Intervista a padre Daniele Moschetti, missionario Comboniano a Korogocho
a cura di Roberto Radice
(NPG 2008-01-45)
«Dio raccolse la polvere del suolo e con essa creò il primo uomo.
La polvere fu raccolta di proposito ai quattro angoli della terra, affinché se a un uomo dell’oriente fosse accaduto di morire a occidente o a un uomo dell’occidente di morire a oriente, la terra non potesse rifiutarsi di accogliere il morto e non gli dicesse di andare là donde era stato tratto. Ovunque un uomo muoia e ovunque sia sepolto, egli tornerà alla terra dalla quale ha avuto origine. Inoltre la pelle era di diversi colori – rossa, nera, bianca e verde – rossa per il sangue, nera per le viscere, bianca per le ossa e le vene, e verde per il lividore della pelle».[1]
L’Uomo appartiene a ogni angolo della Terra, in nessun luogo è straniero, e il pensiero di questa leggenda ebraica mi sembra possa essere l’incipit più adeguato per intraprendere un percorso di pedagogia interculturale: percorso che affronta l’affascinante realtà della diversità culturale da un punto di vista pedagogico, quindi di esperienza, di riflessione critica e di prassi. Pensieri che non vogliono ricalcare tracce già generiche o unicamente didattiche, bensì percorsi culturali ed educativi derivanti dall’incontro con l’Alterità con uno sguardo utopico.
Questo nostro inizio vuole mettere a confronto con le alterità più diverse rispetto a quelle usuali del nostro mondo quotidiano nel dare parola a padre Daniele Moschetti, missionario Comboniano che da sette anni ha calzato i sandali di padre Alex Zanotelli nello slum di Korogocho dove vive e lavora.
Korogocho è una delle oltre 200 baraccopoli che cingono la capitale del Kenya, Nairobi; si estende su un’area di 1,5 chilometri quadrati, è la quarta baraccopoli della capitale per numero di abitanti, ed è una delle zone più densamente affollate e instabili tra gli slum di Nairobi. Le 100-120 mila persone che ci abitano sono stipate in baracche di fango e lamiera: gran parte sono sfollati vittime di precedenti sfratti da altre aree urbane, molti sono migranti dalle zone rurali, altri rifugiati illegali.
Padre Daniele, nell’estate appena trascorsa, ha girato l’Italia con 20 ragazzi africani, artisti di strada, ballerini e musicisti, che a Korogocho vivono. Questa tournèe – «People united for a new Korogocho» – di 45 giorni e oltre ottomila chilometri percorsi ha voluto essere una testimonianza di incontri, spettacolo e condivisione perché realmente un altro mondo sia possibile. Ma è stata senza dubbio un’autentica esperienza interculturale sia per i ragazzi africani che per i loro coetanei italiani.
In questo dialogo-intervista abbiamo messo sul tavolo gli interrogativi che ci stavano più a cuore: è possibile immettere il seme dell’intercultura nella prassi dell’educazione? I giovani italiani ci stanno? Quali percorsi sono possibili? Cosa cambia nell’educazione quando si prende sul serio l’altro, gli altri, il mondo? Le religioni sono un ostacolo?
Abbiamo pensato che la testimonianza e le sollecitazioni di p. Moschetti fossero il miglior inizio per la nostra rubrica: non solo per la sua capacità di testimone credibile, ma anche per la puntualità delle riflessioni e il rifiuto del moralismo buon mercato.
Giovani italiani, un’umanità da risvegliare
Domanda. Dopo anni di assenza dall’Italia come ha trovato i giovani italiani?
Risposta. L’esperienza della tournèe con i ragazzi di Korogocho ci ha permesso di conoscere uno spaccato dell’Italia da nord a sud, incontrando moltissimi giovani durante incontri nelle scuole, nelle università, nelle parrocchie, nelle carceri.
Questi incontri tra ragazzi italiani e ragazzi africani, a dire il vero, sono stati un po’ deludenti per questi ultimi e anche per me stesso. I ragazzi di Korogocho hanno vite e problemi diversi da quelli dei giovani italiani, ma non mancano di curiosità, di creatività. Ingredienti invece carenti in molti ragazzi italiani: intendo dire, una sana curiosità, un sentirsi provocati, un volersi davvero confrontare, un guardare oltre e uscire dal provincialismo. Facevano al massimo due o tre domande, e anche abbastanza generiche. Sono stati i ragazzi di Korogocho a rilanciare le domande.
