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    Educare al pensiero. Uno sguardo d’insieme


     

    Educare al pensiero /1

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2007-01-61)


    Al piccolo Emanuele
    perché possa conservare
    la tenerezza dei primi giorni
    temperandola con la debole forza
    di chi sa pensare il mondo
    e assaggiare la vita.

    Compito del pensiero è togliere agli uomini e alle donne la paura. Se un pensiero non serve per aiutare gli esseri umani a vivere in un mondo liberato dal terrore per la propria sopravvivenza o per quella di un proprio simile, allora è molto probabile che non si tratti di un vero pensiero. In un’epoca come la nostra, nella quale l’eclisse del pensiero sembra caratterizzare le relazioni umane, gli ambiti professionali, la comunicazione mediatica, educare al pensiero ci sembra la forma di prassi più onesta e più rivoluzionaria per chi cerca di costruire un mondo più giusto e più umano, quale che sia la prospettiva dalla quale parte la sua azione.
    Pensare dunque: che significa anzitutto rimanere sulle cose, non andare via, prendersi il tempo per riflettere, rifiutare la logica dello spot televisivo, dello zapping, dell’assaggio superficiale da scadente mensa aziendale. La prima dimensione allora alla quale occorre educare ed educarsi è un differente uso del tempo Ci prenderemo dunque il tempo per pensare anche all’interno di questa rubrica, che cercherà di fermarsi e di soffermarsi su concetti apparentemente noti e consueti per mostrarne invece la complessità e le reciproche connessioni. Chiediamo ai lettori la pazienza del pensiero che almeno da Zenone in poi (quando il filosofo greco si morde la lingua e la sputa in faccia al tiranno che gli chiede di essere delatore e spia) è stato e rimane il vero atto di eroismo che l’uomo e la donna possono compiere.
    Il nostro percorso si articolerà dunque attraverso alcune parole-chiave che saranno il titolo e l’oggetto dei nostri appuntamenti mensili.
    Per cominciare, inizieremo a sottolineare che l’empatia, che va così di moda, può essere un modo di pensare solamente se viene approfondita e non viene lasciata nell’oscurità fumosa nella quale spesso la troviamo in certi discorsi e contributi: se l’empatia è un modo di abbracciare il mondo, allora occorrerà chiedersi quali corrispondenze troviamo tra noi e le cose quando le pensiamo, e quali fratellanze e sorellanze tra noi e il mondo istituiamo nel processo di conoscenza.
    L’intuizione è invece un lampo di luce, un abbaglio, un accendersi improvviso del pensiero quando meno ce lo si aspetta. Abbaglio della conoscenza nel duplice senso di restare abbagliati da una rivelazione inattesa, ma anche di prendere un abbaglio, perché spesso la troppa luce improvvisa ha l’effetto di accecamento che hanno le tenebre.
    Abbiamo imparato che in greco Verità si dice aletheia, disvelamento: ci interrogheremo allora sui veli da togliere per arrivare alla verità, ma anche su altre possibili declinazioni del termine, e ci chiederemo se esistono una verità soggettiva, una verità oggettiva, una verità assoluta.
    Oppure se tutto è solo Interpretazione: una lettura sbagliata di questo termine porta a credere che tutto ciò che accade sia riducibile al mio (personale, privato) modo di intendere il mondo, alla mia interpretazione; l’ermeneutica, la teoria dell’interpretazione, dice tutt’altro da questo assurdo solipsismo, ma ci aiuta anzi a intendere la vita come un testo, nella sua irriducibile materialità ma anche nel suo rifrangersi in modi infiniti e inediti nella sensibilità di ciascuno.
    Intelligenza significa letteralmente leggere dentro il reale, sprofondarsi nelle cose per poi uscirne arricchiti: nulla (o poco) a che fare con i QI o con gli altri test più o meno psicologici, ma piuttosto una posizione nei confronti del mondo, un modo di stare al mondo che è plurale (non esiste solo l’intelligenza logico-matematica, come vedremo) e perciò implicitamente democratico.
    La Sapienza è tipica del pensiero antico, soprattutto orientale, e in particolare del popolo ebraico, che ha declinato questo termine in modo specifico e originale: l’ebreo legge una storia sotto il quotidiano, cerca il non-visto e il non-detto al di sotto degli oggetti di uso comune, si piega sugli angoli della giornata per farli parlare; sapiente non è chi sa tante cose ma chi sa far parlare le poche cose che la vita gli mette davanti.
    Così come di poche cose, paradossalmente, ha bisogno la Fede: un modo di pensare l’Oltre, di accedere alla ragione dell’Altro, ma soprattutto un modo di pensare e non solamente una dimensione profonda nascosta nel profondo dell’anima come certo pietismo vorrebbe ancora farci credere.
    Ma c’è differenza tra il pensare Dio proprio della fede e il parlare di Dio proprio della Teologia: vedremo che il discorso su Dio, letteralmente impossibile dal momento che finitum non est capax infiniti, il finito non può contenere l’infinito, ha il coraggio e la forza di svolgersi proprio a partire da questa apparente impossibilità perché si colloca nel punto più scandaloso della creazione; sulla scia di Giobbe e di Gustavo Gutierrez vedremo come teo-logos, discorso su Dio sia soprattutto e forse soltanto «parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell’innocente».
    La Poesia è pensiero? Molti lo hanno negato, anche sulla scia di una errata lettura di Aristotele (che pur diceva «E sono proverbiali le menzogne dei poeti»), ma invece è proprio la poesia che può indicarci altri modi di dire il mondo, altre strade per attivare il pensiero, purché sia chiaro che cosa è poesia e che cosa non lo è, e che poeti non si nasce ma si può forse diventare con l’esercizio critico e forte del pensiero.
    Quali sono però i limiti del pensiero? È possibile pensare tutto, pensare a tutto?
    La vita, soprattutto nei suoi momenti critici (la morte, la nascita, il dolore) ci abitua a capire che è folle e prometeico credere di poter allargare il pensiero oltre i limiti che gli sono concessi: il Mistero costituisce il limite del pensiero, quel limite al quale Kant accennava con insuperata maestria e che costituisce propriamente il parapetto sul quale fermarsi a contemplare zone del reale alle quali ci è precluso l’accesso, un po’ come a Mosè per la terra a lui promessa.
    E alla fine, ma solo alla fine, la Ragione: non per svalutarla ma al contrario per celebrarla e per ridurne le pretese onnicomprensive; la ragione che sarà allora non l’unico punto di approdo ma un porto per ripartire, un modo per rimettere in movimento la giostra colorata e multiforme del pensiero.
    Una imbecille trasmissione attuale si intitola «La pupa e il secchione»; vi si mostrano con indescrivibile volgarità donne allettanti e sexy senza la minima cultura e ragazzi studiosi (?) e preparati (??) senza capacità di orientarsi nelle cose concrete della vita e soprattutto nelle relazioni amorose. Il primo atto del pensiero è liberarsi di questa penosa idea secondo cui pensare significa perdersi qualcosa della vita; non pupe e secchioni servono al mondo, ma uomini e donne che hanno la forza, la grinta e soprattutto la bellezza di pensieri sensuali e di sensualità intelligenti; e che per prima cosa spengano la televisione quando ci propina trivialità da voltastomaco con il dichiarato intento di toglierci la capacità di pensare; e dunque di lasciarci sprofondare negli abissi oscuri della paura.


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