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    La teologia poetica di Dante

    Massimo Naro

     

    Nel 750° della nascita del Sommo Poeta, è possibile rileggere l'avventura spirituale e artistica della sua "alta fantasia" come la via lungo la quale ci è dato di sperimentare e, proprio per questo, comunicare il mistero, nell'intrecciarsi fecondo di verità e bellezza in cui Dio si rivela.

    «Vivendo, immo moriendo et damnando fit theologus»: si diventa teologo vivendo, sino a morire e a dannarsi. Iniziare una riflessione su Dante "teologo" con questa citazione di Lutero, può sembrare azzardato, perché potrebbe far pensare a un troppo frettoloso – e soprattutto indebito – accostamento tra i due, innegabilmente diversi tra di loro. D'altra parte, basterebbe riportare per intero la famosa frase di Lutero, per renderci conto che il riformatore probabilmente avrebbe messo anche il poeta nel novero di coloro ai quali con quelle sue suggestive parole intendeva riferirsi polemicamente: «Vivendo, immo moriendo et damnando fit theologus, non intelligendo, legendo aut speculando». Vale a dire che per Lutero si diventa teologo facendo concreta esperienza del mistero di Dio, vivendolo sulla propria pelle e nella propria carne, restando immersi nel crogiolo della storia, accettandone tutti i contraccolpi e non standosene in disparte, a studiare e a elucubrare o, ancor peggio, dal suo punto di vista, abbandonandosi alle visioni mistiche. Tutto il contrario di ciò che Dante aveva dichiarato, due secoli prima, nella chiusa della Vita nuova, preannunciando la Commedia: «[...] apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta [Beatrice] infino a tanto che io potessi più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso». Se avesse letto l'epigrafe preparata per la tomba del poeta dal suo amico Giovanni del Virgilio, che inizia proprio con le parole «Theologus Dantes», certamente a Lutero sarebbe sfuggita una smorfia di disappunto.
    Se, dunque, comincio con questa sua citazione è perché essa ci aiuta a misurare la distanza delmondo teologico in cui Dante si colloca, nel medioevo più maturo, da tutto ciò che verrà – dopo di lui – nella modernità. Ma anche perché, inopinatamente, ci permette di intuire la distanza che Dante pure manteneva nei confronti del suo stesso mondo teologico – quello della cosiddetta Scolastica, il mondo della teologia accademica, esercitata sulle cattedre universitarie – restando per un verso in collegamento con la tradizione monastica e, tramite questa, con la prospettiva platonico-cristiana dei Padri, per altro verso anticipando quell'attitudine laica, storica, umanistica, che la teologia avrebbe sviluppato nei secoli della svolta antropologica. La Commedia, infatti, con la sua struttura odegetica oltre che anagogica (termine, quest'ultimo, preferito da Piero Bargellini), dipanandosi come il viaggio di un vivo che fa i conti con la condizione dei morti, a cominciare da coloro che sono sprofondati all'inferno, per risalire al cospetto di Dio, fa pensare proprio a un cammino verso Dio realizzato però non più soltanto mentalmente, come nel titolo di san Bonaventura (Itinerarium mentis in Deum), bensì corporalmente, col peso della propria carne, intrisa di passione e grondante di passioni. Il che non vuol dire che nella Commedia non sia narrata una esperienza spirituale. Lo spirito è sempre nella carne, così come è sempre nella lettera: altrimenti non si può cogliere e, perciò, neppure distillare dalla carne e dalla lettera. Vuol dire, invece, che nella Commedia viene preso sul serio il vissuto storico degli uomini, giacché riguardo ad esso, alle sue luci e alle sue ombre, si manifestano via via il giudizio e la pietà di Dio, la sua sapienza e la sua pazienza.

