Giovani cercatori di Dio /2
Fenomenologia di un atto antico quanto l’uomo
Francesca Moratti
(NPG 2008-02-47)
«Si racconta di un Rabbi che un giorno si trovò a guardare dei bambini che giocavano a nascondino, e mentre questi giocavano un bambino si accorse che il Rabbi stava piangendo e gli chiese: “Perché piangi, Rabbi?”. Il Rabbi rispose: “Anche Dio si nasconde, come nel vostro gioco, ma non c’è nessuno che si metta a cercarlo”».
«Adamo, dove sei?» È la domanda che Dio rivolge all’uomo nel giardino dell’Eden. Dio lo cerca ma Adamo si nasconde perché ha paura di Lui: ha voluto mangiare del frutto proibito, si è lasciato sedurre e si è illuso di poter conoscere la radice del bene e del male sfidando il limite; ha mangiato e si è accorto di essere nudo. Nudità e pudore sono simbolo del limite e del distacco che da quel momento l’uomo sperimenta nei confronti dell’altro da sé. Cosa teme Adamo? La reazione di Dio perché gli ha disubbidito? O teme piuttosto di affrontare la vita, ora che ha preso coscienza della propria dimensione limitata? È diventato consapevole di non essere stato da sempre, di non essere per sempre (o, quanto meno, di non essere così per sempre) e di dipendere da altro; inoltre, cosa che fa ancor più male, capisce di aver sbagliato, di esser stato raggirato e di aver tradito Dio.
L’uomo quindi non cerca più la sua compagnia, ne teme il confronto: si costruisce una propria lettura del mondo (e di Dio) senza dialogo e cerca di fare da sé. D’ora in avanti meglio fidarsi solo di se stesso e delle proprie forze: quanto meno sono calcolabili e controllabili.
Dio lascia fare. Lui stesso si era posto un limite fin da principio, creando l’uomo libero. E così, per rispetto della libertà altrui, non si impone, non obbliga all’assenso con sfolgoranti evidenze, anzi si nasconde a sua volta e aspetta; chissà che qualcuno ad un certo punto percepisca il suo respiro ed intuisca che ci sia dell’altro, al di là di ciò che appare davanti agli occhi della ragione. Dio c’è e crede ancora che qualcuno lo cercherà, non ha perso la speranza.
Che ne è invece dell’uomo? L’uomo crede a se stesso. D’altra parte «l’hai fatto poco meno degli angeli», canta il salmista. Ma cosa succede quando si imbatte in situazioni più grandi di lui, apparentemente inspiegabili dalla ragione umana? C’è chi si ostina a forzare la realtà dentro i propri schemi mentali; c’è chi li distrugge per ricostruirli diversamente e, possibilmente, più ampi; c’è chi abdica al non senso e c’è chi si rivolge a un Dio costruito a propria immagine, semplicemente potenziata. Strategie diverse ma accomunate da un principio di fondo: si crede al senso dell’uomo ma non ad altri ipotetici sensi.
Un’autentica fenomenologia del credere porta però a riflettere su un aspetto tutt’altro che secondario: credere è un moto di apertura verso l’altro, forse il più autentico e rispettoso; anche credere in me stesso è in fondo creare uno spazio tra me che vivo e me che rifletto sul fatto di vivere. Dunque credere è attraversare un spazio vuoto, è aprirsi e andare verso l’altro compiendo un salto (come suggerisce Kierkegaard) perché l’altro rimarrà sempre un mistero insondabile alla sua radice. Credere è disponibilità ad ammettere l’esistenza dell’altro, a cogliere un senso che non dipende esclusivamente da noi. Credere è compiere un atto di fiducia e la fiducia non è frutto di una dimostrazione sillogistica: nasce dalla percezione di una promessa di senso, soprattutto quando non lo si comprende appieno. Anche chi dice di non credere compie quotidianamente piccoli atti di fede, dettati magari dal buon senso, dall’abitudine, dall’amore verso qualcuno: questo sta a significare che l’essere umano è strutturalmente predisposto a credere, non fosse altro che è umanamente impossibile dimostrare da soli tutto ciò che si dice e si sceglie. E così ci si affida.
Si intuisce così perché fidarsi solo di sé sia una tattica che lascia il tempo che trova: ha un suo valore e funzionalità, ma anche un limite.
