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    Virtù come qualità della vita. Note introduttive


     

    Paolo Carlotti

    (NPG 2008-01-63)


    E’ importante, soprattutto oggi, quando si inizia un serio discorso, poter avvertire le coordinate culturali all’interno delle quali si svolge, cioè percepire che il discorso è culturalmente e regionalmente situato. Iniziamo cioè la nostra riflessione etica sulle virtù, situati in Italia, paese che vive e partecipa della cultura occidentale.
    Con la domanda etica si affollano nel nostra mente molte altre domande, che con quella si intersecano. Ma la stessa domanda etica è in realtà un nugolo di domande, che talora rimangono libere nella nostra mente e in modo soggiacente contribuiscono alla definizione delle nostre piccole scelte quotidiane. Mi è sembrato utile presentare una sventagliata di queste possibili domande, in gran parte nostre, di noi occidentali, come premessa alla riflessione sulle virtù. Sono domande che non potranno rimanere a lungo senza risposta, senza innescare a loro volta precisi e non irrilevanti condizionamenti. L’itinerario riflessivo sulle virtù si propone – avrei detto ambisce, se l’ambizione non fosse un vizio – una lettura unitaria dell’esperienza morale della persona e in essa dell’esperienza virtuosa, al fine di offrire una visione globale in grado di fronteggiare l’urto di tanti interrogativi. Non che ci sarà una risposta certa e precisa ad ogni interrogativo, ma certo per alcuni di essi cercheremo di trovarla.

    Le domande dell’ethos all’etica

    Parlare di virtù è sempre stato intraprendere un cammino in salita e oggi è anche in secca controtendenza. È un risvolto di quella permanente anche se cangiante inattualità dell’etica all’ethos, cioè della riflessione critica rispetto al vissuto etico, del dato di diritto rispetto al dato di fatto. Inattualità che ha fatto scrivere a J. Maritain alcune considerazioni che ben la descrivono e che ben si adattano ad una preliminare introduzione al nostro tema:
    «I moralisti sono degli sfortunati. Quando insistono sulla immutabilità dei principi morali, li si rimprovera di imporre agli uomini esigenze insostenibili. Quando spiegano in qual modo quei principi immutabili debbano essere applicati tenendo conto della diversità delle situazioni concrete, li si rimprovera di relativizzare la morale. Eppure in entrambi i casi non fanno altro che sostenere le rivendicazioni della ragione a guidare la vita. La peggiore tentazione per l’umanità, nelle epoche di tenebre e di generale sconvolgimento, è quella di rinunciare alla ragione morale. La ragione non deve mai abdicare. L’etica assolve un compito umile ma nobile e generoso, col portare la mutevole applicazione di immutabili principi morali fin nel vivo delle angosce di un mondo infelice, fintanto che in esso viva un barlume di umanità (J. Maritain, L’uomo e lo stato, Milano, Massimo-Vita e Pensiero 19922, 87).

    La procedura consensuale

    Non tutti sono d’accordo oggi sul compito dell’etica anche così indicato, e molti sono in palese disaccordo addirittura sull’identità dell’etica stessa: cioè che cosa essa sia, se possa effettivamente basarsi sulla verità o se invece esista sì un’etica, ma – per alcuni fortunatamente – senza verità. Ma ammesso e non concesso che una verità esista, ci si domanda quale essa sia, se sia unica e se sia realmente accessibile ad ogni uomo, visto il pluralismo morale che domina e governa non solo il mondo, ma oramai il nostro stesso vicinato. E poi se la verità morale c’è, serve a qualcosa o non è fonte solo di ulteriori divisioni e fondamentalismi, visto che per ora ognuno ha la sua? Ma è corretto porre la domanda a cosa serve la verità? E d’altra parte non ci si può non rendere conto che l’adesione sincera alla verità morale non rischia di renderci persone inutili, inefficienti e inefficaci nella vita di ogni giorno?
    Se poi una verità morale non c’è, sembra ad altri che si debba proprio inventarla, per definire almeno quei comportamenti, certo minimali, che le società multiculturali oggi richiedono. Possiamo anche arrivare a metterci d’accordo nel vietare quei comportamenti che da tutti sono ritenuti ingiusti e cattivi, ma per molti altri il consenso non è raggiungibile, consenso poi che non sempre è facile e agevole acquisire; e il rischio che, in definitiva, il parere giusto sia quello che aggiusta gli interessi prevalenti o quello di chi dispone più forza – politica, economica, contrattuale, ecc. – non è lontano. Non è che i poveri e i deboli continuano così ad essere esclusi? Ma qualcuno replica che la situazione non cambierebbe con la presenza riconosciuta di una verità morale. E tuttavia un consenso è indubbiamente apprezzabile; è però sempre sufficiente?
    A ben considerare poi, la società civile e l’autorità politica, per favorire la gestione del multiculturalismo, assumono una posa neutrale ed equidistante di fronte ad ogni visione morale, soprattutto quelle più complete e articolate. L’ambiente vitale sembra non aiutare, sembra non essere più una comunità morale, si è diventati «stranieri morali» (T. H. Engelhardt jr., Manuale di bioetica, Milano, Il Saggiatore 1999, 428) gli uni per gli altri, il compito etico non è più socialmente mediato e ricade interamente a carico del singolo. Può il singolo portarne il peso, non subentreranno pratiche di adattamento e di riduzione?

