Prete, un «modello» per i giovani oggi?

Amedeo Cencini

(NPG 2009-01-27)


Lo scenario che dovremmo tentare di delineare è abbastanza complesso e in movimento. La figura del «reverendo», come si diceva con rispetto un tempo, o del «don», nel gergo riduttivo odierno, affascina ancora il giovane?

In genere la figura del prete sembra «tenere» nello sfascio pressoché generale dei punti di riferimento e a dispetto del periodico scandalo sessuale sacerdotale (più o meno presunto magari, ma sempre discretamente pubblicizzato). In generale la sua immagine è circondata da una certa considerazione: nel passato era forse venerazione, ora è apprezzamento per ciò che fa più che per ciò che è, e per ciò che fa di straordinario più che per il suo normale modo d’essere, dunque soprattutto per le sue prestazioni sociali, per il recupero dei tossici, o per quell’aria anticonformista che caratterizza il suo stile di vita, o perché riesce a tener assieme gli adolescenti scapestrati e incontenibili di oggi (dando una mano a genitori disperati che non san che fare), o perché è quel «pretaccio» simpatico e verace che non può che risultare interessante, anche quando ha una sbandata[1]… Dunque considerazione positiva, tutto sommato.
Ma se c’interroghiamo precisamente ed esclusivamente sul «fascino vocazionale», anche qui, come in altri àmbiti, la situazione sembra «liquida» e contraddittoria: c’è un apprezzamento sincero, da parte d’un numero rilevante di giovani, secondo Garelli, per la figura del prete, al punto di rappresentare motivo di riflessione e discernimento vocazionale per 11 giovani italiani su 100 (cioè per circa un milione di ragazzi).[2] Ma le quotazioni scendono se si passa all’effettiva scelta, che è tutt’altro che consequenziale, e dunque va in qualche modo a indebolire la verità di quell’apprezzamento. Sempre secondo Garelli la responsabilità sarebbe soprattutto dei preti stessi, che non capterebbero questo interesse, lasciandolo così abortire.[3] Verrebbe dunque da rispondere no, almeno genericamente, alla domanda del titolo: il prete sembra essere scelto sempre meno dai giovani d’oggi come modello per la loro vita, magari da seguire.
Ma cosa vuol dire in realtà «fascino vocazionale»? Lo vediamo dal punto di vista sia del giovane che prova l’attrazione, sia di chi tale attrazione dovrebbe provocare.

FASCINO VOCAZIONALE (DA PARTE DEI GIOVANI)

Fascino vocazionale è l’attrazione che si avverte dentro di sé verso quei modelli umani che sembrano incarnare il proprio ideale di vita.
Due elementi, almeno, vanno sottolineati di questa definizione.

Fascino e libertà di affascinarsi

Il fascino vocazionale dovrebbe essere un atteggiamento naturale, che contraddistingue la fase adolescenziale e postadolescenziale, ma anche quella giovanile. Anzi, è addirittura un elemento fondamentale per la crescita del senso dell’identità e dell’appartenenza o, più semplicemente, per la scoperta di quel che uno vuole davvero nella vita e per la scelta oculata, poi, del proprio stato di vita. Molte volte quel che il soggetto ancora non sa di sé e dei suoi desideri più profondi lo riconosce attorno a sé, specie nell’altro. Anche in tal senso possiamo dire che l’identità nasce nella relazione o viene da essa.
Ma il problema sembra oggi proprio questo: non è così scontata questa operazione, che suppone una certa capacità-libertà di desiderare e desiderare intensamente, di voler dare alla propria vita un orientamento consequenziale (mettendo in conto anche un bel pacchetto di rinunce), dunque d’impegnarsi a dar corpo ai propri desideri, e cercare-trovare attorno a sé dei modelli, visto che nessuno può pretendere di trovare quel che non desidera. È proprio da questa libertà che deriva quell’altra libertà, quella di lasciarsi attrarre, quasi abbandonandosi alle proprie aspirazioni viste in qualche modo riflesse nell’altro o comunque attorno a sé. In altre parole è da vedere per prima cosa se il giovane è capace di provare fascino per qualcosa, di entusiasmarsi, di provare passione.
E sono in molti a dire che questa capacità-libertà è tutt’altro che evidente nell’attuale generazione giovanile. Senza scadere in giudizi eccessivi e ingrati (la generazione dei bamboccioni o degli invertebrati, dei debosciati o degli svuotati, degli arrapati o degli sfumati…), credo sia sotto gli occhi di tutti il clima di apatia e indifferenza di una gioventù spesso senza grandi aspirazioni né ideali, e ove dunque anche la libertà di provare fascino va a farsi benedire. Né basta una GMG o un’adunata troppo generosamente definita oceanica di papaboys festanti, con chitarra a tracolla, per smentire tutto ciò o concludere che «i nostri» fanno eccezione tanto son bravi.