    Intreccio fra continuità e discontinuità

    Di fatto, nei versi di Dante e nella sua "visione" il principio aristotelico secondo cui l'anima è forma corporis viene reinterpretato e trasfigurato, persino poeticamente capovolto, fino a fare del corpo – e di ciò che esso significa con le sue cangianti connotazioni: i vizi ardenti come catrame di quest'uomo o le virtù fulgide come luce stellare di quell'altro, le loro diverse scelte, le loro differenti azioni – lo stampo che garantisce a ciascuna anima il suo aspetto peculiare e, quindi, la sua riconoscibile e inconfondibile identità davanti a Dio. Le sembianze corporee delle «ombre» che Dante incontra nei gironi dell'Inferno e sulle cornici del Purgatorio, ma anche i loro diversi movimenti, i loro spasmi, i loro pianti, le loro imprecazioni, i loro sospiri, i loro sorrisi, i loro canti, le loro danze, fungono da cifra biografica per ciascuna d'esse e lasciano intendere che quello straordinario pellegrinaggio si svolge nelle pieghe strette della storia, lì dove persino Beatrice lascia le sue «vestige» (Par XXXI,81), dentro le piaghe aperte dell'esistenza umana, in cerca di «un al di qua migliore», per dirla con Gianfranco Contini e con Cesare Angelini, più che per una improbabile perlustrazione dell'al di là. Non a caso, nel XII canto del Paradiso, lo stesso san Bonaventura si presenterà al poeta non dicendo d'essere l'anima di Bonaventura, bensì dichiarando d'essere la sua vita: «Io son la vita di Bonaventura» (XII,127).
    L'indole della teologia dantesca, perciò, si rivela subito – in questi termini – esistentiva (per usare un aggettivo applicato a Dante da Balthasar), o esistenziale. Per riuscire a coglierla e ad apprezzarla, dobbiamo tenere in considerazione l'intreccio fra continuità e discontinuità da cui risulta la sua poetica e più precisamente – per anticipare il punto in cui intendo andare a parare – la sua teologia poetica (Giovanni Fallani avrebbe parlato di «poesia teologica»). Continuità: cioè stretta connessione, inevitabile influsso su Dante da parte del contesto epocale in cui visse. E discontinuità: cioè la sua capacità di eccellere rispetto a quel medesimo ambiente di riferimento, la tendenza a emergere in e da quello stesso contesto epocale. La vicenda di Dante, vista in questa prospettiva, può apparire come una sorta di matassa, arrotolata di fili diversi ma legati assieme: per srotolarla occorre discernere tra i vari fili senza compromettere i nodi in forza di cui essi stanno insieme. Si tratta di distinguere senza distanziare ciò che – di epocale, di culturale, di religioso – lo accomuna agli altri suoi contemporanei e ciò che – di geniale, persino di grazioso e di carismatico – costituisce la radicale novità del suo modo di parlare riguardo a Dio.