«Non credo». Spesso molti di noi si fermano qui, senza definire l’oggetto e tanto meno articolare il moto del credere. Ma non credere è un’azione complessa almeno tanto quanto credere, dunque nessuna delle due vie può essere intrapresa solo perché semplifica la vita: ne verremmo subito delusi. Se quindi si tratta di fare una scelta ponderata e di viverla con coerenza, è opportuno indagare su cosa significhi credere (o non credere) e valutarne l’oggetto. Come si è visto, un presupposto è certo: l’essere umano non basta a se stesso ed è naturalmente aperto all’altro da sé. In lui è congenito un moto verso l’esterno: definire questo moto significa avvicinarsi a definire l’umano.
Dicevamo: «non credo». Dunque a cosa? Il moto del credere (e del non credere) implica sempre un oggetto perché credere è stabilire una relazione. Come la paura: si teme sempre qualcosa di definito perché anche la paura è un sentimento che implica la relazione con l’altro da me; il timore dell’indefinito, invece, è ansia, stato d’animo che volge gli occhi all’interiorità. Dunque se strutturalmente l’essere umano è predisposto a credere, ciò vuol dire che non credere significa non credere a qualcosa in particolare e, necessariamente, credere ad altro.
«Non credo a questa cosa»: perché? Questa è la seconda domanda da porsi. Stabilito che non si crede a qualcosa in particolare, si dovrà indagarne il motivo. Le spiegazioni saranno materiale di riflessione sia per chi non crede, che potrebbe arrivare ad intravedere una possibilità «ragionevole» per cambiare la sua posizione, sia per chi crede, che sarà stimolato a purificare le proprie ragioni.
Giovani cercatori, cosa cercate? Come? E soprattutto perché? Quando un giovane chiede di essere aiutato a percorrere un cammino che gli faccia scoprire le dimensioni profonde dell’esistenza fino a dove si può arrivare? È possibile arrivare a Dio? È possibile tracciare un percorso «razionale» che apra le porte al mistero?
Lo domandiamo a Enzo Bianchi (priore della comunità monastica di Bose) e a André Comte-Sponville (filosofo francese, ateo fedele come lui stesso ama definirsi). Ma prima di procedere al confronto tra due voci tanto autorevoli quanto divergenti in materia, occorre tener presente una cosa: ogni autentica fenomenologia del credere e, più in generale, ogni filosofia dell’esistenza, si fondano sulla consapevolezza, condivisa da credenti e non, che ciò che conta non è tanto trovare delle risposte quanto vivere le domande. È per questo che, metodologicamente, la ragione calcolante non può essere separata dalla ragione poetica: è quest’ultima ad arrivare per prima alla soglia del mistero, percependone la presenza e intuendone il senso, mentre la ragione calcolante ha ruolo di stimolo e di supporto nell’analisi. Questa è la modalità con cui affronteremo tutte le tappe della presente rubrica: dalla fenomenologia, ad una filosofia dell’esistenza ad un eventuale approccio di fede (il salto kierkegaardiano), passando dalla predominanza della ragione calcolante a quella della ragione poetica. Solo così si potrà giungere, se non necessariamente alla fede come adesione esistenziale, almeno al riconoscimento della fede come atto strutturalmente umano, approfondendone la conseguenza, solo apparentemente paradossale, descritta dal cardinal Martini, secondo il quale credente e non credente convivono in ciascuno di noi.
DIALOGANDO CON ENZO BIANCHI E ANDRE’ COMTE-SPONVILLE
L’uomo di oggi cerca ancora Dio? Come si pone davanti al mistero dell’essere?
