Questi poveri genitori ormai senza autorità

Inserito in NPG annata 2007.

Ilvo Diamanti

(NPG 2007-08-75)


I giovani del nostro tempo. Costretti a rinviare, quanto più, la scelta del lavoro, il distacco dalla famiglia. Chiusi da una società chiusa. Immobile. Questa «generazione in libertà vigilata»: gode – oppure soffre – per molti versi, di «libertà incontrollata». Questi giovani, molti giovani. Consumano, tirano tardi la notte, oppure viaggiano. In Italia e all’estero. Fin da giovanissimi. Senza troppi vincoli, senza troppe proibizioni. Controllati, ma senza controlli. Vivono, meglio: risiedono, con i genitori fino a trent’anni. Ma con ampia autonomia di andare e venire, fin da adolescenti. Incerti e precari, nella vita e nel lavoro. Ma protetti, tutelati, dai genitori. Che li seguono, incombono su di loro. Ma non sanno dire no.
I genitori. Secondo sei persone su dieci (Osservatorio sul Capitale sociale Demos-Coop), hanno perso autorità sui figli rispetto al passato. Non sanno «comandare». Imporsi. Dettare regole e comportamenti. Punti di vista. Non solo in Italia. Hugues Portelli, politologo, senatore, maire di Ermont, comune della banlieue parigina, sostiene, ad esempio, che la violenza giovanile riveli l’incapacità dei genitori (immigrati) di imporsi ai loro figli (francesi). Anche se hanno dodici anni o poco più.
Quanto all’Italia, i dodicenni non promuovono ribellioni così clamorose. Per ora. Tuttavia, non c’è bisogno di evocare le aree degradate del Mezzogiorno, per incontrare tracce di violenza giovanile. C’è una violenza lieve, diffusa, disseminata nelle scuole. Dove si contano, numerosi, i casi di bullismo. Prepotenze piccole – talora grandi – esercitate da adolescenti ai danni di altri – più spesso «altre» – adolescenti. Episodi, che stentano a rivelarsi. Ad essere rivelati. E per questo restano, perlopiù, invisibili. Perché, anche quando emergono, trovano i genitori impreparati. Spiazzati. Poco disposti a credere e a vedere. A punire. Così sorprende, ma neppure troppo, che una larga maggioranza di persone (indagine Ipsos, febbraio 2005) recrimini contro i genitori permissivi. Troppo disposti – e orientati – a proteggere i loro figli (70%). Comunque e dovunque. Mentre si diffonde la nostalgia delle «punizioni», degli «schiaffi». Che, secondo otto italiani su dieci, in alcuni casi «fanno bene». E si dovrebbero utilizzare, come tecnica educativa, molto più di adesso. Lo pensano gli anziani, gli adulti. I nonni e i genitori. Ma anche i giovani e i giovanissimi. I figli. In egual misura. Dietro a questi orientamenti, si coglie nostalgia dell’autorità perduta da genitori che oggi appaiono «poco autorevoli». Incapaci di proporre – tanto meno di imporre – modelli e valori. Anche se i figli «dipendono» da loro. Più del passato. I genitori. Esercitano potere senza autorità.
Naturalmente, la colpa non è tutta loro (nostra).
È difficile essere autorevoli in una società dove ogni principio di autorità viene, sistematicamente, delegittimato. La giustizia e, ancor più, la politica. L’impresa. La scuola. Lo stesso governo, oggi ampiamente «sfiduciato» dall’opinione pubblica. E impegnato, da parte sua, a «sfiduciare» gli altri poteri. Ad agire come se fosse all’opposizione.
Poi: come proporre modelli di comportamento sobri e parsimoniosi ai figli, quando i loro compagni di scuola e i loro amici ostentano consumi vistosi? Come impedire loro di guardare il wrestling oppure L’Isola dei famosi, quando tutti – ma proprio tutti – i coetanei li seguono alla tivù? (perlopiù, insieme ai genitori). Come chiedeva, giorni fa, una madre angosciata, su Repubblica. Problema irrisolvibile.
Tuttavia, molte cause del deficit che mina l’autorità dei genitori originano dentro la famiglia.
La crescente assenza dei genitori. Che hanno meno tempo di un tempo. Lavorano entrambi. Quando rientrano dal lavoro sono stanchi. E preferiscono affidare il compito di «custodire» i figli alla televisione e alle playstation.
