Quale capitale culturale

Carmelina Gaito

(NPG 2007-03-74)


«Mi chiamo Ivan, ho 24 anni e faccio il saldatore in una media azienda metalmeccanica in provincia di Torino. Dopo la III media ho iniziato a frequentare un corso professionale come elettricista civile. Il corso era finanziato dalla Regione, così dopo il primo anno hanno tagliato i finanziamenti e per poter mandare avanti il corso hanno dovuto fare una selezione maggiore. Io ho sempre avuto problemi di condotta e non avevo tanta voglia di studiare, così sono subito andato a lavorare. Il futuro te lo crei tu e il mio mi ha portato a non avere voglia di studiare, di conseguenza mi sono tolto qualche opportunità. Mi rendo conto di essere un po’ contraddittorio, cioè da una parte vorrei di più ma per ora non ho la costanza di sentire mie fino in fondo queste cose (tornare a studiare, risparmiare… mettere la testa a posto)».

Ivan è un giovane lavoratore, dietro le sue parole la fierezza della sua esperienza e un po’ di paura di non riuscire a cambiare la propria vita, non perché sia svogliato, ma perché non pienamente consapevole delle sue capacità e talenti. Ivan non rientra nelle statistiche dei sondaggi di opinione, è un giovane che come tanti ha iniziato presto a lavorare.
La condizione sociale a cui si appartiene incide fortemente nelle opportunità di vita che un giovane può avere, creando forti disuguaglianze.
Seppure una società giusta debba garantire uguali opportunità a tutti i cittadini, cionondimeno chi riesce ad emergere è la persona che dispone delle migliori capacità. È questa l’opinione del 65,4% degli interpellati dalla GiOC per l’inchiesta nazionale «Tutto il resto», secondo i quali la giustizia sociale e la meritocrazia possono e debbono procedere di pari passo.
In merito a tale questione, non si riscontrano differenze in funzione del genere o della classe di età: in sostanza, la maggioranza dei giovani auspica sì uguali condizioni di partenza per tutti ma, al tempo stesso, pure spazi e opportunità tali da garantire la possibilità di emergere a chi davvero lo merita e ne ha i titoli. In questo senso, quindi, equità e merito non sono due concetti disgiunti l’uno dall’altro, anzi: l’una è garanzia dell’altro, ne pone le basi e assicura un’autentica giustizia sociale, per cui chi riesce a farsi strada non ha che da ringraziare se stesso, i propri sforzi e le doti che la natura – per qualcuno magari la Provvidenza – gli ha consegnato. Dinanzi a tale quesito, le opinioni degli interpellati non divergono neppure in funzione del titolo di studio.
E, cionondimeno, i ragazzi non credono neppure nel detto secondo cui ciascuno è l’origine dei propri mali. I giovani che abbiamo ascoltato, contrastano l’idea per cui i poveri sono tali perché lo vogliono o che le situazioni di disagio sociale ed economico debbano essere addebitate alla mancanza di intraprendenza o iniziativa. Per contro, vi sono fattori esogeni così forti e condizionanti da rendere difficili gli sforzi del singolo che tenta di dare una svolta alla propria vita e di assicurare ai propri congiunti un futuro migliore.
Tra coloro che non hanno assolto l’obbligo scolastico, il modello solidaristico è di gran lunga prevalente su quello meritocratico. Per le fasce medio-basse, cioè tra coloro che dispongono della licenza media o di qualifica professionale, le due posizioni incontrano tassi di adesione piuttosto simili, mentre tra i diplomati di liceo e i laureati l’opzione meritocratica raccoglie il consenso di oltre i tre quarti degli interpellati.
L’accordo con tale principio si fa, poi, sempre più sensibile nella misura in cui cresce sia il capitale culturale che quello professionale della famiglia di origine dell’intervistato. Infatti, tra i ragazzi i cui genitori hanno un basso grado di istruzione, più della metà ritiene che la determinazione della retribuzione debba discendere in primo luogo dalle capacità del singolo; tale percentuale, però, raggiunge il 70,1% tra coloro che fanno capo ad una famiglia il cui capitale culturale sia superiore alla media, quasi che tra questi ultimi ci sia una minore attenzione alla dimensione della solidarietà rispetto a coloro che hanno alle spalle storie familiari più difficili e un passato meno agiato. I medesimi andamenti, infatti, si riscontrano anche in funzione del capitale professionale, per cui tra i figli degli operai solo il 54,4% aderisce al principio meritocratico, mentre tale percentuale sale sino al 67,2% tra coloro i cui genitori esercitano professioni impiegatizie o l’insegnamento scolastico.
In sintesi, i ragazzi insistono perché si affermi – soprattutto nei luoghi di lavoro – un modello che sia attento alle risorse e alle capacità del singolo, le riconosca e le valorizzi, non solo in termini di opportunità di carriera, ma anche più squisitamente economici. Tale posizione non comporta, tuttavia, un annullamento dell’attenzione alle fasce deboli, che rimane ben radicata tra le giovani generazioni.
Emerge con sorpresa quanto in realtà non ci sia una reale mobilità sociale, che viene mascherata dal fatto che le persone oggi dispongono di beni materiali simili.
Ma è così vero che il riscatto sociale avviene solo attraverso i beni che si posseggono e alla capacità o meno di consumare? Crediamo sia importante intraprendere con i giovani percorsi per cui si prenda coscienza che attraverso l’investimento su se stessi, sulla propria formazione, si possono avere reali opportunità di riscatto e di miglioramento della propria condizione di giovani, di lavoratori e di cittadini.