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    Educare il corpo /1

    Pierangelo Barone

    (NPG 2007-01-48)


    L’interrogativo da cui muoviamo le riflessioni che daranno forma al nostro discorso chiede in modo provocatorio: abbiamo davvero bisogno di educare il corpo?
    In un’epoca segnata da una moltitudine di approcci e metodologie «pseudo-pedagogiche» che si rivolgono al corpo per modellarne le forme, per svilupparne l’equilibrio, per rafforzarne la resistenza, per potenziarne il controllo, per rinfrancarlo, per purificarlo, per irrobustirlo, e così via, sembra inevitabile chiedersi se non siamo in presenza di un’idea abusata di educazione del corpo; se del «corpo» non se ne parli già fin troppo e se, per queste stesse ragioni, non sia invece il caso di sospendere ogni ulteriore discorso. Eppure sentiamo che nella odierna proliferazione discorsiva e di pratiche rivolte al corpo sfugga continuamente una dimensione decisiva dell’educare i corpi; una dimensione che assume priorità a livello pedagogico e rispetto alla quale ci accingiamo a sviluppare le considerazioni che guideranno questa riflessione.
    Ciò che davvero sfugge allo sguardo contemporaneo con cui viene costantemente rappresentato e raffigurato il corpo, è la dimensione fondativa che il corpo stesso assume per l’esistenza umana nel definire la relazione con il mondo: è il carattere di originarietà con cui il corpo, qui e ora «ci» e «si» espone al mondo già dato, istituendo la possibilità stessa per il soggetto di produrre conoscenza. Lo scarto incolmabile, rispetto alla possibilità di educare il corpo nel suo significato più autentico, è determinato dall’idea di un corpo, come suggeriva il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty,[1] concepito come «materia inerte», un corpo cosalizzato che ha perduto il suo significato di apertura originaria, di «co-esposizione» al mondo. Porre attenzione a quella differenza significa assumere il concetto di corporeità come «unità di senso totale», a cui si contrappone l’insieme di pratiche che trattano il corpo come materia frammentata.
    Pensare il corpo, come direbbe la fenomenologia, in quanto espressione dell’essere-nel-mondo aiuta a definire il senso di un educare i corpi come necessità degli uomini e delle donne di disegnare il proprio progetto esistenziale, che, in ultima analisi, costituisce la struttura fondamentale di qualsiasi ipotesi pedagogica. Non si può educare il corpo, credendo che quei trattamenti non producano effetti formativi sulla persona nella sua integralità; al contempo non si può pretendere di educare la mente (o l’anima, o lo spirito, o la psiche, a seconda dell’opzione culturale) senza che quelle pratiche non finiscano per agire sul corpo di un/a bambino/a e un/a ragazzo/a. Se è vero che il corpo, oggi, appare trasfigurato nell’eccedenza di immagini, di discorsi e di pratiche che fanno presa su di esso riducendolo a semplice oggetto da «usare», ne consegue che non può esistere alcun progetto intenzionalmente pedagogico che non parta da una autentica consapevolezza dell’essere-nel-corpo dei/lle bambini/e, dei/lle ragazzi/e in formazione.
    Ecco, dunque, che provando ad assumere uno sguardo che cerca di rilevare nel corpo quella presenza di vita totale che ci fa essere soggetti nel mondo e per il mondo, ritroviamo il senso della metafora con cui Calvino descrive in modo suggestivo la relazione di Palomar [2] con la conoscenza complessa del mondo: «una finestra da cui il mondo guarda il mondo». Non è forse una condizione strutturale del nostro essere-nel-mondo, quella di abitarne la realtà attraverso un corpo che ne costituisce il punto insormontabile di osservazione e interpretazione? Come, appunto, una finestra da cui il nostro «essere» soggettivo entra in relazione con l’alterità del mondo, pensare e dire i corpi rispetto alla necessità di educarli implica assumerne la dimensione di sfondo imprescindibile, o per dirla con Husserl: «la dimensione stessa dello spettacolo delle cose».[3] D’altra parte è proprio dal mio corpo che vedo ciò che vedo, che sento ciò che sento; è dal mio corpo che organizzo lo spazio in coordinate, per cui il sopra e il sotto, il davanti e il dietro, l’alto e il basso, la destra e la sinistra, il dentro e il fuori, non avrebbero significato al di là del mio corpo, del mio essere soggetto incarnato in un corpo che le rappresenta. In tal senso Merleau-Ponty definisce il rapporto tra lo spazio corporeo interno e lo spazio esterno del mondo come «l’oscurità della sala necessaria alla chiarezza dello spettacolo»:[4] efficace metafora per indicare sia la dimensione originaria affinché la relazione con il mondo esterno si renda possibile (in cui è proprio il corpo che pre-dispone la possibilità di conoscere il mondo «là fuori»), sia il fatto che questo corpo è totalmente implicato nella relazione con l’alterità del mondo, che lo fa esistere come corpo-soggetto: altrimenti resterebbe solamente un palcoscenico buio nella sala desolata. Tematizzare l’importanza di educare il corpo rimanda in tal senso alle fondamentali opposizioni dialettiche che attraversano l’esperienza umana contemporanea, in un continuo movimento lungo l’asse temporale, spaziale e simbolico che ne definisce la qualità e i significati.
    Educare il corpo chiede di chiarire il rapporto tra ragione e istinto come aspetto fondativo di una dicotomia che attraversa in modo longitudinale, dall’antichità ad oggi, la storia d’Occidente, e che soprattutto produce uno schiacciamento della dimensione del corpo sull’asse della «materia come cosa estesa»: da dover contenere e arginare, da disarticolare, da disciplinare e correggere, da sezionare, da modificare e da manipolare; apre, quindi, il discorso alla relazione tra il dentro e il fuori del corpo, come asse di definizione della cura di sé di un soggetto che va formandosi nella ricerca di un equilibrio tra dimensione interiore ed esteriore, in un’epoca, quale è la nostra, segnata dal mito del corpo slim; piega la riflessione sul gioco imprescindibile tra l’onnipotenza e il limite, come condizioni di una necessaria accettazione di sé nel movimento illusorio di un’epoca, come la nostra, segnata dall’idea ossessiva del successo; attraversa il rapporto tra il consumo e la memoria, quali espressioni del disagio che comporta l’idea di una temporalità rattrappita e schiacciata sul presente, per i/le nostri/e ragazzi/e; porta ad interrogare la differenza tra rischio e iniziazione, come esperienze indicative di una necessità di formazione e di riconoscimento dei soggetti che chiama in causa la centralità della comunità sociale nel dare senso all’identità individuale; rilancia il tema del rapporto tra immaginario ed esperienza a partire da un corpo che si scopre sessuato, che impone di tematizzare il difficile passaggio dall’ossessivo immaginario voyeuristico che circonda i/le bambini/e e i/le ragazzi/e alla elaborazione dell’affettività connessa alla sessualità; indica, infine, la questione del progettarsi quale istanza pedagogica che accompagna il farsi uomo e donna di ogni piccolo o giovane alle prese con il difficile compito di esserCi nel mondo a partire dalla propria identità corporea. Per tutto questo, sembra abbia ancora senso tentare di fare un discorso sull’educare il corpo.

    NOTE

    [1] Cf P. Barone, La materialità educativa, Unicopli, Milano 1997.

    [2] Cf I. Calvino, Palomar, Einaudi, Torino 1983.

    [3] Cf P. Bertolini, L’esistere pedagogico, La Nuova Italia, Firenze 1988.

    [4] Cf M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Torino 1968.


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