Dottrina Sociale della Chiesa /4 - Terzo tema
Luis A. Gallo
(NPG 2006-08-26)
Una delle componenti della convivenza sociale che svolge una funzione decisiva e che in questi ultimi tempi è stata al centro dell’attenzione nella riflessione cristiana, è l’economia. Come si sa, Marx fece di essa la componente centrale e suprema di tutta la vita sociale. Senza arrivare a tali estremi, non si può non considerarla con la massima serietà, data la sua innegabile incidenza nella convivenza collettiva e nella vita personale, e i profondi cambiamenti cui è andata soggetta negli ultimi decenni.
Dopo aver chiarito il senso del termine «economia», rivisiteremo brevemente la storia del rapporto dell’uomo con i beni materiali, soffermandoci particolarmente sull’ultimo periodo in cui sono entrati in vigore principalmente due sistemi socio-economici, quello capitalista e quello socialista; indicheremo poi brevemente i principali criteri di un’etica dell’economia enunciati dal Magistero recente, per concentrarci infine, sempre sotto la guida delle dichiarazioni magisteriali, su uno dei temi principali dell’ambito economico, il lavoro.
L’ambito economico
Il termine «economia» (dal greco: oikos-casa, nomos-gestione) viene usato comunemente con almeno tre accezioni differenti:
• in primo luogo, per riferirsi alla scienza economica;
• in secondo luogo, per designare un sistema economico in particolare, come quando si parla di «economia liberale» o di «economia marxista», o la situazione economica di una zona geografica, come quando si parla di «economia europea» o di «economia giapponese», e così via;
• in terzo luogo, come sinonimo del corretto uso delle risorse, o a volte per riferirsi al risparmio delle medesime, come quando si parla di «fare economia di energia elettrica» o cose simili.
Noi lo adopereremo in un senso molto ampio, intendendo per «economia» l’ambito dell’uso, della produzione, della distribuzione e del consumo dei beni materiali destinati a soddisfare le necessità degli esseri umani in quanto dotati di corporeità.
Il rapporto dell’uomo con i beni materiali: una breve rivisitazione storica
A somiglianza degli altri esseri viventi ma naturalmente con caratteristiche proprie, gli esseri umani hanno avuto sempre necessità dei cosiddetti «beni materiali» per poter sopravvivere: l’aria da respirare, l’acqua da bere, i frutti della terra di cui nutrirsi... Senza parlare di quelli da essi prodotti a partire dalla natura.
Il modo concreto in cui hanno agito lungo la storia per procurarseli o, in termini generali, il modo concreto in cui hanno svolto il loro lavoro, è strettamente vincolato con il tipo di rapporto che hanno avuto con essi.
Nei tempi remoti
L’uomo è l’essere che tra i viventi nasce più indifeso e, in certo senso, più sprovvisto. È sufficiente fare un confronto con gli animali per averne l’evidenza. Questa constatazione, che vale per l’uomo preso singolarmente, vale anche per l’umanità globalmente considerata.
L’essere umano infatti venne alla vita, diversi milioni di anni fa, piccolo e debole nel grembo di una natura potente e, più di una volta, anche ostile. L’uomo degli inizi – lo si può supporre con fondamento – era quasi totalmente indifeso di fronte alla natura, e concepiva il mondo che lo attorniava e in cui era immerso come un’immensa macchina della quale lui stesso si sentiva come un piccolo ingranaggio. Poiché non possedeva il segreto del funzionamento dei suoi meccanismi, si sottometteva ad essa con remissività. Non conoscendo nemmeno i meccanismi che operavano nella sua stessa persona e nei suoi rapporti con gli altri esseri di quel suo mondo, non poteva neanche gestirli a suo arbitrio.
Il mondo in cui era immerso era per lui un mondo già fatto, un mondo che doveva rispettare, fare oggetto di ammirazione e magari sfruttare con precauzione. Qualunque passo falso poteva arrecargli delle sventure anche imprevedibili. Ciò creava in lui un atteggiamento di rassegnazione e di conformità che lo rendeva perlopiù passivo. Riusciva appena, e non sempre, a difendersi dall’aggressività della natura.
