Sviluppo ed emergenza. Cooperazione o creazione di s-oggetti?


Educare all’intercultura /2

L’incontro con l’altro in terre lontane

Roberto Radice

(NPG 2008-02-56)


Nairobi, 21 gennaio 2007. Nella capitale keniana si sta svolgendo, per la prima volta in terra africana, la settima edizione del World Social Forum (Forum Sociale Mondiale) – il primo si svolse nell’anno 2001 nell’ormai celebre città brasiliana di Porto Alegre –, ovvero il meeting internazionale durante il quale si ritrovano e si riuniscono le Associazioni, le ONG, le opere caritatevoli e i caleidoscopici movimenti che operano in progetti di sviluppo e cooperazione nei Paesi Impoveriti ma anche nel cosiddetto Primo Mondo, dove molto spesso le sacche di povertà tendono ad essere segregate nell’ombra. L’evento rappresenta il momento cardine per una riflessione partecipata, per coordinare le campagne mondiali, informarsi vicendevolmente sui diversi movimenti disseminati per il mondo e sulle tematiche da loro sostenute, condividere e raffinare le strategie organizzative. Ma come troppo spesso accade in questi maestosi raduni, agli Impoveriti viene negata l’opportunità di partecipare, di portare la loro creatività e il loro libero pensiero: infatti per poter assistere alle conferenze e ai seminari, tenutesi presso la stadio Kasarani, era necessario possedere un pass, il cui prezzo d’acquisto era proibitivo per il popolo delle oltre duecento baraccopoli di Nairobi. In questa megalopoli di oltre quattro milioni di abitanti, più di due milioni e mezzo di persone sono denominate slum dwellers, ovvero abitanti delle baraccopoli, le quali occupano solamente il cinque per cento del territorio dell’intera città.
Ma quella domenica mattina di gennaio, la comunità della bidonville di Korogocho – dove vivono accatastati in meno di due chilometri quadrati circa duecentomila tra uomini, donne e bambini – dal suo essere marginale e nascosta sotto il livello fognario diviene per qualche ora «l’ombelico del mondo»: tutto è pronto per la celebrazione eucaristica e l’accoglienza di migliaia di persone da tutto il mondo che desiderano pregare insieme ai baraccati per un altro mondo possibile.
La santa messa, nonostante abbia come sfondo apocalittico e maleodorante l’immensa discarica di Dandora, si svolge con la gioia e l’energia che appartengono alla ricca e profonda spiritualità africana. Questa dimensione è il primo autentico incontro interculturale che coinvolge i muzungu, i musi bianchi: i loro volti, le loro mani, le loro gambe ritrovano la pienezza comunicativa di un rito che coinvolge tutti i sensi corporei e permette alla collettività di divenire luogo della manifestazione teologica del divino.
Il vero shock esistenziale avviene però al termine della celebrazione: gli abitanti di Korogocho si offrono per accompagnare gli Occidentali tra le stradine polverose e caotiche della baraccopoli. Così tra gli sguardi spauriti e disorientati di molti che chiedono rassicurazioni, poiché muoversi all’interno di un intricato labirinto di baracche in lamiera arrugginita, fogne a cielo aperto e frotte di gente che cammina non è cosa alquanto usuale per chi è abituato alle nostre pianificate città moderne, gruppi di 10-15 persone, molte delle quali stringono al petto le loro borse e i loro zaini per paura di essere derubate, cominciano a muoversi guidati dagli ospitali abitanti dello slum. Durante questa esperienza di cammino nel e attraverso l’agglomerato di tuguri indistinguibili gli uni dagli altri, che ha portato realmente a incontrare la realtà nella quale si stimano vivano attualmente più di un miliardo di persone in tutto il mondo, molti di coloro che avevano la «curiosità» di vedere Korogocho hanno potuto sperimentare un’altra dimensione pedagogica: quella del perdersi. Perdersi è un’azione non intenzionale: ci si trova perduti. È l’azione successiva che diviene intenzionale e può racchiudere in sé il bagliore di un nuovo inizio, di una crescita inaspettata: quella del ritrovarsi. Metaforicamente i «visitatori» si sono sentiti fuor di luogo, hanno percepito un disorientamento delle categorie abitudinarie, si sono sentiti dispersi e disperdere i propri punti di riferimento. Questa esperienza ha permesso loro di attraversare la soglia dello sconosciuto – fedelmente tenuti per mano dagli accompagnatori locali – e in questo modo attivare una riflessione postuma di lettura più adeguata del contesto della baraccopoli.

Uno «scambio» univoco?