Poi, il fastidio per il conflitto intergenerazionale. Si è perso il valore della discussione, magari accesa, fra genitori e figli. Ed entrambi (questo dicono le ricerche sull’argomento), per evitare la fatica del contrasto, preferiscono isolare e rimuovere dai discorsi – sempre più sporadici – gli argomenti sgradevoli. Fonte potenziale di «baruffa». Si sceglie, cioè, di non dire e non sapere, per non accendere il conflitto.
A ciò contribuisce, in qualche misura, l’eredità della pedagogia critica e antiautoritaria, appresa nel 68, dai genitori cinquantenni. Col passare del tempo, è divenuta routine. Praticata per pigrizia e comodità, più che per convinzione. Induce a dialogare. Sempre. Senza (quasi) mai vietare. Così che, alla fine, per carenza di tempo, il dialogo si è esaurito. Mentre è rimasta l’incapacità di «vietare». Di imporre valori e punti di vista. Anche perché ci vorrebbero, per questo, valori forti e punti di vista convincenti.
Ancora: i genitori faticano ad essere autorevoli, nei confronti dei figli, perché essi stessi, per primi, nutrono poche speranze nel futuro dei loro figli. Ma le regole, gli avvertimenti, i «comandi», perdono di significato e di efficacia, quando ad esprimerli sono adulti senza speranza e senza fiducia. Come puoi essere creduto e ascoltato dai giovani, se, per primo, tu non credi in loro?
Per questi, e altri motivi, i genitori hanno perso autorità, sui figli. Ma senza genitori autorevoli e magari autoritari, da cui «liberarsi», i figli faticano a diventare davvero «liberi». Il passaggio fra una generazione e l’altra avviene senza strappi, in modo quasi clandestino. Non dichiarato. Viene in mente, per contrasto, una ricerca sui giovani, condotta negli anni 50, dalle associazioni del mondo cattolico, in Veneto (i cui risultati sono stati analizzati, trent’anni dopo, in P. Allum e I. Diamanti, 50/80: vent’anni. Due generazioni di giovani a confronto, Ed. Lavoro, 1986). Isoliamo, in particolare, lo stralcio (relativo alla famiglia) del questionario, compilato (a mano, con calligrafia incerta) da un vicentino di 17 anni. Figlio di contadini.
Come ti trovi in famiglia? «Male».
Come sono i rapporti con tuo padre? (La madre non era presa in considerazione, in quegli anni...) «Buoni».
E con fratelli? «Ottimi».
Quali problemi incontri? «Il problema è che il nonno ci costringe a stare insieme, noi, la famiglia dei nostri zii, i miei cugini, perché abbiamo la campagna da lavorare. Ma noi vorremmo andare via, vivere da soli. E io vorrei fare un lavoro diverso. Ma non possiamo. Il nonno non ci lascia».
Come pensi di migliorare la tua condizione familiare? «Spero tanto che muoia il nonno».
Frasi che rendono difficile coltivare la nostalgia verso un’epoca in cui la famiglia esprimeva un modello certamente più autoritario. Tuttavia, è evidente come il conflitto fra generazioni riassumesse, allora, la tensione al cambiamento: personale, sociale, economico. La voglia dei giovani di «liberarsi» dai padri (e dal nonno) rifletteva non solo la voglia di migliorare la propria vita. Riassumeva, al tempo stesso, il contrasto fra società rurale e industriale. Fra tradizione e modernità.
Oggi, sono pochi i giovani ad augurare la morte – metaforica – del nonno o dei genitori. (Ma i casi di figli che uccidono i genitori e di genitori che uccidono i figli non mancano. Istigati, pensiamo, almeno un poco, dal diffuso occultamento del conflitto familiare; che può esplodere senza segnali di preavviso). Ancor meno numerosi sono i figli che meditano di andarsene di casa. Di lasciare la famiglia. Prima dei trent’anni. Nessuno se ne va. E nessuno si sposa. Prima dei trent’anni. Poi, quando si sposano, vanno ad abitare a pochi metri da casa. Al massimo un chilometro. I giovani, non riescono a staccarsi dai genitori. Legati dall’affetto, certamente. Ma anche dall’incertezza, che li induce ad ancorarsi alla famiglia. E non ci sono conflitti. Fratture fra le generazioni.
I genitori. Non riescono a staccare i figli da sé. E neppure lo vogliono. Così, si forma, ed evolve, una società immobile. Senza autorità. Dove l’obbedienza non è più una virtù. Perché non c’è più nessuno a cui ribellarsi.

(da Repubblica)