minor tempo – al massimo un quarto d’ora – rispetto a quella inferiore, dove risiedono le funzioni organiche, come la deglutizione o la defecazione, che rimane vitale per un tempo maggiore, all’incirca il triplo. Come ben si può pensare, è nata la questione se persone che versano in queste condizioni siano da considerarsi morte oppure no.
    In un primo momento, sembrerebbe anche da parte del magistero ecclesiale, si tendeva a considerare morta una persona il cui cervello, nella parte superiore, risultava irrimediabilmente compromesso. Considerando, come è giusto farlo, l’identità della persona nella sua coscienza, quando di questa fosse impossibile la presenza, si dichiarava la scomparsa della persona dal suo corpo, che doveva essere quindi considerato cadavere. In un secondo momento riflessivo, ci si domandava se la coscienza della persona fosse tutta localizzata nella parte cerebrale superiore e non anche, in modo diverso, in quella inferiore, perlomeno per la connessione che tra le due era finora intercorsa. Proprio per questo, pur nel mantenimento del criterio cerebrale della morte, si è arrivati a richiedere la cessazione dell’attività di tutto il cervello, e non solo di una sua parte, seppur nobile come quella coscienziale. Una persona in coma vegetativo persistente – cioè prolungato ma non irreversibile – è quindi ancora una persona da rispettare pienamente come tale.
    Il criterio morale di riferimento, che anche in questo caso regola la prassi morale cattolica è quello che tende ad assicurare quei livelli operativi che, in modo il più possibile certo, escludano il rischio di una soppressione di una vita umana.
    Questi standards operativi sono particolarmente elevati, esattamente perché elevato e prezioso è il bene che è in gioco, appunto quello della vita umana personale.
    La configurazione e il discernimento morale di questo caso, come quello precedente a riguardo del sostegno vitale, è particolarmente elevata ed esigente, ma non può essere detta irrazionale e anzi, tra i possibili esercizi della razionalità morale, è tra i più coerenti e plausibili: cioè queste posizioni sono in elevata sintonia con affermazioni di superiore e pari livello. Certo sono presenti altre razionalità morali, la cui però semplice esistenza non autorizza la loro scelta, senza una previa verifica della loro tenuta argomentativa, un confronto a cui la morale cattolica desidererebbe nei dibattiti pubblici partecipare – una buona volta – alla pari, senza pregiudizi e discriminazioni.
    Proprio per il contenuto razionale della loro visione, i cattolici non possono essere tacciati di imporre la loro visione confessionale ad altri, come non impongono la loro fede quando si battono perché nella società non vi siano omicidi, furti o menzogne, come del resto non impongono la loro visione, per esempio, i liberali che, nella democrazia deliberativa, difendono e promuovono la libertà del mercato economico.
    Perché alcuni possono difendere le loro idee, senza essere tacciati di imporle, e altri se lo fanno invece sì. Forse che lo stato per essere laico deve essere in politica e in economia per forza liberale?


    OBIEZIONI E RISPOSTE
    Paolo Carlotti

    Domanda. Si afferma che Dio è padrone della vita, solo lui la dà e la può togliere. Ma perché significherebbe sostituirsi a Dio accogliere la domanda di un malato grave che intenda porre termine ad essa? Se il libero arbitrio lasciatoci da Dio dà all’uomo la possibilità di scegliere il bene o il male, perché non si accetta che venga esercitato anche in questo caso, cioè anche quando questo fosse religiosamente ritenuto «un male»?