C’è di più. Spesso, imbattendosi in fenomeni che superavano ciò che era abituato a sperimentare o che esulavano dalla sua ordinaria esperienza, non conoscendo le cause che li producevano, li prendeva per manifestazioni immediate di forze superiori, divine, a carattere avverso o benevolo. In questo modo li sacralizzava. Così finiva per concepire il mondo come qualcosa di fatale e intoccabile. Il mondo-natura lo accoglieva certamente nel suo grembo, lo nutriva e lo difendeva in certa misura, ma anche lo dominava e lo uccideva.
Malgrado ciò, quest’uomo primitivo andò facendo alcuni timidi passi per aprirsi uno spazio in esso, e andò affermando gradualmente e non senza difficoltà il suo dominio su di esso. Un momento decisivo in tale processo fu quello della «rivoluzione neolitica» (8000-2000 a.C.), che diede inizio all’agricoltura, all’allevamento del bestiame, alla fabbricazione di oggetti di argilla e alla levigatura della pietra. Un nuovo modo di lavorare si affacciò alla storia dell’umanità.
Nell’ambito della religione tale dominio, certamente limitato, lo si conquistava tramite i riti messi in opera per onorare le divinità. Spesso essi venivano praticati prima di intraprendere comunitariamente i lavori agricoli o le attività venatorie. I miti in essi narrati davano al gruppo ragione della sua cosmovisione, e gli aprivano un certo spazio, sia pur ristretto, di intervento sulla natura e di dominio nei suoi confronti (aratura, seminagione, raccolto, caccia, ecc.).
Ma anche fuori dell’ambito religioso, o spesso vincolato con esso in forma più o meno stretta, l’uomo riusciva a crearsi tale spazio grazie all’esperienza trasmessa di generazione in generazione. Detta esperienza gli forniva una notevole conoscenza degli effetti prodotti dagli elementi naturali (piante, minerali, liquidi vari), che gli rendeva possibile un intervento mirato a produrre, accelerare o bloccare determinati effetti. Naturalmente tale conoscenza era solo approssimativa, dal momento che non giungeva ad individuare il rapporto causa-effetto con assoluta precisione.
Nel passato più recente
Molto diversa è, da questo punto di vista, l’esperienza che un sempre maggior numero di uomini e donne ha fatto nei tempi più recenti e continua a fare ancora oggi.
Come è stato ricordato precedentemente, con la nascita della scienza moderna (sec. XVI-XVII) si è ingenerato e si è andato affermando sempre più intensamente, particolarmente negli ultimi due secoli, un nuovo modo di rapporto con la natura e, di conseguenza, un nuovo tipo di lavoro. Nella misura in cui, mediante la scienza, l’uomo è andato acquistando una conoscenza razionale delle cause dei fenomeni che avvengono dentro e fuori di lui, si è andata operando una specie di defatalizzazione della natura. Ne derivò come risultato che l’uomo imparò a difendersi sempre meglio dall’aggressività della natura, ma andò anche acquistando la convinzione di poter arrivare a impadronirsi a poco a poco delle forze presenti e operanti nella natura stessa.
Nacque così il fenomeno della tecnica, quale applicazione pratica delle scoperte scientifiche, e con essa la possibilità di manipolare gradualmente anche fenomeni prima ritenuti incontrollabili. Si produsse per ciò stesso nell’umanità una notevole crescita della coscienza circa la propria libertà nei confronti della natura, e di una corrispondente responsabilità nei suoi riguardi. Andò aumentando la convinzione che il destino personale e collettivo dell’umanità è sempre maggiormente nelle proprie mani, pur sapendo che molte cose sfuggono ancora al dominio dell’uomo.
Perciò gli uomini e le donne d’oggi si dimostrano anche sempre meno rassegnati e passivi, e spesso sviluppano atteggiamenti di ribellione davanti a ciò che di negativo comportano i fenomeni della natura e della società, come anche atteggiamenti di creatività nei loro confronti.