Affinché un incontro sia pedagogicamente interculturale è necessario che lo scambio non sia univoco, altrimenti sarebbe più opportuno parlare di colonizzazione se non proprio di dominazione, bensì deve coinvolgere tutti soggetti, nel rispetto delle reciproche differenze, che hanno dato origine all’incontro stesso. Che cosa hanno lasciato alla gente di Korogocho gli ospiti bianchi lo si scoprì solo il mattino successivo. Questi ultimi lasciarono in dono, ai loro accompagnatori, del denaro: soldi. Percorrendo i viottoli della baraccopoli la gente ti fermava chiedendoti se avevi da cambiare – in scellini keniani – i dollari americani o gli euro ricevuti il giorno precedente.
Apparentemente questo fatto può apparire del tutto banale e insignificante, ma uno sguardo critico ne rivela un significato che troppo spesso soggiace al modo di aiutare e di fare cooperazione.
Il dono lasciato dagli uomini bianchi si inserisce perfettamente nel loro universo di senso e appartenenza: il capitalismo monopolistico dell’Occidente, nel quale il denaro è divenuto equivalente generale di misurazione quantitativa, con conseguente annullamento delle differenze qualitative.
Ciò che i bianchi non hanno inteso è che la gente della baraccopoli, in cambio dell’ospitalità offerta, chiedeva che la proposta di accompagnamento alla visita di Korogocho fosse accettata, infatti nessun estraneo vuole entrare a Korogocho. Ogni dono per essere educativo esige un controdono: è in questo scambio che il dono diviene promotore di relazioni e per tale motivo ogni pratica educativa non deve essere gratuita ma deve chiedere in cambio qualcosa all’educando. La partecipazione entusiasta dei visitatori consisteva già nell’essere il controdono. Il denaro non ha fatto altro che rompere la relazione, infatti «la carità ferisce chi la riceve, è umiliante perché chi riceve non può restituire». Questo dono monetario non ha fatto altro che ribadire la superiorità del bianco nei confronti del poveraccio che vive in baracca. «La monetizzazione della carità è un processo di impersonalizzazione del dono, ma il dono che è impersonale non è un dono: è un gesto di beneficenza, non di carità».
Non è affatto nostro intento dare giudizi manichei del tipo «il bianco è sempre oppressore e il povero sempre oppresso», ma applicare uno sguardo pedagogico alle pratiche di aiuto all’Altro che si trova in terre lontane. L’aiuto all’Altro rischia di divenire uno strumento perfetto o addirittura elegante di esercizio del potere, in modo particolare quando viene definito «aiuto allo sviluppo» e «aiuto umanitario».