Sono rimasto troppo poco in Italia per darne una lettura specifica, ma probabilmente c’entrano molto la televisione e i media. Essi hanno carpito culturalmente gli stili di vita degli italiani. Uno stile che fa pensare tutti nello stesso modo, acquistare tutti i medesimi oggetti. Questo ha creato un’omologazione generale i cui effetti più evidenti sono la superficialità e l’indifferenza.
I giovani italiani quando sono in massa è difficile che riescano a comunicare, ad esprimersi o molto spesso si esprimono in maniera estrema.
Occorre un grande lavoro educativo per recuperare la persona, scoprirne e valorizzare i talenti. Ormai tutto si riduce a risorsa, iper-specializzazione ed economia e quindi tutto quanto riguarda la cultura dell’uomo per l’uomo, il pensiero educativo e filosofico, viene sminuito se non addirittura eliminato. La tecnicità scientifica ha soppiantato la riflessione.
Questo fenomeno lo possiamo cogliere dal cambiamento del gergo utilizzato – «risorse umane, esperto di risorse umane» – e questo cambiamento non è mai neutro o asettico, infatti il gergo è influenzato dal potere, che oggi è soprattutto un potere economico. Questo potere ha fatto sì che i giovani siano divenuti più oggetti che soggetti: oggetti del business, della tecnologia, della velocità. Io sono rimasto esterrefatto nel vedere tutti questi ragazzi con le cuffie degli mp3 nelle orecchie: quando vai in treno o cammini per strada vedi sempre più giovani, ma anche meno giovani, che ascoltano musica e non incontrano il mondo che si muove con loro in quel momento. Questo ha fatto abdicare la gente a pensare, perché il pensiero non può avvenire se non all’interno di un incontro, di una relazione. Questa società non concede nemmeno più il tempo di pensare. La tua giornata si conclude davanti allo schermo del televisore. Riflettere, pensare e soprattutto dialogare sono dimensioni sempre più rare nella nostra società occidentale.
D. Ha presentato un quadro problematico che chiama in causa capacità educativa, testimoniale, propositiva del mondo degli adulti…
R. In effetti l’educazione è soprattutto relazione che coinvolge tutti coloro che vengono a contatto vitale con i giovani. Anche i vituperati insegnanti: oltre a trasmettere conoscenza attraverso la didattica di stampo top-down, devono essere capaci di relazione, di incontro. L’educazione non è nozionismo o intellettualismo e non può prescindere dalla dimensione della relazione autentica. Per la mia esperienza educazione è anche coerenza di vita, ricerca di valori, linee di condivisione, avere una visione di quello che si vuole costruire. Sarebbe bello chiedere ai giovani italiani che visione hanno della loro vita. Ma ho l’impressione che le risposte sarebbe per la gran parte improntate alla ricerca di valori materiali.
Mi sembra sia venuta meno la dimensione dell’idealità, dell’utopia. Ci sono tanti giovani che sognano, che sperano, che si impegnano per il cambiamento, ma è necessario essere coscienti che il cambiamento comincia da me stesso che divengo responsabile di ogni mio singolo atto.
Questa generazione è comunque figlia di ciò che le generazioni precedenti hanno lasciato e creato, affermo questo senza cercare colpe o esprimere giudizi ma per provare a comprendere le condizioni materiali e sociali nelle quali si trovano oggi i giovani, molti di essi nati già con il salvadanaio pieno. Questa smodata opulenza, già data a priori, ha limitato la capacità al sacrificio e la sperimentazione di cosa significhi la pazienza nel costruire, dove costruire qualcosa significa esprimere le proprie capacità, i propri talenti: è la generazione del tutto e subito.
La passata generazione di giovani, ora adulti e genitori, ha preparato un’Italia dell’usa e getta. Per tale motivo è difficile per questi giovani contemporanei pensare a un modello alternativo e diverso da quello che si sono trovati fin dall’infanzia. Un modello che sembra riempire ogni aspetto del vivere, ma tale saturazione materiale è totalmente fittizia perché ciò che domina è la dimensione del nulla, del vuoto. Quando questa dimensione di vuoto non viene riempita culturalmente da ciò che è bello per la vita – pensiamo allo stile di vita della Grecia antica – non rimangono altro che soggetti e oggetti senza identità e valore. Sono vite di scarto.
È saltato inoltre tutto un discorso di punti di riferimento, di parametri e di limiti.
L’orizzonte di un’educazione interculturale
D. Questa intervista vuole indicare l’orizzonte in cui lavorare per un’educazione interculturale dei giovani, dare una innervatura (o un’anima) di intercultura all’educazione.