COMTE-SPONVILLE: «Uno dei motivi principali per cui non credo in Dio è che non ne ho alcuna esperienza. (…) Nessuno mi toglierà dalla testa che se Dio esistesse dovrebbe vedersi o sentirsi di più (…) Mi stupisco di un Dio che insiste così tanto a nascondersi. (…) Gli umani non si nascondono, se non per giocare, o quando hanno paura o vergogna. Ma Dio? L’onnipotenza lo dispensa dalla paura; la perfezione dalla vergogna. (…) Pretendere che Dio si nasconda per preservare la nostra libertà sarebbe come supporre che l’ignoranza fosse un fattore di libertà (…). Chiaramente sul mondo, sulla coscienza, sulla vita non posso capire tutto. Ci sono cose che non so (…) ce ne saranno sempre; siamo destinati a confrontarci per sempre con il mistero. Ma perché questo mistero sarebbe Dio? (…) Preferisco accettare il mistero per quello che è: la parte di ignoto o di inconoscibile che avvolge qualsiasi conoscenza, qualsiasi esistenza, la parte di inspiegabile che presuppone o va verso qualsiasi spiegazione. (…) Ben lungi dall’essere un’obiezione contro l’ateismo, questo mistero intrinseco e irriducibile diventerebbe piuttosto un argomento contro la religione, o almeno contro un certo tipo di religiosità». (pp. 83-92)
BIANCHI: «La dura scoperta di essere ‘stranieri a noi stessi’, che è una delle acquisizioni ereditate dal secolo da poco concluso, la scoperta dei limiti della razionalità e della fede stessa – entrambe incapaci di rendere conto pienamente dell’uomo e del mondo nel loro restare permeati da una dimensione di tenebra, di enigma – dovrebbe inculcare quell’umiltà che è base di partenza di un’etica veramente consensuale (…). L’indifferenza di chi è deluso della fine delle ideologie, l’indifferenza di ex credenti frustrati nella loro attesa di un rinnovamento ecclesiale, l’indifferenza dell’homo technologicus convinto di poter dominare tutto attraverso la tecnica, appare ai cristiani come enigmatica e grande nemica. Eppure li stimola a porsi domande salutari: perché il cristianesimo ha cessato di essere interessante agli occhi di molti? (…) (I cristiani) sanno davvero esprimere e comunicare la loro peculiarità, la loro ‘differenza’? Non dimentichiamo che l’indifferenza cresce man mano che scompare la differenza!» (pp. 43, 73-75)
Religione, laicità: un aut aut necessario?
COMTE-SPONVILLE: «Una società può fare tranquillamente a meno di religione nel senso occidentale e ristretto del termine (il credo in un Dio individuale e creatore); potrebbe forse anche fare a meno del sacro o del soprannaturale (della religione in senso lato); ma non può fare a meno né di comunione né di fedeltà. (…) La nostra civiltà è inscindibilmente greco-latina e giudaico-cristiana, e questo mi va benissimo. È diventata laica, e questo mi va ancora meglio. Bisogna che questa laicità non sia un guscio vuoto né una forma elegante di amnesia o di dissociazione. (…) Cosa resta dell’Occidente cristiano, ora che non è più cristiano? (…) Se ciò che ne resta non è più una fede comune (poiché essa ha cessato, di fatto, di essere comune) può trattarsi solo di una fedeltà comune, cioè un attaccamento condiviso a quei valori che abbiamo ricevuto, un attaccamento che presuppone o implica, per ciascuno di noi, la volontà di trasmetterli. Credere o non credere in Dio? La domanda, per l’individuo, è appassionante. Ma non è essenziale per i popoli. (…) Anche per gli individui, del resto, la questione della fede non saprebbe occultare quella, più decisiva, della fedeltà. Dovrei far dipendere la mia coscienza da un credo (o un non-credo) non verificabile? Far dipendere la mia morale dalla mia metafisica? Commisurare i miei doveri alla mia fede? Sarebbe come sacrificare il certo all’incerto, e l’umanità necessaria a un Dio solamente possibile. È per questo che mi autodefinisco un ateo fedele: ateo, perché non credo in alcun Dio né in alcuna potenza soprannaturale; ma fedele, perché mi riconosco in una certa storia, una certa tradizione, una certa comunità, e specialmente in quei valori giudaico-cristiani che sono i nostri». (pp. 31-33)
BIANCHI: «La laicità, intesa come principio di distinzione tra stato e religioni, oggi non è solo accettata dai cristiani, ma è divenuta un autentico contributo che essi sanno dare all’attuale società. (…) Non c’è contraddizione tra fedeltà alla chiesa e attaccamento all’istanza di laicità. (…) Si è passati gradualmente da una laicità di rifiuto o di restrizione, il laicismo, a una laicità di rispetto o di neutralità positiva. (…) Giovanni Paolo II ha parlato di «giusta laicità» in cui tutti i cittadini possano sentirsi rappresentati, a qualunque fede, etica e cultura appartengano. (…) In una società pluralista, la laicità è un luogo di comunicazione tra le religioni e di garanzia per l’espressione delle diverse componenti della società, non un luogo che vuole contenerle o reprimerle. (…) Una ‘giusta laicità’ sarebbe di grande giovamento alla vita ecclesiale dei cristiani che proprio in essa potrebbero trovare protezione contro l’utilizzo della fede come ‘religione civile’, contro un uso strumentale della religione da parte di quanti misconoscono nuovamente la distinzione tra Dio e Cesare». (pp. 10-14)
Un ateo crede a qualcosa?