Il nuovo tipo di rapporto con la natura diede origine in un primo momento alla cosiddetta «(prima) rivoluzione industriale», e cioè il passaggio da un’economia agraria e artigianale, in cui il lavoro si svolgeva prevalentemente nelle campagne e utilizzando strumenti piuttosto casalinghi, ad un’altra dominata dall’industria e dalla meccanizzazione, nella quale il lavoro veniva eseguito nelle fabbriche e utilizzando le macchine prodotte dalla tecnica. Cambiamento profondo che portò con sé profonde e vaste conseguenze sociali.
Giovanni Paolo II, nella sua enciclica «Centesimus Annus» (1991), la descrisse nei seguenti termini:
«In campo economico, dove confluivano le scoperte e le applicazioni delle scienze, si era arrivati progressivamente a nuove strutture nella produzione dei beni di consumo. Era apparsa una nuova forma di proprietà, il capitale, e una nuova forma di lavoro, il lavoro salariato, caratterizzato da gravosi ritmi di produzione, senza i dovuti riguardi per il sesso, l’età o la situazione familiare, ma unicamente determinato dall’efficienza in vista dell’incremento del profitto.
Il lavoro diventava così una merce, che poteva essere liberamente acquistata e venduta sul mercato ed il cui prezzo era regolato dalla legge della domanda e dell’offerta, senza tener conto del minimo vitale necessario per il sostentamento della persona e della sua famiglia. Per di più, il lavoratore non aveva nemmeno la sicurezza di riuscire a vendere la “propria merce”, essendo continuamente minacciato dalla disoccupazione, la quale, in assenza di previdenze sociali, significava lo spettro della morte per fame. Conseguenza di questa trasformazione era “la divisione della società in due classi separate da un abisso profondo”» (n.4, corsivi nell’originale).
Posteriormente si andarono succedendo altre rivoluzioni, fino ad arrivare all’attuale «rivoluzione informatica» che lo stesso Giovanni Paolo II descrisse nella citata enciclica nel seguente modo:
«Se un tempo il fattore decisivo della produzione era la terra e più tardi il capitale, inteso come massa di macchinari e di beni strumentali, oggi il fattore decisivo è sempre più l’uomo stesso, e cioè la sua capacità di conoscenza che viene in luce mediante il sapere scientifico, la sua capacità di organizzazione solidale, la sua capacità di intuire e soddisfare il bisogno dell’altro» (n.32).
Le attuali condizioni della convivenza economica collettiva
L’accelerato processo scientifico-tecnico degli ultimi decenni ha provocato indubbiamente degli enormi progressi nella produzione dei beni di ogni tipo. Mai l’umanità ha avuto tanti beni a sua disposizione come adesso per soddisfare i suoi bisogni elementari e secondari. E questo, grazie al lavoro dell’uomo altamente potenziato dai nuovi strumenti messi a sua disposizione.
Ma la loro distribuzione e il conseguente loro consumo non sono stati simmetrici. Di fatto, il mondo è attualmente spaccato in due blocchi, come hanno constatato e denunciato non pochi studi scientifici e numerosi documenti del Magistero della Chiesa. Afferma, per esempio, la Costituzione «Gaudium et Spes»:
«Mentre folle immense mancano dello stretto necessario, alcuni, anche nei paesi meno sviluppati, vivono nell’opulenza o dissipano i beni. Il lusso si accompagna alla miseria. E, mentre pochi uomini dispongono di un assai ampio potere di decisione, molti mancano quasi totalmente della possibilità di agire di propria iniziativa o sotto la propria responsabilità, spesso permanendo in condizioni di vita e di lavoro indegne di una persona umana» (GS 63b).