R. I giovani sognano, voglio crederlo, e ho visto tante persone entusiaste e impegnate.
Ho altresì notato che a livello di associazioni e di gruppi ognuno fa da sé e c’è molta difficoltà nel mettersi insieme, nel tessere reti. Non si dialoga per trovare strade e sentieri comuni lungo valori e obiettivi che accomunano la nostra Umanità. Mi è capitato molto spesso di ascoltare discorsi campanilistici e opportunisti del tipo «siamo la mia associazione e la tua associazione. Dobbiamo essere i primi, i migliori per prendere più soldi e finanziamenti». Diventa più un dividersi sull’immagine, ma i colori separati gli uni dagli altri divengono fini a se stessi, mentre l’arcobaleno è bello perché tiene insieme i colori. Sembra retorica, ma viviamo in un mondo dove l’immagine ha il sopravvento su tutto e tutti. Questo anche all’interno di ambienti legati alla Chiesa o dell’associazionismo della cooperazione, dove quello che più conta sono le telecamere e la popolarità più che la concretezza dei propositi. Ne ho avuto la conferma quando in occasione del World Social Forum tenutosi a Nairobi dal 20 al 25 gennaio 2007, la gran parte dei delegati delle varie associazioni italiane hanno alloggiato negli hotels a cinque stelle per poi fare delle puntate caritatevoli a Korogocho.
Questa esperienza del World Social Forum, il primo in Africa, mi permette di aprire un altro fronte che è quello della politica, perché educazione è anche educazione alla politica. La politica si è staccata dalla gente, dal popolo perché mancano le relazioni con le persone, manca l’ascolto. Viviamo in una società composta da individui che non ascoltano, che non domandano e non approfondiscono. I genitori non ascoltano i lori figli, i lori silenzi. Gli insegnanti non ascoltano i loro alunni se non nelle interrogazioni. Solo ascoltando si possono comprendere i sogni che questi ragazzi hanno. «Ciascuno cresce solo se sognato», ma troppi adulti scelgono il futuro per i loro figli. Inoltre serve una saggia capacità di leggere i segni e il non verbale: perché i ragazzi si muovono, fanno e compiono certi gesti. Per realizzare una pedagogia interculturale si deve uscire dal provincialismo locale per leggere i segni dei tempi che cambiano.
D. Puoi individuare alcuni punti fermi o percorsi importanti per aprirsi all’intercultura?
R. Una delle dimensioni antagoniste a un percorso educativo-interculturale è l’indifferenza generalizzata, questo lasciar andare tutto con inerzia e superficialità. L’indifferenza è mortifera, uccide al contrario della ricerca che nel momento in cui raggiunge qualcosa ti apre altre strade per ripartire, e questo non è altro che l’utopia.
È anche vero che è sempre più complesso riuscire a rompere questa cortina di indifferenza attraverso messaggi che siano educativi e significativi, perché i giovani sono bombardati dai media, da internet, dalla Chiesa, dal consumo. Il messaggio dominante è consumare: cibo, esperienze, relazioni, oggetti. Questo messaggio si è tramutato in mentalità e la mentalità genera abitudine.
Questo è evidente se si osserva lo strumento educativo per eccellenza della società dei consumi, la pubblicità. Quest’ultima ora ha come destinatari i bambini: lavora sul bimbo affinché costringa la madre a comprargli il succo di frutta o il latte che lo faccia crescere meglio. Questo è un vero e proprio lavaggio di cervello, perché il bambino arriva a sapere molto più della madre in fatto di acquisti all’ultima moda. Alla base si trova una logica meschina.
Questo processo è diabolico, perché si è creata una società dove la persona non conta più nulla e conti soltanto per quello che puoi spendere. Non a caso questa indifferenza non fa altro che ampliare la diffusione dei problemi: si guardi alla droga. Magari i giovani mi interessano se sono i miei figli, ma non mi interessano come generazione che io come adulto sono chiamato ad aiutare a crescere. Qui è essenziale la figura del modello educativo, che è completamente degenerata nel negativo. Educazione deve essere perciò anche responsabilità sulle mie azioni e sulle mie proposte.
Per lottare contro indifferenza, consumismo, piattezza di pensiero e assenza di utopia, non posso che pensare a un ricupero dell’educazione (a una pratica educativa) con alcune precise caratteristiche.
