A cura di Davide Martini e Elisa Storace
(NPG 2009-01-22)
Dal conservatorio al seminario per amore
Il primo «sintomo» vocazionale l’ho avuto da piccolo, il giorno della prima Comunione. Quel giorno il parroco si ammalò e, a sorpresa per noi bambini, al suo posto venne un altro prete. Ricordo che pensai: «Ma se il parroco muore, chi lo sostituisce? Tocca che qualcuno prenda il suo posto…». Per qualche motivo, ero convinto che il parroco dovesse per forza essere qualcuno della parrocchia, e immaginai che avrei potuto farlo io.
Avevo solo 8 anni, ma il pensiero di «fare il sacerdote» per me nacque quel giorno. Quando, diversi anni dopo, comunicai alla mia famiglia che sarei andato in seminario, mia mamma e mia nonna – mio padre non era più tra noi già da un po’ – presero la notizia con gioia. Anche i miei amici, quasi tutti musicisti con i quali allora studiavo e suonavo in conservatorio, furono molto contenti. Glielo dissi direttamente, senza troppi giri di parole, e nessuno ne fu stupito. Chi non prese bene la notizia, invece, furono i miei insegnanti di musica: si erano già fatti «dei film» su come avrebbe dovuto proseguire la mia carriera, e ci rimasero piuttosto male!
Della mia esperienza in seminario oggi posso dire che, dopo il primo «innamoramento», è arrivato «il vero amore»: all’inizio, quando entri tutto è bellissimo, ma è dopo un po’, nella quotidianità, nella vita di preghiera, che scopri che la scelta che hai fatto «è proprio la tua». Quando finirò il mio percorso in seminario se potessi scegliere mi piacerebbe fare «il prete di campagna», magari nella mia diocesi, anche se poi in realtà vorrei solo saper servire dove ci sarà bisogno. Se penso alle difficoltà che potrei incontrare spero di riuscire a superarle confidando in Dio, mantenendo il più possibile un rapporto diretto con Lui attraverso la preghiera. (Sergio)
Un ingegnere per il Regno
Io vengo da una famiglia cristiana, ma cristiana in modo normale. Prima di decidere di entrare in seminario, a venticinque anni, ho vissuto in modo del tutto simile a tanti ragazzi della mia età: fidanzata, studio, lavoro. Poi, un giorno, sono entrato in chiesa. Cercavo il parroco per parlare con lui. L’ho incontrato, lui mi ha guardato e mi ha detto: «Sei venuto da me perché vuoi farti prete?» Effettivamente era proprio così!
Quando annunciai questa scelta, in famiglia la presero bene, mentre gli amici per un po’ rimasero stupiti. Quanto ai colleghi di lavoro erano tutti molto giovani, e si può dire che non pensassero seriamente neppure al loro di futuro, figuriamoci se potevano concepire una scelta del genere! Per inciso: quando presi la scelta di seguire questa strada non me ne andai subito dalla ditta dove lavoravo come ingegnere, anzi. Accettai di partire per loro per un breve periodo all’estero: sentivo di dovergli qualcosa perché avevano puntato molto su di me, così scontai il mio «debito» e usai quel periodo come una specie di ritiro spirituale, prima di lasciare tutto quanto. Oggi posso dire che qualsiasi cosa andrò a fare, dal prete di periferia al missionario da qualche parte nel mondo, mi andrebbe bene.
Quel che spero diventando sacerdote è solo di riuscire a stare vicino alle persone che incontrerò, ad ogni singola persona – a Mario, ad Andrea, a Francesca o a Sara – «passandogli» Cristo nel modo più adatto. Provvidenzialmente lo Spirito Santo agisce attraverso di noi come neppure osiamo immaginare, per cui non c’è un solo modo giusto per farlo: magari una volta potrà essere giusto comunicare Cristo confortando qualcuno, oppure giocando a calcio in un oratorio, o anche solo ascoltando, quello che spero è che il Signore mi dia sempre la lucidità di capire che siamo solo strumenti. (Luca)
Per stare vicino a chi cerca
Più o meno fino ai 23 anni sono stato un classico «cattolico della domenica»: battesimo, comunione e cresima solo perché li fanno tutti, e poi più niente tranne le messe per le «feste comandate». Così fino alla Giornata Mondiale della Gioventù. Ricordo che la feci come volontario (per non pagare, lo ammetto!), ma fu allora che qualcosa dentro di me cambiò. Dopo quell’esperienza avevo bisogno di capire. Così sono partito per una settimana di esercizi spirituali ignaziani. Un’esperienza molto forte.