Nell’enciclica «Sollicitudo rei socialis» (1987) Giovanni Paolo II delineò la seguente diagnosi del mondo attuale:
«Tralasciando l’analisi di cifre o statistiche, è sufficiente guardare la realtà di una moltitudine innumerevole di uomini e donne, bambini, adulti e anziani, vale a dire di concrete ed irripetibili persone umane, che soffrono sotto il peso intollerabile della miseria. Sono molti milioni coloro che sono privi di speranza per il fatto che, in molte parti della terra, la loro situazione si è sensibilmente aggravata [...]. La prima constatazione negativa da fare è la persistenza, e spesso l’allargamento del fossato tra l’area del cosiddetto Nord sviluppato e quella del Sud in via di sviluppo. Questa terminologia geografica è soltanto indicativa, perché non si può ignorare che le frontiere della ricchezza e della povertà attraversano al loro interno le stesse società sia sviluppate che in via di sviluppo. Difatti, come esistono disuguaglianze sociali fino a livelli di miseria nei Paesi ricchi, così, parallelamente, nei Paesi meno sviluppati si vedono non di rado manifestazioni di egoismo e ostentazioni di ricchezza, tanto sconcertanti quanto scandalose. All’abbondanza di beni e di servizi disponibili in alcune parti del mondo, soprattutto nel Nord sviluppato, corrisponde nel Sud un inammissibile ritardo, ed è proprio in questa fascia geo-politica che vive la maggior parte del genere umano» (nn.13-14).
Tale situazione non si è modificata con il crollo dei regimi comunisti, il cui simbolo fu la caduta del muro di Berlino nel 1989. Viceversa, il predominio esclusivo del neo-capitalismo come unico modello di organizzazione economica mondiale la ha ulteriormente aggravata.
Anzi, l’accelerata evoluzione delle cose ha portato all’avvento di quella che è stata chiamata «la rivoluzione finanziaria ed economica», caratterizzata dalla globalizzazione dei mercati e dal libero flusso dei capitali come nuova forma di accumulazione delle ricchezze e nuova maniera di costruzione del futuro mondiale.
Ciò ha creato indubbiamente una ancor maggiore possibilità di produzione di beni, di creazione di servizi con qualità differenti, di scambio di beni e capitali. Nuovamente però in forma asimmetrica: la maggior parte dell’umanità resta esclusa di fatto dai benefici di tale processo. Se un tempo si parlava, con un linguaggio di chiaro sapore marxista non privo di verità, di «masse oppresse e sfruttate», oggi si parla sempre più di «masse escluse», «emarginate» dall’accelerato processo di crescita dei beni e dei servizi.
A tale globalizzazione si è riferito Giovanni Paolo II nella sua Esortazione Apostolica «Ecclesia in America» nei seguenti termini:
«Caratteristica del mondo contemporaneo è la tendenza alla globalizzazione [...]. I risvolti dal punto di vista etico possono essere positivi o negativi. C’è in realtà una globalizzazione economica che porta con sé alcune conseguenze positive, come il fenomeno della efficienza e l’incremento della produzione e che, con lo sviluppo delle relazioni tra i diversi paesi in ambito economico, può rinforzare il processo di unità dei popoli e rendere migliore il servizio alla famiglia umana. Se però la globalizzazione è retta dalle pure leggi del mercato applicate secondo la convenienza dei potenti, le conseguenze non possono essere che negative. Tali sono, ad esempio, l’attribuzione di un valore assoluto all’economia, la disoccupazione, la diminuzione e il deterioramento di alcuni servizi pubblici, la distruzione dell’ambiente e della natura, l’aumento delle differenze tra ricchi e poveri, la concorrenza ingiusta che pone le Nazioni povere in una situazione di inferiorità sempre più marcata. La Chiesa, sebbene stimi i valori positivi che la globalizzazione comporta, guarda con inquietudine agli aspetti negativi da essa veicolati» (n. 20).
L’attuale globalizzazione si presenta, quindi, come una formidabile opportunità per la convivenza collettiva dell’umanità, ma richiede di essere gestita in modo tale che favorisca veramente l’umanità intera. Dovrebbe arrivare ad essere una vera globalizzazione solidale (cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» nn.363-367).
I due principali sistemi socio-economici in vigore
Il nuovo tipo di rapporto con i beni naturali instaurato dalla rivoluzione scientifico-tecnica diede di fatto origine, a partire dal secolo XIX, a due sistemi predominanti di economia: quello capitalista o, detto con maggior precisione, «di mercato», e quello socialista.
