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    Spiritualità dello studio /7

    Armando Matteo

    (NPG 2006-08-63)


    Con le precedenti riflessioni abbiamo – così almeno mi auguro – percorso un bel cammino di scoperta intorno alla vera natura e qualità dello studio. È un’esperienza, quella dello studio, che ci permette di diventare più competenti del mistero che siamo a noi stessi. Non vorrei, tuttavia, apparirti un tipo estremamente idealista, che sorvola sugli aspetti più elementari di fatica che ogni attività di studio comporta e che spesso sono gli unici presi in considerazione per esprimere un giudizio su di esso. Lo studio è certamente anche fatica: ore e ore di concentrazione, pile di libri, dispense, e poi esami che preparano ad altri esami, biennio e specializzazione, tesi e discussione: che fatica, ragazzi! E poi di nuovo altri libri e altre materie. Insomma, quando si esce fuori dal tunnel? Ci troviamo, dunque, dinanzi alle due anime dello studio: l’avventura della conoscenza, del mistero, della ricerca, e la fatica del quotidiano, dello stare seduti e concentrati. Come tenere insieme questi due aspetti, necessari e correlati, dello studio? Per risolvere la questione, ci viene incontro una parola un po’ fuori moda, ma tanto ricca di spunti. Preparati. Ti presento la parola disciplina. La sua famiglia è quella del verbo latino discere che significa – guarda un po’ – imparare e indica, innanzitutto, un percorso di studio, una serie ordinata di tappe nell’approfondimento di un tema, che debbono essere attraversate per divenire esperti in quel settore. Per esempio la matematica è una disciplina, la fisica anche… e così via. Ma disciplina indica anche il dotarsi – da parte di chi studia – di regole, di un ordine, di un metodo per apprendere quanto è richiesto. E qui iniziamo a camminare su un terreno alquanto scivoloso. Mettere ordine nella propria vita, infatti, oggi è molto più difficile che in passato, perché lo spettro potenziale delle cose belle che possiamo fare è davvero ampio: ogni nostra scelta è pertanto una rinuncia ad altri eventuali impieghi del tempo.
    Qui però possiamo verificare se abbiamo apprezzato la specifica qualità umana dello studio, se abbiamo cioè intravisto quante e quali trame sono collegate con il suo esercizio. In questo caso, allora, non considererò lo studio alla stregua degli altri pur importanti impegni possibili, gli darò un risalto particolare, un posto speciale nell’organigramma del mio spirito.
    Avere una disciplina manifesta, dunque, la capacità di dare il giusto tempo a ciò che è più importante e il tempo giusto a ciò che lo è di meno. Riflette le nostre profonde convinzioni. Pur potendo apparire tale, la disciplina non si identifica con un atteggiamento schematico (ora studio, ora pausa, ora studio). Vivere lo studio con disciplina comporta, infatti, la concessione a noi stessi della possibilità di crescere, di dilatare gli orizzonti della nostra intelligenza, di raffinare gli strumenti della nostra lettura e interrogazione del reale – cose che esigono inevitabilmente tempo, cura, passione, calma, concentrazione, respiro sereno.
    Bisogna, insomma, darsi tempo… per compulsare il vocabolario alla ricerca di termini sconosciuti, per sostare su una pagina difficile, per ricostruire mentalmente l’itinerario che il testo affrontato ci sta invitando a realizzare, per ritornare al punto che ci sembrava di aver afferrato meglio, per formularsi domande, per redigere un breve schema dell’andamento della questione, per fissare da qualche parte un pensiero che ci ha particolarmente illuminato.
    Uno stile «disciplinato» ci permetterà di affrontare con serenità anche le prove di esame, luoghi strategici nei quali impariamo a mettere in relazione la nostra autovalutazione con il giudizio di un altro che ci fa da specchio e ogni esame sarà quindi fruttuoso per lo sviluppo della capacità di valutazione delle energie, della portata di resistenza alla fatica, della forza della volontà a nostra disposizione. Ed è un esercizio che vale per la vita.
    La disciplina dello studio e nello studio ci consegna, infine, un ultimo grande segreto: imparare è sempre diventare discepoli di un maestro. Beato colui che ben presto comprende l’importanza di avere un maestro. Certo, l’apprendistato presso un maestro richiede umiltà, attenzione, pazienza, disponibilità, ma i benefici sono di gran lunga superiori alla fatica: perché i maestri sono coloro che ci insegnano come – non semplicemente cosa – pensare (e vivere). Essi forgiano il nostro sguardo, il nostro modo di interrogare la realtà, di leggere un libro, di stendere una relazione. Il maestro non ti insegna una strada, ti insegna a leggere le mappe e, se non ce ne sono, a costruirle.
    Essi danno sale e lievito a quella disciplina dello studio che è fatta di orari, di fatica, di riposo, di ripasso e di approfondimenti.
    Uno dei doni più preziosi che la vita ci concede è quello di «avere maestri». Al riguardo mi reputo molto fortunato, perché ho incrociato alcuni di questi uomini speciali che meritano il nome di maestri. Alla loro scuola ho imparato ad apprezzare l’alto profilo umano dello studio e a cogliere quel legame misterioso eppure reale che collega e custodisce ogni aspetto della mia esistenza.