Contenuto (o motivazione) del fascino

D’altro canto occorre esaminare bene il contenuto di questi desideri: non bastano interessi momentanei o attrazioni passeggere. Occorre un desiderio che sappia affrontare la prova del tempo, che resista alla sfida della non gratificazione immediata, che non s’accontenti di qualcosa di più piccolo o di ridotto (e riduttivo) rispetto al progetto iniziale… Tutto ciò non sarebbe fascino vocazionale, il quale – per natura sua – suppone un desiderio grande per qualcosa in cui riconoscere la propria identità, dunque qualcosa di stabile e definitivo fortemente voluto, non il prurito del momento.
Altra specificazione rilevante sul piano psicologico: nel dinamismo di attrazione scatta un movimento naturale di crescita, abbiamo detto, ma che di per sé non garantisce la crescita stessa e la sua direzione; è ambiguo. E l’ambiguità partirebbe proprio dal contenuto dell’attrazione o dell’identificazione con il modello che attrae il giovane. Occorre, in questi casi, vedere con quale aspetto dell’altro il soggetto si identifica (e dunque quale parte dell’io viene proiettata sull’altro): non è detto che aspetto (dell’altro) e parte (dell’io) siano necessariamente espressione di maturità. Un giovane, ad esempio, può esser attratto dalla maturità umana del prete che si dedica interamente all’annuncio del Regno ed è segno della compassione di Gesù per i piccoli e i poveri; ma potrebbe anche avvertire in certe dimensioni della vita del sacerdote (o di qualche prete) la possibilità di gratificare certi suoi bisogni fondamentali (di cui magari è meno consapevole): il successo, la stima degli altri, la visibilità della propria persona, un’inconfessata gratificazione affettiva, un certo potere «spirituale» sugli altri, il sogno d’una carriera magari tinta di rosso, un’ambigua attrazione per il sacro, un infatuamento altrettanto ambiguo per la liturgia e l’aspetto più esteriore e cerimoniale d’essa…, quando non vi fossero addirittura dubbie trame e oscuri intenti (ad esempio nascondere la propria omosessualità o magari sublimarla e trovare il modo di gratificarla)… Nel primo caso avremmo una identificazione germinativa, in funzione della crescita della persona, nel secondo avremmo una identificazione regressiva, che evidentemente non la fa crescere, bensì la fa tornare indietro o la blocca.[4]
L’identificazione germinativa suppone un’attrazione sana, sul piano umano e cristiano, perché fa essere il soggetto quel che è chiamato a essere; l’identificazione regressiva nasconde invece un’attrazione non autentica, poiché non in funzione della sua verità; la prima chiede capacità di rinuncia e può complicare la vita, ma rende liberi interiormente, liberi di lasciarsi attrarre da ciò che è vero e bello e buono; la seconda non domanda alcun sacrificio, o almeno sottolinea di più l’attesa di gratificazioni che non l’esigenza di sacrificio, ma non fa crescere né l’uomo né il credente, poiché rende dipendenti dai propri bisogni; l’identificazione sana è pure realista e non nasconde l’aspetto duro del ministero, a differenza dell’altra identificazione, tutta costruita su aspettative irrealistiche. È una specificazione importante che introduce a un’ulteriore distinzione necessaria.
In termini cristiani, come nel nostro caso, tale progetto intuito-intravisto verrebbe a essere non semplicemente qualcosa che il soggetto ha concepito e pianificato o che corrisponde perfettamente alle proprie qualità o a ideali semplicemente umani (o umanitari), ma sarebbe soprattutto il desiderio di Dio sopra quella creatura, il sogno del Creatore su di essa, ciò che la conduce a realizzare il progetto della creazione, portando a compimento quella somiglianza con il Figlio già impressa in essa.
L’attrazione per la figura di un prete è autentica quando è in funzione del progetto divino, o quando si pone come mediazione che lo fa scoprire e infine scegliere come piano esistenziale. È attrazione umana ma in prospettiva trascendente. Diversamente, se l’attrazione è determinata da un motivo solo psicologico che non può sfociare di per sé o di fatto non sfocia mai nella determinazione di seguire il Signore, non si può chiamare attrazione vocazionale; è qualcosa di solo terreno che di solito ha pure vita molto breve.
In sintesi, allora, per l’analisi psicologica può provare un autentico fascino vocazionale solo chi possiede questi due atteggiamenti: la capacità-libertà di lasciarsi attrarre, anzitutto, e di lasciarsi attrarre da un progetto non solo umano né per un motivo solo umano.