    Riposta. La questione non consiste nel sostituirci a Dio, cosa che per altro ci è impossibile e per fortuna, perché Lui vede e agisce meglio di noi. La questione è invece il buon uso di quella libertà che Dio ci ha assegnato e che, anche in questo caso, è in gioco e a tema. Anche qui Dio lascia all’uomo la possibilità di discernere e di scegliere il bene e il male, come in ogni altra situazione o dilemma. Quindi non sussiste il rischio che Dio avochi di nuovo a sé una responsabilità che ha affidato all’uomo, circa le scelte fondamentali della propria vita. L’uomo non è creato «a responsabilità limitata», un progetto questo che si ripercuoterebbe solo in modo caricaturale sul Creatore, indicandolo come non molto geniale se avesse creato solo una marionetta e non un vero uomo, capace di sé. Inoltre, Dio non tergiversa e non ritorna, come invece noi, sulle scelte e quindi non solo accetta e lascia, ma molto di più, vuole che l’uomo sia consapevole, libero e responsabile, e preferisce correre il rischio che l’uomo usi male la sua libertà, piuttosto che trattarlo come una marionetta.
    Il problema, come sempre, è di merito e cioè: quale scelta si addice all’autenticità della nostra libertà? Ha senso affermare la nostra libertà per distruggerci? Che senso ha affermare la nostra libertà, se dopo il suo esercizio noi non ci dovessimo essere più o esserci diminuiti nella nostra identità, diminuzione che sopraggiunge con ogni scelta negativa? Di qui il rapporto della libertà con la verità e l’impegno per ricercarla spassionatamente. È vero, l’uomo si realizza nella libertà e nella verità e nessuna delle due da sola basta. Infatti una verità imposta, cioè senza essere scelta liberamente, non configura il profilo identitario del soggetto umano, che, dall’altra parte, è disperso da una libertà che non scelga la verità.
    Ed infine un cenno al male religioso, che è tale solo quando è male morale. Noi andiamo contro Dio solo quando andiamo contro il nostro bene, cioè quando facciamo il male, ebbe a dire con molta lucidità, s. Tommaso d’Aquino.

    D. Che cosa impedisce di leggere la domanda di morire dignitosamente come segno di una spiritualità viva e cosciente, radicata nel Dio della vita e nelle sue promesse?

    R. Precisamente il fatto che sia immorale e quindi non assolutamente coniugabile con la volontà divina, perché, per muoverci in un orizzonte cristiano, non si può rifiutare ciò che Dio ha creato e librarci solo nella positività della sua opera salvifica. Se rifiuto la vita che il Dio della vita mi ha dato – ed è rifiuto della vita quello che dichiara una sua parte senza senso – come posso capire le promesse di Dio, in particolare quella che si è svolta e manifestata nella passione e morte di Gesù? Se l’ipotesi che la domanda prevede fosse pertinente, Gesù non avrebbe dovuto capire che la sua vita era ormai inutile, che, in poche parole, aveva perso e quindi doveva ritirarsi. Perché essere così «testardi» da rifiutare addirittura un po’ d’aceto narcotizzante? Si potrà dire, come talora si pensa e talora pure si dice, che Lui era Lui e noi siamo noi. Ma allora quell’esempio di vita che ha voluto lasciarci non vale proprio per noi? A che pro sarebbe venuto in mezzo a noi?
    Sì, qualche volta certe proposte spirituali sembrano trascurare il necessario raccordo con la morale cristiana e, talora, quasi rappresentare la «via cattolica» alla sua evasione. Ecco un altro aspetto in cui si incorre quando le due discipline, teologia morale e spirituale, continuano, nonostante la sollecitazione del Vaticano II, a rimanere separate. Mi scuso in anticipo se mi permetto di rimandare ad un mio libretto, apparso recentemente sulla questione, per chi volesse saperne di più. P. Carlotti, L’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo. Teologia morale e spirituale in dialogo, Las, Roma 2008.

    D. Non stiamo comunque tentando di «modificare» la volontà di Dio tenendo in vita di fatto artificialmente (con macchine, sistemi di alimentazione), in maniera «innaturale» (un tempo sarebbe sopravvenuta una morte assolutamente naturale), una persona che senza la tecnologia moderna non sarebbe più? «È Dio a far vivere e a far morire», ma oggi in realtà è la prepotenza tecnica… Una aggiunta attuale: accanimento terapeutico o mezzi eccezionali possono essere giustificazione moralmente lecita per l’interruzione delle cure… perché invece non una alimentazione forzata per una persona in irreversibile stato vegetativo?