È stato così che ho cominciato il mio cammino verso la Chiesa e, dopo la seconda settimana di esercizi, ho capito cosa dovevo fare. Era il periodo di Pasqua. Allora ero uno studente fuorisede e studiavo a Roma, così, tornato a casa per le vacanze… ho detto ai miei genitori che sarei entrato in seminario! Mia madre, da buona donna del sud, pianse. Mio fratello, per alleggerire la tensione, disse che in fondo non è che le cose cambiassero molto: da quando stavo all’università tornavo già solo per le feste, e poi la mia camera lui se l’era presa da un pezzo! Anche la mia fidanzata (che pure mi aveva regalato la mia prima Bibbia!) non fu felicissima di saperlo, ma alla fine anche lei capì che doveva lasciarmi andare.
Quando entri in seminario hai molte aspettative, ma poi, fortunatamente, si smontano da sole: continuare a fare progettini sulla propria vita non è utile quando hai scelto di consacrarla a Dio! Quello che spero per il mio futuro come sacerdote è di riuscire a portare sempre la misericordia del Signore alle persone che incontrerò, ricordando di quando anch’io ero «dall’altra parte» e cercavo l’Amore di Dio. (Pietro)
La vocazione, un grande miracolo della fede
Dopo la prima comunione smisi di andare in chiesa, come succede a tanti bambini quando nessuno in famiglia considera importante la cosa. Solo che, dopo un po’ che non ci andavo più, iniziai a sentirmi a disagio: quando venne il momento di fare la comunione anche per mia sorella più piccola, ero io ad accompagnarla a catechismo, ma la lasciavo sempre sulla soglia. Non me la sentivo di entrare. Passò il tempo e, ormai ragazzo, mi capitò di andare ad un corso vocazionale.
Da quell’esperienza tornai più inquieto e confuso di quanto non fossi quand’ero partito, e fu allora che mia zia mi consigliò di andare da un sacerdote e, dopo tanto tempo che non lo facevo, confessarmi. Un consiglio semplice ma decisamente ispirato. Fu un momento di grazia: quel giorno qualcosa rifiorì dentro di me, qualcosa rimasto sepolto per anni. Non passò molto tempo e dissi ai miei che sarei entrato in seminario. Mia mamma non la prese bene: era convinta che mia zia mi avesse plagiato, che non mi rendessi conto di quello che dicevo. Ma in realtà tutti quelli che mi conoscevano bene non ci trovarono nulla di strano: i miei amici se l’aspettavano tutti!
La vocazione è un grande miracolo della fede: chi ha pretesa di comprenderla non ne viene a capo. All’inizio anch’io cercavo di immaginare, preordinare, ipotizzare il percorso che mi avrebbe portato verso il Signore. Erano i primi tempi e avevo molte aspettative, ma poi ho imparato ad abbandonarmi con fiducia a Lui. Nelle mie speranze oggi resta solo il desiderio di riuscire a portare Cristo, di riuscire a darne la vera immagine.
Quest’estate, per esempio, ho capito fino in fondo l’importanza dell’ascolto: ero in Abruzzo, e un giorno una signora mi ha chiesto di offrirle il braccio per non scivolare su un sentiero piuttosto scosceso. Mentre camminavamo le ho chiesto solo «Come stai?»… ed è venuto fuori un mondo! È stata una grande lezione. Perché, seppure il Vangelo è sempre attuale, la capacità di trasmetterlo non è del sacerdote, ma della misericordia del Signore che, sola, può renderlo capace di saper ascoltare il cuore delle persone cui il Vangelo è destinato. (Marco)
L’inesauribile fascino del mistero di Dio
La storia della mia vocazione nasce alle superiori. Ero all’inizio della quinta liceo quando iniziai a sentire che il Signore mi chiamava. Se dovessi sintetizzare quello che sentivo allora, direi che fu «un sentore che diventava certezza», come una pianta che, dopo un lungo inverno, arrivata la primavera improvvisamente fiorisce. La mia «primavera spirituale» venne durante le vacanze di Natale di quell’anno, quando continuavo a chiedermi «E adesso che faccio?». Fu il mio vescovo a mettermi sulla strada: mi chiese se volessi farmi prete. Una domanda cui non risposi, ma che sentivo essere quella «giusta».