    All'insegna del pluralismo

    La continuità si lascia diffusamente registrare. Dante – come ha spiegato Romano Guardini – conosce bene il platonismo degli antichi autori cristiani, che lo predispone a farsi discepolo, al seguito di san Bernardo, della teologia contemplativa che più efficace d'ogni altra teologia gli sembrerà, infine, per poter penetrare nell'intimo mistero di Dio. E conosce bene l'aristotelismo attinto nei codici arabi dai pensatori cristiani a lui coevi, primo fra tutti l'averroista Sigieri di Brabante, che spunta come dodicesimo beato nella schiera guidata da Tommaso d'Aquino nel X canto del Paradiso. Gli studiosi hanno ormai messo in luce quasi tutti i debiti di Dante verso la filosofia e la teologia del suo tempo. Étienne Gilson, per esempio, ha dato un contributo magistrale, rilevando che Dante ha innestato abbondantemente di tomismo la sua Commedia, senza per questo farne un'espressione della Scolastica rappresentata dall'Aquinate; così, però, scontrandosi col parere di Pierre Madonnet e di altri per i quali, invece, il poeta fu discepolo fedele di Tommaso.
    Attardarsi su questi problemi significa lasciarsi coinvolgere in un vero e proprio conflitto delle interpretazioni. Forse, qui, per brevità, sarebbe il caso di liquidare la questione accettando il parere di Bruno Nardi, secondo cui Dante «non è averroista e neppure tomista; non esclusivamente aristotelico, né soltanto neoplatonico, o agostiniano puro», se però non si desse così l'impressione di considerarlo semplicemente come un epigono di seconda fila, eclettico collettore di sentenze altrui. La sua peculiare posizione tra le scuole del suo tempo è, piuttosto, quella di un intellettuale consapevole dei vantaggi del pluralismo. E in questo egli è testimone di uno stile specificamente cristiano, che risale agli inizi neotestamentari. L'elenco degli undici santi "teologi" che accompagnano Tommaso d'Aquino nel X canto del Paradiso e degli altri undici che accompagnano Bonaventura da Bagnoregio nel XII canto, lo dimostra efficacemente: tra di loro c'è spazio per ogni tipo d'indirizzo e per ogni grande corrente di pensiero credente; ci sono persino gli esponenti della sapienza d'Israele, il re Salomone e il profeta Natan; e ci sono anche i principali esponenti del razionalismo più rigoroso e dello spiritualismo più entusiastico, il già ricordato Sigieri nel primo caso e Gioacchino da Fiore nel secondo caso, dalle cui posizioni rispettivamente Tommaso e Bonaventura dovettero pur smarcarsi. La teologia, secondo Dante, è così: innanzitutto plurale e pluralista, perciò capace dí valorizzare ogni risorsa, di non penalizzarne pregiudizialmente nessuna, di farle maturare tutte insieme in una conoscenza sempre più profonda di Dio (questo può significare la terza ghirlanda di sapienti che il poeta intravede in Par XIV,67-78).
    Le teorie cosmologiche e quelle antropologiche che Dante poteva mutuare dal suo tempo, anch'esse all'epoca insegnate dai teologi (si pensi, per esempio, alla teoria della creazione delle anime e del loro destino dopo la morte, che Stazio spiega a Dante con gli argomenti di Alberto Magno nel XXV canto del Purgatorio), segnalano l'evidente adesione del poeta allo scibile medievale. Del resto, è tale fedele adesione a darci oggi l'impressione che la sua poesia comunichi dottrine irrimediabilmente datate. Inoltre, un po' in tutte le opere di Dante si ritrova il suo debito soprattutto verso la metafisica dell'epoca, sia quella dell'essere, di matrice aristotelica, definitivamente battezzata da san Tommaso, sia quella della luce, riverberante dalla tradizione platonica e che in realtà viene reinterpretata, in prospettiva cristiana, già a cominciare dal Prologo giovanneo, secondo cui il Logos, che è Dio (essendo nel Principio e stando in rapporto con Dio), è proprio la luce venuta a illuminare gli uomini. Che Dio sia il primo motore e che sia mistero di luce, Dante lo dice anche nella Commedia, specialmente nel Purgatorio e nel Paradiso. Basti citare, a tal proposito, la professione di fede che Dante rende a san Pietro in Par XXIV,130-132 e 139-141: «[...] Io credo in uno Dio / solo ed eterno, che tutto il ciel move, / non moto, con amore e con disio. [...] E credo in tre persone eterne, e queste / credo una essenza sì una e sì trina, / che soffera congiunto 'sono' ed 'este'»; e si consideri anche Par XIII,55-57: «[...] quella viva luce che si mea / dal suo lucente, che non si disuna / da lui né da l'amor ch'a lor s'intrea»; e Par XXXIII,115-120 e 124-126: «Ne la profonda e chiara sussistenza / de l'alto lume parvermi tre giri / di tre colori e d'una contenenza; / e l'un da l'altro com'iri da iri / parea reflesso, e l'terzo parea foco / che quinci e quindi igualmente si spiri [sembra di guardare le tavole del Liber figurarum di Gioacchino da Fiore...]. O luce eterna che sola in te sídi, / sola t'intendi, e da te intelletta / e intendente te, ami e arridi» (come dire che Dio è tutto e il contrario di tutto, Colui che esercita l'azione e Colui che la subisce).