    R. Ad alcuni aspetti della domanda ho già dato sopra una qualche risposta. Vorrei però precisare meglio uno di questi. La volontà di Dio non coincide col corso naturale, fisico, biologico della vita. Essa invece include necessariamente ciò che è moralmente buono. Inoltre, artificiale non coincide con immorale – neanche nella questione dell’illiceità dell’intenzione contraccettiva – né naturale coincide con morale. Se pensiamo al passato, molte persone sarebbero morte con la lebbra… è giusto applicare alla medicina le nostre scoperte, non è giusto nessun accanimento, ma quando questo lo è. Appena sopra abbiamo detto qualcosa al proposito.
    Ma capisco che alcuni casi possono far suscitare una certa impressione: altro è curare la lebbra, altro è curare un malato in stato vegetativo persistente (si preferisce questo rispetto all’aggettivo «permanente», proprio perché non si può escludere una reversibilità). Occorre riconoscere che il caso è difficile per ogni impostazione morale, anche per quella cattolica, ma proprio per questo non è saggio astenersi da azioni che potrebbero risultare letali? In questo modo non si innalza nella società il livello di considerazione e di rispetto dovuto alla persona?
    Certo, la polarizzazione politica non giova ad un sereno dibattito, ma c’è anche da dire che se in passato si imponeva un trend di facile permissivismo in ogni questione bioetica – tipica fu quella rilevantissima dell’aborto – oggi forse, con miglior consapevolezza occorre procedere con maggior cautela. Una semplice considerazione riguardante proprio la questione dell’aborto. A livello internazionale, si riconosce universalmente la presenza personale nel feto dopo il secondo mese. Non sarebbe questo sufficiente a rivedere in senso restrittivo molte legislazioni, compresa quella italiana? E perché nonostante l’evidenza assodata di alcuni dati scientifici, non si procede?

    D. È giusto che posizioni religiose determinino o influenzino la vita di uno Stato per sua natura laico e aconfessionale? In che senso potrebbe essere stabilita una legislazione in materia… nel rispetto della laicità dello stato? Un caso specifico: un’eventuale approvazione del testamento biologico… è già di per sé contrario alla morale della chiesa, che difende la vita a tutti i costi?

    R. No, non è giusto imporre per legge ai cittadini, anche se fossero tutti cattolici e a maggior ragione se non lo sono, comportamenti che attengono ad una precisa assunzione confessionale o meno. Non sarebbe neanche giusto imporre a tutti i cittadini l’ateismo o il liberismo, per legge. È però lecito a ciascuno, anche in forma organizzata, proporre progetti sociali e battersi, democraticamente, per la loro attuazione, sempre che abbiano quella plausibilità razionale da tutti riconoscibile e quindi da tutti accettabile: è questa la base su cui poter legiferare, a prescindere da specifiche impostazioni globali – religiose o no – dell’uomo.
    Nella proposta politica, fa comunque la differenza il volere qualcosa di positivo per la società o il lasciar il più possibile la libera iniziativa ai cittadini. È il classico discorso del rapporto tra i cosiddetti diritti liberali e i diritti sociali: i primi sono diritti a non essere impediti, perché i soggetti propositori sono capaci di buona e vasta autonomia, i secondi sono diritti ad essere abilitati, perché i soggetti sono invece deboli e bisognosi. Ora una società che si limita a non impedire chi desidera difendere la vita, come vorrebbero i liberali, è una società il cui progetto è umanamente discutibile; e se i cattolici o altri lo fanno, non è imporre la loro fede, ma è discutere un progetto sociale, e quindi non è attentare alla laicità di nessun stato. Si consideri poi che per i laici, lo Stato è laico anche perché è neutrale rispetto ad ogni impostazione globale, non solo religiosa ma anche politica. Possono cioè correre il rischio di imporre allo stato le loro idee non solo i cattolici.

    Bibliografia

    - P. Carlotti, Questioni di bioetica, LAS 2001;
    - E. De Septis, Eutanasia. Tra bioetica e diritto, Messaggero 2008;
    - G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Bruno Mondadori, 2005;
    - D. Lamb, L’etica alle frontiere della vita, Il Mulino, 1998;
    - E. Lecaldano, Dizionario di bioetica, Laterza, 2002;
    - G. Piana, Bioetica. Alla ricerca di nuovi modelli, Garzanti, 2002;
    - P. Verspieren, Eutanasia? Dall’accanimento terapeutico all’accompagnamento dei morenti, Paoline, 1985.


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