FASCINO VOCAZIONALE (DA PARTE DEL PRETE)

Il fascino vocazionale, come lo stiamo analizzando, non è unidirezionale, o comunque esclusivamente legato alla maturità o libertà interiore del giovane. No, il fascino va anche suscitato, e quello vocazionale dipende anche da colui che una certa vocazione la sta già vivendo; è dunque un’attrazione che conosce due sensi di marcia tra due polarità che devono continuamente interagire tra loro. è fenomeno relazionale, che suppone una feconda comunicazione, a vari livelli e con vari tipi di messaggi, verbali e metaverbali.
Potremmo definirlo così: se il fascino vocazionale, da parte del giovane, è l’attrazione che egli avverte dentro di sé verso quei modelli umani che sembrano incarnare il suo ideale di vita, visto dall’altra parte tale fascino sarebbe l’attrazione che l’adulto è capace di suscitare in altri per la sua propria vocazione, in forza dell’attrazione che egli stesso continua a provare per essa e della coerenza con cui la vive.
Vediamo alcune implicanze di questo fascino sacerdotale.

Fascino per la propria vocazione

Tale fascino sembra essere la condizione fondamentale per suscitare nel giovane un possibile interesse. Non ci vuole granché per comprendere tale logica che, in negativo, suona così: un prete che non avverte e non continua ad avvertire lungo la vita l’attrazione per la propria vocazione, non potrà certo pretendere di provocare alcuna attrazione vocazionale nei giovani. Qui nessuno può barare. È un principio pedagogico ineludibile; ognuno dà quel che ha in cuore, anche se non lo sa, anzi a volte la reazione altrui (dei giovani, nel nostro caso) è ottima fonte, quasi uno specchio, per scoprire quel che siamo, e in questo caso per scoprire quanto il singolo prete ami la propria vocazione e la continui a vivere come un tesoro. Tale logica ricalca un po’ quell’altro principio pedagogico, secondo il quale un educatore educa efficacemente anzitutto con quello che dice (= fedeltà della testimonianza), ma ancor più con quel che fa (= coerenza personale), e soprattutto in forza di quel che è (= consistenza intrapsichica).
Nessun prete, dunque, ha diritto di lamentarsi per la scarsità dell’interesse vocazionale se prima non si interroga seriamente sulla qualità del suo personale interesse e attrazione per la sua propria vocazione. Anzi, verrebbe da chiedersi: e se fosse questo il vero problema vocazionale oggi? Senza scaricare ingenerosamente tutta la responsabilità sulle spalle di un’unica categoria di persone (i preti in questo caso, o i giovani come spesso avviene nei convegni vocazionali), credo nondimeno che i sacerdoti debbano molto seriamente riflettere sul messaggio vocazionale che inevitabilmente danno ai loro giovani, o positivo o negativo, di attrazione o repulsione, di scoperta continua o di noia mortale, senza vie di mezzo, e a partire esattamente dal fascino che continuano a sentire per la loro chiamata. Se un prete non ha sperimentato, per fare un esempio, il centuplo promesso dal Signore a chi lascia tutto per lui, come potrà sentire ancora fascino per qualcosa (o Qualcuno) che in realtà lo ha ingannato e tradito? Il rischio sarà che trasmetta proprio tutta la sua delusione e diffidenza, anche se non lo sa. Se un sacerdote non può dire in tutta coscienza d’aver saputo dare un senso pieno alla propria vita con la sua scelta vocazionale al punto – se nascesse di nuovo – di risceglierla, costui non solo non trasmette attrazione vocazionale, ma è un perfetto disanimatore vocazionale. E forse, se ora non suscita attrazione, già nel passato egli stesso non ha vissuto un’identificazione-attrazione vocazionale autentica, come un processo ancora irrisolto.
E non solo; la ricerca di Garelli ci dice che a volte (molte più di quanto pensiamo) un interesse vocazionale sembra comunque presente nei giovani, ma il prete non se n’accorge, non lo prende sul serio, quasi gli pare impossibile che un altro provi fascino per la sua vocazione.[5] Al punto di non sentirsi a sua volta chiamato ad accompagnare il discernimento vocazionale di questi giovani, e determinare così tanti «aborti vocazionali».[6] Tutti segni di un’attrazione vocazionale ormai smarrita, se mai c’è stata un tempo.
A uno sguardo più attento tale prospettiva ha molto a che vedere con la formazione permanente del clero: si può parlare di formazione permanente solo se anche la vocazione è permanente, chiamata quotidiana,[7] dunque sempre nuova e inedita proprio perché il chi-amante è Dio, che ogni giorno ha qualcosa di nuovo da dare e chiedere, cui il chi-amato risponde con un sì che non può essere ripetitivo e fotocopiato, ma altrettanto nuovo e spinto da un fascino inedito. Per un amore che si rinnova di giorno in giorno.
Ecco perché solo chi fa formazione permanente (o capta ogni giorno la chiamata e l’accoglie come tesoro sempre nuovo) può anche esser un autentico animatore vocazionale (= uno che suscita negli altri un corrispondente interesse, come dovrebbe saper fare ogni sacerdote). E, viceversa, solo chi prende sul serio la propria responsabilità vocazionale nei confronti degli altri si sentirà superstimolato a dare una testimonianza viva e luminosa della propria vocazione, e dunque a lasciarsi formare ogni giorno dalla chiamata stessa.[8]