Il sistema capitalista o economia di mercato
Una definizione
È il sistema sociale in cui il capitale (ossia gli edifici, le macchine e gli altri strumenti utilizzati per produrre i beni e i servizi destinati al consumo) e i mezzi di produzione sono in mano a persone private, e in cui il lavoro viene svolto non come un dovere o sotto coazione (come nel sistema feudale), ma in vista della ricompensa materiale – stipendio o salario – che il lavoratore riceve.
Nell’ampia cornice che prospetta questa definizione trovano posto diverse forme di organizzazione socio-economica, che variano secondo la misura in cui accettano una maggiore o minore libertà dei prezzi, secondo il grado di concorrenza che ammettono tra le diverse imprese, e secondo il grado di intervento dello Stato nel gioco dell’economia privata.
Caratteristiche fondamentali
Lungo i secoli, ma particolarmente durante il suo affermarsi nella seconda metà del secolo XIX, il capitalismo si è caratterizzato per una serie di contrassegni fondamentali:
• i mezzi di produzione – la terra e il capitale – sono di proprietà privata;
• l’attività economica appare organizzata e coordinata dall’interazione tra compratori e venditori (o produttori) che si svolge nei mercati;
• tanto i proprietari della terra e del capitale quanto i lavoratori sono liberi e cercano di massimizzare il loro benessere, ragion per cui si sforzano di sfruttare al massimo le risorse e il lavoro che utilizzano per produrre; i consumatori a loro volta possono spendere come e quando vogliono per ottenere la maggiore soddisfazione possibile. Questo principio, che viene denominato «sovranità del consumatore», permette di capire che, in questo sistema capitalista o di mercato, i produttori si vedono obbligati, in forza della concorrenza, a utilizzare le loro risorse in maniera che possa soddisfare le richieste dei consumatori. L’interesse personale e la ricerca di profitto li porta a seguire una tale strategia;
• il controllo del settore privato da parte del pubblico (lo Stato) deve ridursi al minimo. Siccome esiste la competitività, l’attività economica controlla se stessa; l’intervento del governo è solo necessario per gestire la difesa nazionale, rispettare la proprietà privata e garantire il rispetto dei contratti tra le parti.
Il sistema socialista
Una definizione
È il sistema che sostiene la necessità di eliminare la proprietà privata dei mezzi di produzione per arrivare ad una società senza classi. Nella pratica i sistemi socialisti propugnano delle forme di proprietà statale sull’insieme dell’economia e un sistema di pianificazione centrale che coordini l’attività delle imprese statalizzate.
Il «socialismo» ha ammesso storicamente una varietà di significati concreti, più o meno coincidenti con il criterio appena menzionato: la variante più estrema, denominata comunismo, si ispirò da vicino alle idee di Marx e di Lenin, organizzando di fatto un sistema totalmente centralizzato di proprietà statale nel quale si ammetteva solo la proprietà cooperativa parziale nella campagna e forme molto limitate di proprietà privata in alcuni servizi. Un’altra forma più moderata di socialismo, conosciuta come socialismo democratico, è quello che, propugnando un’economia totalmente statalizzata come meta finale, accettò di sviluppare una lunga tappa di riforme che portasse a tale risultato.
Caratteristiche fondamentali
Il socialismo si distingue per una serie di caratteristiche fondamentali, in buona parte opposte a quelle del capitalismo:
• non esiste proprietà privata dei mezzi di produzione, viceversa tali mezzi sono di proprietà comune. Impadronirsi di essi equivale a un furto che li sottrae al soggetto collettivo di proprietà;
• l’economia è controllata dallo Stato con lo scopo di promuovere una giusta distribuzione delle ricchezze tra tutte le persone della società;
• il lavoro è retribuito secondo la quantità e la qualità del medesimo.
Criteri basilari di una etica dell’economia secondo il Magistero recente
Sull’economia, e più in concreto sui differenti sistemi socio-economici sopra brevemente descritti, il Magistero della Chiesa ha enunciato, specialmente nei documenti sociali pubblicati a partire dalla fine del XIX secolo, alcuni criteri etici fondamentali che dovrebbero guidare l’impegno dei cristiani in tale ambito. Sono criteri che si evincono dalla proposta del Regno di Dio come convivenza collettiva alternativa fatta da Gesù, benché non sempre vengano collegati espressamente ad essa.