    Un'ontologia relazionale

    Eppure, è sul versante della metafisica – applicata al tema di Dio – che baluginano gli indizi più significativi della discontinuità, che Dante guadagna rispetto alla maniera scolastica d'intendere il mistero dell'essere. Secondo il canto XXV del Purgatorio, «lo motor primo a lui [all'uomo] si volge lieto» (v. 70). Non è più, per Dante, un motore immobile, incapace di muoversi a sua volta, di mettersi in rapporto con il tutt'altro da Sé. Dante si esprime così non per deficit di lucidità aristotelica, ma per marcare consapevolmente uno scarto: «lo primo motor» è il «primo amore» (Par XXVI,37 e XXXII,142); meno ambiguamente: è il «primo amante» (Par IV,118: «O amanza del primo amante, o diva», come il poeta dice a Beatrice). L'orizzonte verso cui si spinge è quello dell'ontologia relazionale, che lo fa spiccare rispetto al panorama di intellettuali cristiani del suo tempo, ricollegandolo direttamente alla formidabile svolta iniziata con il primissimo pensiero cristiano, già nel Nuovo Testamento, e proiettandolo verso degli sviluppi che la teologia contemporanea sta ancora tentando di portare avanti. Dio è amore, in senso pieno. Non solo perché affascina di Sé il mondo, inducendolo a muoversi verso di Lui. Ma anche perché si lascia affascinare dal mondo, commuovendosi per esso, trascendendo per esso la propria trascendenza. È amore in senso pieno perché non solo è irresistibilmente amabile, ma anche instancabilmente amante. Questa svolta è annunciata in 1Gv 4,10: «In questo è l'amore (agape): non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi». E san Paolo conferisce a questo vangelo la dignità dell'assioma: «L'amore di Cristo ci afferra e ci possiede» (2Cor 5,14: he agape tou Xristou sunechei emas). La voce verbale sunechein era stata usata già dai filosofi presocratici, per i quali l'essere in quanto tale è il fondamento di ogni cosa che vediamo e viviamo: to einai – ho on – sunechei emas, l'essere ci avvolge e ci sostiene. San Paolo, sostituendo all'essere l'amore o, più precisamente, riconducendo l'essere all'amore, inaugura una nuova ontologia "agapica".
    Questa riaffiora in Dante, configurandosi come una sorta di theologia amoris. Già nell'ultimo sonetto della Vita nuova, nel XLI capitolo, egli se ne era dichiarato discepolo: «Oltre la spera che più larga gira / passa 'l sospiro ch'esce del mio core: / intelligenza nova, che l'Amore / piangendo mette in lui, pur su lo tira». Il che vuol dire che si conosce davvero solo per amore. Anche qui riecheggia il vangelo giovanneo. In questa direzione Agostino d'Ippona aveva intrecciato la tradizione giovannea con quella platonica. E al tempo di Dante questa consapevolezza gnoseologica era condivisa da chi non aveva dimenticato la lezione di sant'Agostino. Anche san Tommaso sapeva bene che amore e conoscenza si esigono reciprocamente (il gesuita francese Pierre Rousselot ce lo ha spiegato bene, nel suo volumetto Gli occhi della fede, prima di morire –cento anni fa ormai – in trincea, durante la Grande Guerra). Lo sapeva anche Bonaventura, alla cui «sussistenza» il poeta fa dire: «L'amor che mi fa bella / mi tragge a ragionar» (Par X11,31-32). E lo sapeva Guglielmo di Saint-Thierry, discepolo di quel san Bernardo tanto stimato da Dante.
    Dante stesso, che mostra di saper tutto ciò parlando con l'apostolo Giovanni in Par XXVI,34-36 («[...] conven che si mova / la mente, amando, dí ciascun che cerne / il vero»), disegna tuttavia uno specifico profilo di questa theologia amoris, dandole forma, nei versi della Commedia, con quelli che Karl Barth avrebbe chiamato "esistenziali" teologici: il gusto, la letizia, il sorriso, il desiderio, la passione, la bellezza. Non si tratta, per Dante, di rendere ulteriormente intelligibile la verità appresa nelle summae del suo tempo, di farne una semplice traduzione dal latino al volgare, di portarla dalle aule nelle corti, ma di illustrarla sino a renderla ammirabile da tutti. Se per Anselmo d'Aosta la teologia poteva essere ancora intellectus fidei, e se per Tommaso poteva essere ormai ratio fidei, per Dante doveva cominciare ad essere affectus fidei. L'espressione non è sua, ma corrisponde al suo tentativo di esercitarsi nel metodo teologico più sicuro: se Dio è Amore, occorre amare per conoscerlo e chi non ama non riesce a conoscerlo. E questo metodo gli insegnano i beati, i quali, prima fra tutti Beatrice, lasciandosi muovere dall'amore lo sospingono all'Amore, gli partecipano il loro sapere credente, per introdurlo progressivamente alla scientia Dei per antonomasia, cioè alla rivelazione e alla contemplazione del mistero dell'agape trinitaria in cui è custodita l'immagine dell'uomo nuovo, il volto del Figlio umanato nel quale solamente si può vedere Dio faccia a faccia, giacché è proprio il Figlio umanato l'immagine visibile del Padre suo invisibile (cf. san Paolo nella sua Col 1,15).