    Le convenienze della vita

    Come si vede, non si riesce a convenire e a praticare norme essenziali e minimali: non è allora fuori posto parlare di virtù tanto ottimali da doverle necessariamente considerare a statuto non solo ideale e quindi opzionale, ma addirittura quasi onirico? Chi può permettersi oggi il lusso di una virtù, con la vita complessa e complicata che siamo costretti a vivere? La virtù oggi non è solo puro idealismo, tanto alto quanto innocuo? Il cosiddetto sistema non finisce poi per omologare e appiattire anche gli sforzi più generosi e sinceri? Non ci si ritrova per terra come qualsiasi altro, anche dopo un impegno serio e duraturo, col pericolo aggiuntivo di essere tacciati come ipocriti? E allora a che pro? Tanto vale fare come fanno tutti, evitare il grosso, vivere e lasciar vivere, anche perché – come poetava il Metastasio – «nel mondo o virtù non si trova o è sol virtù quel che diletta e giova» (Didone abbandonata, a. I, s. VII), e allora il realismo disincantato del Machiavelli sembra l’unica via che, prima o poi, tutti o quasi finiranno per praticare: «… colui che lascia quello che si fa per quello che si doverebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua» (Il principe, XV).
    Chi poi insiste invece di adattarsi, non finisce di essere giustamente considerato il classico moralista
    «… guastafeste, uno che non sa stare al gioco, non sa vivere… sinonimo di piagnone, di pedagogo inascoltato e un po’ ridicolo, di predicatore al vento, di fustigatore dei costumi, tanto noioso, quanto fortunatamente innocuo… Se volete far tacere il cittadino che protesta, che ancora ha la capacità di indignarsi, dite che fa il moralista. È spacciato. Abbiamo avuto mille occasioni di constatare in questi anni che chiunque avesse criticato la corruzione generale, il cattivo uso del potere sia economico che politico, era costretto a mettere le mani avanti e dire: ‘Non lo faccio per moralismo’. Come dire, non voglio aver nulla a che fare con questa genia, tenuta generalmente in poco conto» (N. Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Linea d’Ombra 1994, 14s.).
    Non è meglio ritagliarsi una felicità possibile e per il resto avvenga quel che può? A ben pensarci poi, il giusto e il buono non solo non sono risparmiati, ma sono invece più di altri investiti dalle sofferenze della vita, allora a che pro essere buoni e giusti? Vogliamo proprio fare l’esperienza di Giobbe? E se sì, siamo veramente pronti? In fondo se il bene e la giustizia non sono remunerativi, perché praticarli? Inoltre perché non ci siano perdenti, il bene deve essere praticato da tutti. Ma ci sarà sempre qualcuno che non lo fa, e io debbo sentirmi vincolato al bene quando un altro lo rifiuta e il suo rifiuto ricade su di me e mi costa? Non è forse una posizione svantaggiata e insostenibile la pratica assoluta del bene? Non è poi una posizione che può essere addirittura strumentalizzata, così da vedermi sempre davanti chi si approfitta di me e delle mie convinzioni morali? La morale allora non è che una beffa, e non lo è solo per chi non ha sufficiente intelligenza o sufficiente esperienza della vita? In fondo non è l’apice della saggezza quello di identificare, come poi confermò anche Freud, il moralmente buono col socialmente compatibile?
    Se poi vogliamo includere nel discorso etico quello religioso, le cose diventano ancora più semplici. Infatti, in Paradiso non c’andiamo poi tutti? Sì, alcuni prima e altri dopo, ma non approdiamo tutti lì, visto che l’inferno, se c’è, è comunque vuoto? E poi la cosiddetta interpretazione morale del cristianesimo non è in fondo quella giusta? Essere cristiani non equivale ad essere buoni, senza inutili eroismi? Non siamo già tutti cristiani?
    Di fronte a tanti e così impegnativi interrogativi la sensazione che può nascere è quella di essere – e quindi di sentirsi – non solo spaesati ma sopraffatti, una sensazione che già aveva provato ed espresso, due secoli fa, addirittura Alfonso M. de’ Liguori, santo patrono dei moralisti, in una lettera rivolta a G. Remondini, suo editore:
    «E torno a dire, come scrissi nell’altra mia, non si meravigli se, dopo tanto tempo che sono stato ad aggiustare questa Istruzione latina, ho lasciato di mettervi le aggiunte che ora mando; perchè la Morale è un caos che non finisce mai. Io all’incontro sempre leggo, e sempre trovo cose nuove. Certe cose le passo, ma certe cose più importanti di nuovo le noto» (Lettere di S. Alfonso Maria de’ Liguori, Roma, Società S. Giovanni, Desclée, Lefebvre e Cia, Editori Pontifici s.d., 144s).