COMTE-SPONVILLE: «Sono un ateo non dogmatico: non pretendo di sapere che Dio non esiste: io credo che non esista. (…) L’ateismo è una credenza negativa ma è comunque una credenza – meno di un sapere, quindi, ma più della semplice ammissione di un’ignoranza o del rifiuto prudente e comodo di pronunciarsi. È per questo che sono ateo e non agnostico. (…) La questione di Dio ci viene posta – dalla nostra finitezza, dalla nostra angoscia, dalla nostra storia, dalla nostra civiltà, dalla nostra intelligenza, e anche dalla nostra ignoranza. Non posso pretendere che non mi interessi, né fingere di non avere alcuna opinione sulla sua risposta. Un ateo non dogmatico non è meno ateo di un altro. È semplicemente più lucido». (pp. 64, 68)
Si dà spiritualità senza fede? Si dà fede senza Cristo?
COMTE-SPONVILLE: «Il fatto di non credere in Dio non mi impedisce di avere uno spirito, né mi dispensa dall’usarlo. (…) Noi siamo degli esseri finiti aperti sull’infinito (…), degli esseri effimeri aperti all’eternità, degli esseri relativi aperti all’assoluto. Quest’apertura è, appunto, lo spirito. La metafisica consiste nel pensarla; la spiritualità nello sperimentarla, nell’esercitarla, nel viverla. È ciò che distingue la spiritualità dalla religione, che ne è solo una forma. (…) Essere atei non significa negare l’esistenza dell’assoluto; significa negare la sua trascendenza, la sua spiritualità, la sua individualità – significa negare che l’assoluto sia Dio. (…) Parlare di una spiritualità senza Dio non è quindi per nulla contraddittorio. In Occidente può risultare però sorprendente. Poiché l’unica spiritualità socialmente osservabile, nel nostro mondo, è stata per secoli una religione (il cristianesimo), abbiamo finito per credere che religione e spiritualità fossero sinonimi. (…) Quale spiritualità per gli atei? Ripensando alle tre virtù teologali della tradizione cristiana, risponderò volentieri: una spiritualità della fedeltà piuttosto che della fede, dell’azione piuttosto che della speranza, dell’amore, evidentemente, piuttosto che del timore o della sottomissione» (pp. 114, 116, 119).
BIANCHI: «Oggi emerge un cristianesimo senza fede intesa come quella adesione a Gesù Cristo che si traduce in una sequela, in una vita totalmente coinvolta nella sua vita fino, diciamolo chiaramente, alla croce. Ciò che invece conta ed è determinante non è più la sequela (…) bensì il riconoscimento della civiltà cristiana, il saperne leggere e difendere l’eredità storica e culturale, l’esaltazione e la posta in rilievo dei suoi simboli. (…) Nel nostro orizzonte ci sono oggi due fenomeni con cui l’evangelizzazione si trova a fare i conti: l’indifferentismo della maggior parte degli uomini delle nostre società post-cristiane e il pluralismo religioso, dovuto soprattutto alle migrazioni di credenti di altre religioni nel nostro continente. Entrambi mettono in crisi non solo le forme e i modi, ma la stessa plausibilità dell’evangelizzazione: sono fenomeni dolorosi per la coscienza credente perché non la contestano frontalmente, non la combattono apertamente, ma affermano, con il loro stesso esserci, che il cristianesimo può essere insignificante e che si può vivere bene anche senza di esso. L’indifferenza religiosa pone la chiesa di fronte allo spettro della propria possibile insignificanza e inutilità, mentre il pluralismo religioso fa intravedere al cristianesimo la possibilità di doversi considerare una proposta tra le altre, senza titoli di superiorità né, tanto meno, di assolutezza». (pp. 26-27, 73-74)
COMTE-SPONVILLE: «Possiamo fare a meno della religione; ma non di senso della comunione, né della fedeltà, né dell’amore. Ciò che ci unisce, qui, è più importante di ciò che ci separa. Pace a tutti, credenti e non credenti. La vita è più preziosa della religione (è quello che dà torto agli inquisitori e ai carnefici); il senso di comunione, più prezioso delle Chiese (è quello che dà torto ai settari); la fedeltà, più preziosa della fede o dell’ateismo (è quello che dà torto ai nichilisti altrettanto quanto ai fanatici); infine – ed è quello che dà ragione alle brave persone, credenti o non credenti – l’amore è più prezioso della speranza e della disperazione. (…) Credere in Dio significa credere in una verità infinitamente amante, e perciò infinitamente amabile. Essere atei significa all’opposto pensare che la verità non ci ama, né si ama da sé. È quello che ho chiamato disperazione. Ma dove avete letto che bisogna per forza amare di ricambio (solo a condizione di essere amati)? Sicuramente non nel Vangelo… È la verità del Calvario. L’amore, persino quello crocifisso, vale più di un odio trionfante». (pp. 61, 171)
Se ciò che conta, come si è detto, non è tanto trovare le risposte quanto vivere le domande, è chiaro che un confronto come questo potrebbe continuare all’infinito. Ascoltare l’altro, nella sua irriducibile diversità ma anche nella sua comune umanità, lo rende meno estraneo, allarga i nostri orizzonti di senso e fa intuire l’inesauribilità del mistero che tutti supera e racchiude.