    Per continuare a riflettere

    Sulla solidarietà tra studio e vita, ti propongo una pagina davvero ispirata di Jean Guitton, un intellettuale francese che con le sue opere ha aiutato molti a scoprire la bellezza e il gusto della conoscenza.

    La cosa più bella nel lavoro intellettuale […] è che il lavoro dello spirito è lo specchio e il preludio di ciò che vi sarà più tardi nella vita largamente prodigato. E il bimbo che s’esercita e si dispera, colui che si incaglia dopo aver tanto cercato, quello che è incompreso da un maestro o che non lo comprende, tutti imparano la vita, ancor più che la grammatica o far di conto. Ugualmente e anche di più, lo studente solitario che non ha compiti fissi né soccorsi costanti e che è costretto ad imporsi una disciplina da se stesso. È raro veder pedagoghi insistere su questa somiglianza fra la scuola e l’esistenza, che è ciononostante secondo me il segreto principale di tutta la pedagogia: a che servirebbe studiare, se ciò non vi preparasse a quelle leggi piene di eccezioni, a quelle gioie oscurate dai dolori, a quegli imprevisti che domani appariranno come costellazioni enigmatiche che devono servirci da guida? Spesso la materia dei nostri studi è futile: a che può servire, ci si chiede, fare un tema in latino, visto ch’io non parlerò mai in latino? Ragionamento che si potrebbe estendere in tutto nei dettagli delle nostre occupazioni. L’unico modo per vincerlo è di attribuire un valore assoluto all’atto d’attenzione, alla perfezione formale o alla pena d’un giorno, voglio dire pensando che ogni atto d’attenzione, di sopportazione, ogni ricerca d’una perfezione minuta, fuori dal profitto e da qualsiasi risultato, trova la sua ricompensa in se stessa. Chi possiede l’anima di un poeta mi comprenderà.
    (J. Guitton, Il lavoro intellettuale. Consigli a coloro che studiano e lavorano, San Paolo, Milano 1996, 120).

    Per la preghiera

    Lasciamoci ora istruire dai primi sette versetti del primo capitolo del libro biblico dei Proverbi, che la tradizione attribuisce a Salomone, giovane re che chiese e ottenne da Dio il dono di una grande sapienza per governare il suo popolo. Perché non prendi la tua Bibbia e leggi il resto di questo libro?

    Proverbi di Salomone, / figlio di Davide, re d’Israele, / per conoscere la sapienza / e la disciplina, / per capire i detti profondi, / per acquistare un’istruzione / illuminata, equità, giustizia
    e rettitudine, / per dare agli inesperti
    l’accortezza, ai giovani / conoscenza e riflessione.
    Ascolti il saggio e aumenterà / il sapere, / e l’uomo accorto acquisterà il dono del consiglio, / per comprendere proverbi / e allegorie, / le massime dei saggi / e i loro enigmi.
    Il timore del Signore è il principio della scienza; / gli stolti disprezzano la sapienza / e l’istruzione.

    Un libro da non perdere
    J.H. Newman, L’idea di università, Studium, Roma 2005 (ed. or. 1873).


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