Primo criterio
Nei documenti magisteriali viene enunciata – e insistentemente ribadita – una legge etica fondamentale: i beni materiali, e quindi la loro produzione, consumo e distribuzione, sono al servizio dell’uomo e sotto il controllo dell’uomo, e non al contrario.
Dichiara solennemente la Costituzione pastorale «Gaudium et Spes», che riecheggia tante altre formulazioni del Magistero recente:
«Oggi più che mai, per far fronte all’aumento della popolazione e per rispondere alle crescenti aspirazioni del genere umano, giustamente si tende ad incrementare la produzione di beni nell’agricoltura e nell’industria e la prestazione dei servizi. Perciò sono da favorire il progresso tecnico, lo spirito di innovazione, la creazione di nuove imprese e il loro ampliamento, l’adattamento nei metodi dell’attività produttiva e dello sforzo sostenuto da tutti quelli che partecipano alla produzione, in una parola tutto ciò che possa contribuire a questo sviluppo. Ma il fine ultimo e fondamentale di tale sviluppo non consiste nel solo aumento dei beni prodotti, né nella sola ricerca del profitto o del predominio economico, bensì nel servizio dell’uomo: dell’uomo integralmente considerato, tenendo cioè conto della gerarchia dei suoi bisogni materiali e delle esigenze della sua vita intellettuale, morale, spirituale e religiosa; di ogni uomo, diciamo, e di ogni gruppo umano, di qualsiasi razza o continente. Pertanto l’attività economica deve essere condotta secondo le leggi e i metodi propri dell’economia, ma nell’ambito dell’ordine morale, in modo che così risponda al disegno di Dio sull’uomo. Lo sviluppo economico deve rimanere sotto il controllo dell’uomo» (nn.64-65).
Tale dichiarazione è riproposta con insistenza nei documenti sociali di Giovanni Paolo II. Nella sua enciclica «Laborem excercens» il papa afferma, facendo riferimento alla fonte principale della produzione dei beni:
«Volendo meglio precisare il significato etico del lavoro, si deve avere davanti agli occhi prima di tutto questa verità. Il lavoro è un bene dell’uomo – è un bene della sua umanità –, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, “diventa più uomo”» (n.14, corsivi del testo).
E nella «Centesimus Annus» è ancora più esplicito:
«Tutto ciò si può riassumere affermando ancora una volta che la libertà economica è soltanto un elemento della libertà umana. Quando quella si rende autonoma, quando cioè l’uomo è visto più come un produttore o un consumatore di beni che come un soggetto che produce e consuma per vivere, allora perde la sua necessaria relazione con la persona umana e finisce con l’alienarla ed opprimerla» (n.39).
Aggiunge ancora, riassumendo in qualche modo tutto il pensiero della dottrina sociale della Chiesa degli ultimi decenni:
«Negli ultimi cento anni la Chiesa ha ripetutamente manifestato il suo pensiero, seguendo da vicino la continua evoluzione della questione sociale [...]. Suo unico scopo è stata la cura e responsabilità per l’uomo, a lei affidato da Cristo stesso, per questo uomo che, come il Concilio Vaticano II ricorda, è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa e per cui Dio ha il suo progetto, cioè la partecipazione all’eterna salvezza. Non si tratta dell’uomo ‘astratto’, ma dell’uomo reale, ‘concreto’ e ‘storico’: si tratta di ciascun uomo» (n.53, corsivi del testo).
In poche parole, quindi, il criterio etico primo e fondamentale nell’ambito economico è il seguente: l’economia (ossia la produzione, la distribuzione e il consumo dei beni materiali) è per l’uomo, e non l’uomo per l’economia; questa, come tutte le altre realtà del mondo, è un mezzo e non un fine, dal momento che l’unico fine è l’uomo, la sua vita e la sua felicità completa.