E. Bianchi, La differenza cristiana, Einaudi, Torino 2006.
A. Comte-Sponville, Lo spirito dell’ateismo, Ponte alle Grazie, Milano 2007.
PER UNA RIPRESA DI GRUPPO O CLASSE
• La questione fondamentale dell’articolo (e dell’intera rubrica) è la ragionevolezza della fede e, nel contempo, la sua maggior apertura rispetto alla ragione in sé. Ma come farlo intuire soprattutto ai giovani i quali non si accontentano di un sentito dire ma vogliono sperimentare di persona che lo strumento «fede» funzioni?
• È un articolo prevalentemente fenomenologico che lascia però intravedere la dimensione esistenziale sottesa all’analisi fenomenologica. Nei prossimi articoli tale dimensione esistenziale verrà maggiormente esplicitata.
• Da un punto di vista formale l’articolo è diviso in due parti: la prima più teoretica, la seconda è un dialogo che dovrebbe suscitare ulteriori domande tra i giovani o, quanto meno, critiche sulle affermazioni dei due interlocutori.
• L’articolo si sviluppa attorno a tre punti principali:
– Un Dio che si nasconde
– Un uomo che cerca e crede a se stesso innanzitutto
– Dalla fede/fiducia in se stessi si può arrivare alla fede/fiducia in qualcuno di più grande di noi.
Il lavoro di gruppo
L’animatore (educatore, insegnante, catechista...) prima di tutto fa dire ai ragazzi stessi – in una specie di tavolo di giudizio – perché la fede è diventata un problema, e quali sono i dubbi circa essa, i pericoli avvertiti nell’accoglierla; ma d’altra parte anche quali sono i vantaggi che essa procura alle persone, alle società...
Alcune domande per i ragazzi:
– Perché tanta gente oggi dice di non credere più?
– Non si crede più in un Dio o non si crede più in generale a niente e nessuno?
– Quali sono le difficoltà maggiori nel credere nella società di oggi?
4) La fede è una questione personale o comunitaria?
5) Cosa ci si guadagna a credere o a non credere?
6) Che rapporto c’è tra fede e religione?
7) Credi che la tua fede sia diversa da quella dei tuoi genitori e dei tuoi nonni? Perché?
Suggeriamo alcune attività da poter svolgere con i ragazzi:
– un confronto tra testi di canzoni di Vasco Rossi (Ci credi; Un senso), De André (Si chiamava Gesù), Guccini (Dio è morto), Battiato (Il vuoto), Branduardi (Vanità di vanità; Dopo domenica è lunedì), Ligabue (Hai un momento Dio?), Povia (È meglio vivere una spiritualità) e Jovanotti (Mi fido di te) – i testi sono facilmente rintracciabili in Internet..
– un confronto tra le autobiografie di Edith Stein, Etty Hillesum e Amos Oz.
– un confronto tra poesie di Turoldo e di Neruda (vedi sotto in bibliografia).
– sulla base delle risposte date da Enzo Bianchi e Comte-Sponville, chiedere ai ragazzi di dividersi in gruppi di 3 per provare a simulare la continuazione del dibattito con nuove domande proposte dall’educatore o dai ragazzi stessi.
Suggerimenti cinematografici:
– L’attimo fuggente
– Gioventù bruciata
– La leggenda del pianista sull’oceano
– The Truman show
– 2001 Odissea nello spazio.
Suggerimenti bibliografici:
– E. Bianchi, La differenza cristiana, Einaudi, Torino 2006
– A. Comte-Sponville, Lo spirito dell’ateismo, Ponte alle Grazie, Milano 2007
– E. Hillesum, Diario, Adelphi, Milano 2001.
– A. Oz, Contro il fanatismo, Feltrinelli, Milano 2004.
– D.M. Turoldo, Diario dell’anima, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003.