    La terza teologia

    Siamo al culmine della Commedia, all'approdo della metanoia dantesca, nel XXXIII canto del Paradiso. Qui non si può ripetere quel capolavoro di simmetria teologica che s'incontra già in Par XIV,28-30 («Quell'uno e due e tre che sempre vive / e regna sempre in tre e due e uno, / non circuscritto, e tutto circunscríve»): l' esprit de géométrie – con quest'espressione pascaliana possiamo parafrasare i versi 133-138 di Par XXXIII –non basta più per dar conto del mistero. E, in definitiva, neppure basta più l'esprit de finesse che aveva aiutato il poeta a svelare il principio dell'amore in ogni cosa e in ogni evento: nel cosmo (Par XXXIII,85-87 e 145: «l'amor che move il sole e l'altre stelle»), nella storia della salvezza (Par VII,28-32), nella beatitudine dei santi (Par XIX,20), nella singolare vicenda della Madre di Dio (Par XXXIII,7: «Nel ventre tuo si raccese l'amore») e persino nel rovescio dei sette vizi capitali da cui egli è purificato mentre si lascia guidare da Virgilio (cf. il Purgatorio intero, ma anche Par V,7-12). «A l'alta fantasia qui mancò possa» (Par XXXIII,142).
    L'alta fantasia è la teologia poetica di Dante, la cifra della sua eccellenza rispetto alla Scolastica medievale, la sua «terza teologia» – per citare di nuovo Balthasar – tra indirizzo francescano e indirizzo domenicano, tra platonismo monastico e aristotelismo universitario. Soprattutto è l'inversione di tendenza rispetto al pregiudizio degli accademici dell'epoca –sottolineato da Inos Biffi nei suoi studi su Dante –, per i quali la verità è difficile molto più che bella, ragion per cui la poesia – col suo fictivus modus tractandi (Epist. XIII di Dante a Cangrande della Scala) – non sarebbe all'altezza di occuparsene. L'alta fantasia è l'estremo tentativo di evitare il divorzio tra ragione e fede, tra mente e cuore, tra verità e bellezza, soprattutto fra teologia e messaggio biblico (anch'esso poetico, gravitante nell'orbita dell'invocazione più che della dimostrazione, giacché il dirsi di Dio è una Parola-altra che riecheggia nel ritmo rapsodico e nel paradosso, nei merismi e nelle parabole, nelle rivendicazioni di Giobbe e nell'alleluia gioioso dei salmi). Non è mera invenzione letteraria, l'alta fantasia. È, piuttosto, attitudine teoretica, vale a dire propensione all'intuizione, alla contemplazione intellettuale, a vedere oltre il visibile, dentro l'invisibile, o a discernere l'invisibile celato nel visibile. Potremmo, a tal proposito, far dire a Dante quello che aveva scritto sant'Agostino nel suo De Trinitate (XV): desideravi videre intellectu quod credidi. Coimplicando bellezza e verità l'una nell'altra, l'alta fantasia dimostra che la verità è principalmente bella e che la bellezza è innanzitutto vera: e i teologi, perciò, possono cantare e danzare. Così, teologare al modo di Dante equivale a pensare poetando: cogitare somniando, potremmo aggiungere, parafrasando ancora ciò che sant'Agostino scriveva all'amico Nebridio (Epist. IX), spiegandogli come «pensando o sognando, possano delinearsi in noi anche le forme dei corpi che non abbiamo mai visti».
    Dante, insomma, si assume il compito di percepire il logos: di rintracciarne le orme annusandone la scia, auscultandone l'impercettibile fruscio quando è ancora presente e l'eco ridondante quando ormai è sparito, scorgendone l'ombra fugace e fissandone la luce accecante, palpandone il lembo svolazzante, assaporandone quasi il retrogusto. Per questa sua sensitività l'alta fantasia è, con buona pace di Lutero, un vero e proprio esperire in cui ossimoricamente attività e passività s'intrecciano. E il poeta, così, cerca ed è trovato, interroga ed è interpellato, rincorre ed è raggiunto, sfiora ed è afferrato, parla ed è ricondotto al silenzio. 

    (Feeria, 2015/1, n. 47, pp. 36-40)


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