    La ridefinizione etica dell’ethos

    Le considerazioni finora fatte sono notevoli, tanto da indurre più di uno alla rassegnazione e alla rinuncia. Esse sono state presentate non certo per questo, ma – come si diceva – per offrire un discorso etico culturalmente situato e per attivare fin d’ora una ragionevolezza che sappia fronteggiare queste e altre obiezioni. Questi discorsi non sono certamente gli unici a ricorrere sui diversi schermi mediatici della nostra società.
    Vi sono anche altri discorsi, come quello tenuto da Benedetto XVI ai giovani sulla spianata di Montorso, presso Loreto, nel settembre del 2007:
    «… non seguite la via dell’orgoglio, bensì quella dell’umiltà. Andate controcorrente: non ascoltate le voci interessate e suadenti che oggi da molte parti propagandano modelli di vita improntati all’arroganza e alla violenza, alla prepotenza e al successo ad ogni costo, all’apparire e all’avere, a scapito dell’essere. Di quanti messaggi, che vi giungono soprattutto attraverso i mass media, voi siete destinatari! Siate vigilanti! Siate critici! Non andate dietro all’onda prodotta da questa potente azione di persuasione. Non abbiate paura, cari amici, di preferire le vie ‘alternative’ indicate dall’amore vero: uno stile di vita sobrio e solidale; relazioni affettive sincere e pure; un impegno onesto nello studio e nel lavoro; l’interesse profondo per il bene comune. Non abbiate paura di apparire diversi e di venire criticati per ciò che può sembrare perdente o fuori moda: i vostri coetanei, ma anche gli adulti, e specialmente coloro che sembrano più lontani dalla mentalità e dai valori del Vangelo, hanno un profondo bisogno di vedere qualcuno che osi vivere secondo la pienezza di umanità manifestata da Gesù Cristo».
    Un’altra logica presiede a questi pensieri, una logica che appare certo attraente, che instaura un immediato feeling, una condivisione empatica, e tuttavia richiede di essere argomentata, individuata e approfondita nella sua ragionevole plausibilità. Da dove iniziare?
    In passato, e forse da qualche parte ancor oggi, vigeva la logica del «ricatto esistenziale» per raccomandare la pratica morale, l’unica cioè che potesse assicurare una vita felice. Quanto questa mentalità fosse radicata ne è prova l’imputabilità morale delle malattie e delle disgrazie sopravvenute ai singoli o alle comunità al di là di ogni loro coinvolgimento, connessione che già Gesù ebbe a rifiutare, ma che non per questo subì una qualche flessione nella diffusione, anche a livello ecclesiale. Se non in questo modo tuttavia, almeno intuitivamente, una relazione tra l’etica della virtù e la felicità sembra affiorare, anche se oltre il semplice ritorno di convenienza e oltre il semplice ritornello che le scelte sbagliate comunque, in un modo o nell’altro, si pagano.
    Un altro itinerario si profila per conseguire lo stesso obiettivo, quello di indicare nel bisogno profondo dell’uomo la dinamica motivazionale che urge la pratica morale. Senza la pratica del giusto e del bene, anzi molto di più senza la fede nella loro vittoria, nonostante i continui scacchi e le continue smentite, la stessa vita dell’uomo sarebbe impossibile. Sarebbe cioè possibile vivere la vita sapendo non solo che giustizia non c’è, ma neanche mai ci sarà? E tuttavia seppur obbligata, la vita etica esige anche una libera, consapevole e responsabile scelta della persone, comporta una scienza e una saggezza che meritano veramente questo nome.
    Proprio questa saggezza disvela come alla base del discorso e dell’esperienza morale dimori una tensione ragionevole verso una realizzazione ottimale della propria esistenza, che vive di una dinamica gratuita propria, oltre le convenienze e i patti, verso i valori che sono di per sé.
    Sembrerebbe che solo la tematizzazione di questo livello dischiuda l’accesso pertinente ad un’etica religiosa, anche cristiana. In fondo, solo la prospettiva dell’etica della persona come etica della virtù è in sintonia pertinente con la fede nel Dio di Gesù di Nazareth, il Cristo. In altre parole, se sta a cuore l’accoglienza dell’amicizia con Gesù, è necessario adottare il suo alto standard di assetto valoriale e di interpellanza interpersonale, diversamente il suo messaggio viene disperso o frainteso.


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