Quando un prete diventa modello per i giovani

E siamo allora alla parte più propositiva. Il titolo dell’articolo, con quel punto di domanda, nasconde un certo imbarazzo sull’argomento o un certo dubbio sulla possibilità che la figura del prete sia ancora oggi esser modello o costituire figura di riferimento per il giovane. Imbarazzo e dubbio non infondati, ci suggerisce la crisi vocazionale odierna. Ma siamo altresì convinti che così possa e debba essere, perché nessun giovane si senta solo nel momento della scelta vitale.
Vediamo come.

Il modello nasce dalla relazione

Fermi restando alcuni punti essenziali e costitutivi l’identità profonda del sacerdote, non esiste, forse, un modello in assoluto di prete. Soprattutto se si intende fare una proposta che sia decifrabile all’interno di una certa situazione culturale e risulti attraente per un certo tipo di giovane d’oggi. Il modello – per altro – è già in sé un concetto relazionale, implica il rapporto tra due soggetti, dei quali uno diventa esemplare per l’altro. È dunque fondamentale la comunicazione, la possibilità di una intesa fatta di parole e non solo, di vicinanza e visibilità, di sintonia che matura sempre più attorno a valori e ideali precisi…
È solo a partire da questa… complicità psicologico-spirituale che si delinea il modello. Modello ideale, poiché indicherà al giovane una meta da raggiungere in corrispondenza di un suo desiderio, ma anche modello impegnativo, che indicherà al giovane stesso una via di superamento di sé e ascesi, proprio per attingere quell’ideale. Ma al tempo stesso la comunicazione andrà anche in senso opposto, dal giovane in cammino al prete già arrivato, poiché i desideri del giovane, nella freschezza di un sogno incontaminato, funzioneranno spesso da richiamo e monito, forse addirittura da rimprovero e provocazione per il prete che potrebbe aver un po’ smarrito «l’amore d’un tempo» e la freschezza di quel sogno. Allora la situazione diventa davvero esemplare, per entrambi i soggetti: l’uno diventa in qualche modo modello per l’altro, attorno a un Modello comune che supera entrambi e diventa meta comune.