Mi presi un po’ di tempo per riflettere, e a Pasqua annunciai a tutti la mia decisione di entrare in seminario. I miei accolsero la notizia come una sciagura: non volevano accettare che non fossi un ragazzo «normale», che avessi deciso «di rinunciare a tutto», che «li lasciassi soli in quel modo»! Fortunatamente, i miei parenti si dimostrarono inaspettatamente dalla mia parte, e in qualche modo cercarono di mediare. Non fu un bel momento: i miei amici non se l’aspettavano, e persino il mio parroco fu «freddino» quando glielo dissi… Insomma, avrebbe certamente potuto andare meglio, ma a me non importava: la gioia che provavo era talmente grande che niente poteva offuscarla!
Ormai posso dire che, almeno finora, il seminario mi ha dato molto di più di quello che mi aspettavo. Anzi: tutta la storia della mia vocazione è stata come un susseguirsi di curve a U, dove, di volta in volta, la strada che immaginavo per me ha deviato in un modo decisamente più ardito di quanto credessi possibile! Chiaramente, solo parlando in assoluto, se potessi scegliere tornerei volentieri nella mia diocesi: ogni volta che vado a casa per le vacanze mi rendo conto che tornare mi aiuta a mantenere il legame fra il seminario e il mondo esterno, e che il tempo che passo lì è spiritualmente importante perché mi offre l’occasione di sperimentare in modo concreto la necessità dell’annuncio della Parola.
La gente si aspetta molto dai sacerdoti: ovunque c’è un gran bisogno di risposte e nessuno che ne dia di convincenti. Il «fascino» della vocazione sta anche in questo: il nero dei nostri abiti indica il mistero, e l’uomo d’oggi ne ha una sete immensa. (Quintino)
Tornare a testimoniare Cristo... fuori dal seminario
Quand’ero piccolo mio padre mi portava in chiesa anche se a me non piaceva per niente; così, appena ebbi l’età per decidere da solo, smisi di andarci. In realtà tempo dopo feci anche la cresima, ma solo perché una mia amica mi chiese di accompagnarla: ricordo che a me interessava solo il fatto che i miei mi avrebbero regalato una telecamera! Allora avevo tutt’altro per la testa: fin da ragazzino volevo fare l’attore.
Il cinema e il teatro erano le mie grandi passioni, e allora erano anche le sole. Crescendo però, più o meno dopo le superiori, iniziai a sentire che non potevo pensare solo a me stesso. Continuavo ancora a coltivare l’amore per la recitazione, ma sentivo che non mi bastava più, che volevo fare qualcosa di utile per gli altri. Mi iscrissi al corso di laurea per educatore di comunità: avevo fatto diverse esperienze di volontariato e pensavo che lavorare nel sociale potesse essere la strada giusta.
Nello stesso periodo andai per la prima volta ad Assisi, dove conobbi il mio primo padre spirituale. Quindi, una sera, durante un’adorazione eucaristica vissi il miracolo della conversione: per la prima volta nella mia vita sentii l’amore di Dio per me! Fu come un fulmine. Mi sentivo amato da Lui e sentivo di dove fare qualcosa, di dover testimoniare a tutti quello che avevo capito… di doverlo seguire. Consigliato dal mio nuovo direttore spirituale di Roma mi iscrissi all’anno propedeutico al Seminario Romano Maggiore, e l’anno successivo entrai. Dei quattro anni in seminario conservo ottimi ricordi: è stata un’esperienza formativa importantissima.
È stato solo di recente, durante gli esercizi spirituali ignaziani, che ho capito di dover lasciare: l’esperienza della conversione nella mia vita era stata così forte che l’avevo scambiata per vocazione, ma le cose sono su due piani diversi. Non me ne sono andato perché non mi trovassi bene, l’ho fatto perché ho capito che quella strada non era per me. Ecco... «Chi rimane in me ed io in lui fa molto frutto»: se dovessi sintetizzare quello che mi aspetto dalla mia vita adesso userei questa frase. Quello che spero di riuscire a fare è essere testimone di Cristo come laico. Non è facile, soprattutto perché una volta tornato «qua fuori» non puoi sfuggire il timore di perderti... ma io confido nel Signore! (Daniele)