Critica dell’aiuto

Il primo dei due termini si riferisce all’ambito della cooperazione internazionale, intervento messo in atto dall’occidentalizzazione del mondo che produce delle forme di soggettività, di antropogenesi cioè di creazione di tipi umani. Fu Harry Truman, Presidente degli Stati Uniti d’America, ad inaugurare il 20 gennaio 1949, durante il discorso al congresso americano, il programma strutturale di sviluppo. Il capitalismo compassionevole dell’homo oeconomicus ha definito la percezione del sottosviluppo come scarsità ed è attraverso l’utilizzo del dono che il Primo Mondo acquista potere: «in tutte le società il donatore acquista prestigio e diventa creditore di un debito di riconoscenza che niente può estinguere. Il neocolonialismo con l’assistenza tecnica e il dono umanitario ha fatto per la deculturazione molto più che non la colonizzazione brutale».
Gli aiuti allo sviluppo sono aiuti per il superamento di un deficit, di un bisogno come mancanza. Il bisognoso non è quindi padrone del suo bisogno, ma la sua condizione deriva da un confronto con una presunta normalità a lui estranea, che nei fatti viene però dichiarata imprescindibile. «Si diventa bisognosi in base ad una diagnosi – io decido quanto tu hai bisogno. L’aiuto concesso a questo bisognoso è un intervento di trasformazione». È una facoltà di decisione a senso unico questa che ha potere di vita o di morte nei confronti di milioni di persone: è la «professionalizzazione della carità».
Se il nostro diviene il modello di sviluppo da imitare, si apre una sorta di mimetismo e di standardizzazione con una conseguente destrutturazione culturale e castrazione della diversità dell’Altro. Da questa angolatura possiamo guardare allo sviluppo come creazione di s-oggetti: «non avendo più occhi per vedersi, parole per dirsi, braccia per agire, la società ferita adotta la visione dell’Altro si dice con la parola dell’Altro, agisce con le braccia dell’Altro».
Alla cooperazione, per porsi come sfida alternativa al sistema socioeconomico attuale, spetta il ruolo di tenere sempre viva l’attenzione sul rischio di «imporre le nostre soluzioni occidentali e industriali ai problemi del Sud del Mondo» per essere visibilmente un incontro che rifiuti di esportare nei Paesi «economicamente arretrati» il modello di sviluppo sperimentato in Europa, negli USA e in Giappone.
Il secondo termine che si vuole tentare si porre sotto vaglio critico è quello di «aiuto umanitario». In un contesto planetario segnato sempre più dall’instabilità, da tragedie e masse di popolazioni schiacciate dalle guerre, «l’aggettivo «umanitario» è diventato, infatti, un passepartout che autorizza e giustifica operazione dalle cause ambigue e dagli effetti difficilmente prevedibili».
La dimensione che soggiace all’urgenza dell’intervento di carattere umanitario è quella di emergenza: si è costretti ad agire, a dover fare qualcosa nell’immediato dell’evento reso visibile dai mass media internazionali. La triade urgenza, ingerenza ed emergenza consegna legittimità all’azione e la riconosce di fronte al diritto internazionale. È l’immagine del bimbo denutrito, dei corpi mutilati: il corpo del sofferente è il luogo per eccellenza dove fa presa e trova acquirenti il mercato mondiale della compassione. In questo spazio d’eccezione tutte le norme in atto vengono sospese e i discorsi e le azioni includono i soggetti escludendoli, nel senso che la cultura dell’emergenza viene normalizzata.
Questo sottile quanto sfuggente discorso – come però ogni bravo educatore ha appreso sono i discorsi che creano i contorni dei soggetti e della realtà – non fa altro che deresponsabilizzare a livello locale e globale sulle cause autentiche che generano situazioni di crisi, di ingiustizia, di sopraffazione e di violenza. Per l’ennesima volta l’Altro bisognoso viene relegato al suo essere quel corpo che grida aiuto o che forse non ha nemmeno più la forza disperata di gridare; quindi incluso in una categoria inclusiva – il bisognoso appunto – peraltro escludendolo ovvero non indagando ma occultando le origini e le cause di tale drammatica situazione, anestetizzando al dolore che lacera troppe, troppe vite umane. L’essere umano non è liberato, non può essere pienamente se stesso – cioè una vita irripetibile con diritti, doveri e sogni – bensì viene finemente abbandonato e costretto a interpretare il ruolo di disagiato, di escluso senza poter mai trovare un luogo pacificato dove posare il capo. «Il sottosviluppo è nella sua essenza questa visione, questa parola dell’Occidente, questo giudizio sull’Altro, decretato miserabile prima ancora di esserlo, e che lo diventa perché così giudicato irrevocabilmente. Il sottosviluppo è una condanna occidentale».
Codesta visione non vuole imprimere alla storia una direzione apocalittica e catastrofica, anzi semmai vuole aprire alla speranza di un mondo più giusto ed equo; se le soluzioni permanenti è necessario che si attuino a livello politico e di economie internazionali, è compito della pedagogia portare alla domanda politica del chiedersi che cosa posso fare e come posso farlo. Operatori di ONG, educatori che intraprendono il proprio lavoro in contesti nel Sud del Mondo attraverso opere caritatevoli e associazionistiche è basilare che decostruiscano il loro essere presenza occidentale affinché l’incontro con la cultura dell’Altro, con la vita dell’Altro si apra all’interculturalità. È il mistero e la ricchezza di una diversità che non si può e mai si potrà comprendere totalmente – con le sue tradizioni, le sue abitudini, le sue resistenze, la sua spiritualità, le sue creatività – il fulcro di un progetto interculturale. L’imperativo di una pedagogia interculturale chiama ad «amare il singolo, e odiare la sua condizione di diseredato, di povero, di sconfitto; amare il povero ma detestare la povertà, amare il violentato e odiare la violenza».
Nel frattempo, come scrive papa Benedetto XVI, io devo e «posso sempre ancora sperare, anche se per la mia vita o per il momento storico che sto vivendo apparentemente non ho più niente da sperare». Allora l’Altro non sarà più oggetto di carità pelosa, non ci sarà più bisogno di pietà e la carità ritroverà il suo significato originario: «io non vorrei che tu soffrissi, io vorrei essere inutile per te». E i bambini di Korogocho non dovranno più alzare il loro sguardo vivace verso il muzungu chiedendo di cambiare dollari americani o euro nella moneta locale, ma potranno semplicemente vivere una vita beata su questa Terra.