Anzitutto in una dimensione «generativa». Assumo la metafora del parto della donna come orizzonte educativo: concepimento, attesa, preparazione, sofferenza, accompagnamento, dolore, sacrificio, gioia e libertà lasciar andare per essere. Questo è un primo percorso.
Vedo poi la dimensione «iniziatica»: la logica della performance tiene sotto pressione tutti in un’ottica di esistenza senza sosta, perciò è altrettanto essenziale recuperare i riti che accompagnano le fasi della vita, intesi in ottica di resistenza alla cultura oggettivante. Purtroppo è la cultura della competitività che si sta imponendo, non la cultura della solidarietà o meglio ancora della convivialità. Vivendo una mentalità occidentale che ha il monopolio sulla tecnologia, sull’economia e sulla scienza, che molto spesso si considera superiore rispetto alle culture del sud del Mondo, la convivialità è davvero un cammino difficile: la nostra è una cultura idolatrica che non guarda all’Altro.
Infine la dimensione «progettuale». È la dimensione dell’idealità, del gettarsi e affrontare l’ignoto. Ai giovani fa paura l’ignoto, perché non sono abituati a guardarsi a lungo termine, dal momento che questo nostro vivere è totalmente schiacciato sul qui e ora e genera una fragilità dei progetti e della visione. Ma avere un progetto significa crescere, attivare processi di crescita umana e spirituale. Come si vede, questa lettura pedagogica e culturale della società sa leggere oltre il disagio (o la resa al nichilismo) che attraversa tante letture del mondo giovanile di oggi..
Un’esperienza personale
D. Adesso ci dica qualcosa di Lei: a Korogocho quale esperienza di interculturalità sta attraversando e cosa la unisce al popolo africano? Un’esperienza e una testimonianza che si accompagni alle riflessioni finora fatte.
R. Io ho iniziato a lavorare in Italia con gli adolescenti e gli immigrati, e mi ha aiutato molto guardarli attraverso quella figura cristiana che sono i fratelli e le sorelle, poiché questi uomini e queste donne vivono, amano e soffrono come me: è questo ciò che ci accomuna. Spesso questa dimensione ontologica è difficile da accettare dal punto di vista religioso perché poi le culture, i modelli di vita, la pelle sono diversi.
Ora vivo da bianco in una baraccopoli africana, ma mi sento a casa perché mi sento dentro al cammino di questa gente e questo mi permette di abbattere molte barriere psicologiche, fisiche, sentimentali. L’Africa mi ha insegnato la bellezza del contatto. Korogocho, straordinariamente, mi ha portato ad andare oltre i suoi limiti strutturali per poter affrontare concretamente le situazioni di povertà.
Questo discorso va legato alla dimensione non solo cristiana ma direi proprio di fratellanza, perché è una lotta che questo popolo dello slum sta facendo con altri popoli sparsi sul Pianeta.
Stare a Korogocho mi ha fatto capire che la mia pelle non è poi così bianca perché mi sento parte di un destino e che se si migliora qualcosa a Korogocho inevitabilmente migliorerà qualcosa anche nel mondo. La bellezza cresce se crescono tante diverse bellezze nel mondo: è un po’ sognare di rendere felice tutta l’umanità come diceva Daniele Comboni.
D. Emmanuel Lévinas scriveva che per incontrare Dio bisogna incontrare gli Altri che sono nella traccia di Dio. Le religioni sono un problema o una risorsa?
R. La religione nella storia ha posto gli uomini di fronte a blocchi dogmatici e molto spesso è stata usata e si usa come giustificazione, anche per le guerre, e non per unire seppur nella differenza. Viviamo tempi di fondamentalismi e anche tra i cristiani ci sono fondamentalisti. Io preferisco parlare di fede, di fede nell’Uomo, che è in grado di superare i dogmi.
In Italia come missionario, paradossalmente, ho trovato più disponibilità all’ascolto fra persone che non vanno in Chiesa, che si professano atei rispetto a tanti cristiani. Forse perché questi non credenti, come si definiscono, hanno più desiderio di ricerca, di capire, di farsi domande anche sulla dimensione della fede.
A Korogocho, c’è una grande proliferazione di religioni e questo mi interroga come uomo e come prete. È necessario fermarsi a riflettere non sui dogmi ma sulle vicende umane che le persone concretamente vivono. È necessario capire che cosa ci può unire perché ciò che ci divide è evidente. In questo risiede la sfida del lavoro interreligioso ed educativo che vuole provare ad aprire al dialogo e alla intercultura delle differenze.
[1] Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei. Dalla creazione al diluvio, Adelphi, Milano 1995, p. 66.