Modello cristiano

La situazione del prete chiamato a testimoniare la bellezza della sua propria vocazione è in effetti una situazione un po’ strana sul piano psicologico, poiché deve mettere insieme due realtà o atteggiamenti che non sembrano di facile composizione. Da un lato deve attrarre e dunque mostrare una personalità spiccata, ben determinata, significativa, che si tira fuori dalla massa e lascia il segno in chi l’accosta, che ha il coraggio di dire cose forti e viverle con coerenza anche pagando di persona… Dall’altro deve assolutamente essere libero dentro, libero dalla infantile mania di attrarre a sé, per attirare verso un altro, anzi verso l’Altro, Cristo, il più bello tra i figli degli uomini… è un punto, questo, decisivo perché scatti una relazione feconda sul piano della testimonianza. Ma venendo incontro, al tempo stesso, alle esigenze psicologiche di chi come il giovane si trova ad affrontare il problema dell’identità, e dunque ha bisogno di punti di riferimento precisi, chiari, inequivocabili, sicuri… e non di quei pasticci d’ambiguità spesso esibiti da chi non vive quel che celebra o semplicemente celebra se stesso. Non si tratta di fare dell’inutile moralismo, ma di capire che prima ancora di una esigenza etica di coerenza da parte del don, in questione c’è la responsabilità verso chi ha tutto il diritto di pretendere dal discepolo del Signore la testimonianza che… ne valga la pena seguirlo e appartenergli per la vita e la morte, poiché la sua grazia val più della vita, e lui è il tesoro.
Quella pretesa diventa sorpresa dinanzi a un esempio vivente e coerente; e la sorpresa è già fascino, tanto più irresistibile quanto più la testimonianza è radicale.

Modello umano

Il modello è avvincente quando è comprensibile, e lo è di fatto non solo se il linguaggio è chiaro e semplice, ma quando la sua testimonianza risponde agli aneliti più segreti del giovane, incrocia il suo mistero, dà voce alla parte di sé più sana e libera, lo raggiunge in profondità, lo provoca potentemente, spalle al muro senza vie di scampo. In tal senso parliamo di modello umano, che è tutt’altro che modello facile e consolatorio, soft and light, o al servizio di sua maestà il mio io, mezzo disperato quando si lascia prendere dalla mania della realizzazione di sé fino a confondere con essa anche la vocazione cristiana e sacerdotale.
E qui scoppia un’altra serie di paradossi. Tutti ruotanti attorno al più paradossale dei paradossi: la croce di Gesù. Nulla è più rassicurante di essa, poiché ci dà la certezza di essere amati da Dio, da sempre e per sempre; ma nulla è più provocante d’essa, poiché se siamo stati salvati dall’amore crocifisso vuol dire che siamo stati resi capaci di amare alla maniera del Crocifisso. Nulla è così duro da accettare come la croce, eppure Gesù ha detto che da lassù attirerà tutto e tutti a sé (cf Gv 12,32), e dunque non c’è nulla di così misteriosamente attraente o affascinante come la croce. Anzi, diciamolo con forza: il fascino vocazionale non è autentico se non è parte di questo fascino misterioso, se non nasce ai piedi della croce, se non si lascia da essa purificare, se non significa la percezione che quello è il destino non solo del Maestro, ma pure del discepolo.
Beato il giovane che ha incontrato quel discepolo!

Il modello conduce alla relazione

Chiudiamo il cerchio: se il modello nasce nella relazione, la relazione ne costituisce anche il punto di arrivo. Che vuol dire che il vero modello non propone semplicemente un ideale di perfezione, non indica un progetto fine a se stesso o agli interessi dell’individuo, fossero anche quelli spirituali, non lo chiude in se stesso, tanto meno l’attira vanamente verso di sé, perché sia dei «suoi» e il suo gruppo sia sempre più numeroso… Al contrario, lo provoca a uscire da se stesso, anzitutto, a pensarsi in funzione degli altri, a concepire la propria esistenza come dono ricevuto e che dunque non può che tendere a divenire bene donato, senza alcuna presunzione di eroismo. Ma soprattutto lo provoca alla relazione, con Dio e con gli altri.
Allora avrà compiuto il suo dovere. Come Giovanni Battista, modello dei modelli (o loro patrono), libero al punto di invitare i suoi stessi discepoli a seguire il Messia; contento quando ciò avviene.

NOTE

[1] Vedi il successo delle fiction televisive che hanno un prete per protagonista, o di pubblicazioni che ne raccontano l’avventura, come il libro di C. Cannavò, Pretacci. Storie di uomini che portano il Vangelo sul marciapiede, Milano 2008.

[2] Cf F.Garelli (a cura di), Chiamati a scegliere. I giovani italiani di fronte alla vocazione, Cinisello B. 2006, 97.

[3] Ibidem.

[4] Sarebbe il caso del prete «puer aeternus»!

[5] Cf Garelli, Chiamati, 97.

[6] Nuove vocazioni per una nuova Europa, 35a.

[7] «Ogni vocazione è mattutina» (Nuove vocazioni per una nuova Europa, 26a).

[8] Proprio per questo è molto saggio e… economico investire oggi su queste due tematiche come fossero un’unica tematica: formazione permanente e animazione vocazionale.