Donde si deduce logicamente che quando la si converte in fine e la si assolutizza, come succede tanto nel marxismo quanto nel capitalismo reali, la si converte in uno strumento di morte e non di vita e felicità. L’esperienza lo conferma inconfutabilmente.
Secondo criterio
Un secondo criterio spesso enunciato dal Magistero è quello della destinazione universale dei beni della terra. Criterio che si collega strettamente con il tema della proprietà privata. Si tratta di un criterio dichiarato chiaramente anche dal Vaticano II nella «Gaudium et Spes»:
«Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità. Pertanto, quali che siano le forme della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli secondo circostanze diverse e mutevoli, si deve sempre tener conto di questa destinazione universale dei beni. L’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri» (n.69).
Nella «Sollicitudo rei socialis» Giovanni Paolo II lo ha evocato per ben sette volte lungo la sua esposizione (nn.7b. 9f. 10b. 21c. 22b. d.28e).
Come si diceva poco sopra, questo criterio è in stretto rapporto con il tema della proprietà privata. Risulta perciò illuminante seguire l’evoluzione avvenuta da questo punto di vista nei testi del Magistero pontificio.
* Verso la fine del sec. XIX, quando diede inizio al suo discernimento sulle «cose nuove» che si erano originate nella convivenza sociale, Leone XIII dedicò buona parte della sua Enciclica a difendere con determinazione tale proprietà contro gli attacchi del socialismo militante del momento, d’ispirazione apertamente marxista. Occorre ricordare che tale socialismo, nel suo tentativo di cambiare la condizione del proletariato mirando a una società senza classi, faceva della proprietà collettiva di mezzi di produzione (terra, capitale, strumenti...) una delle sue principali bandiere. Scriveva il papa:
«A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l’odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato» (n.2).
E dopo aver allegato diversi argomenti di ragione e di fede contro tale pretesa soluzione, concludeva affermando:
«La comunanza dei beni proposta dal socialismo va del tutto rigettata, perché nuoce a quei medesimi a cui si deve recar soccorso, offende i diritti naturali di ciascuno, altera gli uffici dello Stato e turba la pace comune. Resti fermo adunque, che nell’opera di migliorare le sorti delle classi operaie, deve porsi come fondamento inconcusso il diritto di proprietà privata» (n.11).
Nella sua enciclica il papa riconosceva, benché in maniera piuttosto timida, la funzione sociale dei beni (n.24; cf Giovanni XXIII, «Mater et Magistra» n.119). Di lì in avanti la riflessione avanzò lentamente ma decisamente, anche per il cambiamento della situazione storico-sociale. Senza mai rinunciare all’affermazione del diritto alla proprietà privata, la si andò sfumando mediante la sua coniugazione con il criterio sopra enunciato della destinazione universale dei beni, ossia della loro proprietà comune e collettiva.
* Infatti, quarant’anni più tardi, nell’enciclica «Quadragesimo Anno», Pio XI la riaffermava, quasi come in difesa di quanto era stato enunciato da Leone XIII nella «Rerum Novarum», ma collegandolo con ciò che si riferiva alla funzione sociale della proprietà, nei seguenti termini:
«Occorre guardarsi diligentemente dall’urtare contro un doppio scoglio. Giacché, come negando o affievolendo il carattere sociale e pubblico del diritto di proprietà si cade e si rasenta il cosiddetto ‘individualismo’, così respingendo e attenuando il carattere privato e individuale del medesimo diritto, necessariamente si precipita nel ‘collettivismo’ o almeno si sconfina verso le sue teorie» (n.46).
E si dilungava poi nella spiegazione di ciò che esigeva il rispetto di ambedue i diritti, specialmente da parte dello Stato. Su questo punto più tardi Giovanni XXIII farà un lucido commento sostenendo che «per ciò che si riferisce alla proprietà privata il nostro Predecessore [Pio XI, nella “Quadragesimo Anno”] confermava il carattere di diritto naturale che le compete, e accentuava il suo aspetto sociale e la sua rispettiva funzione» («Mater et Magistra» n.30).
* Più recentemente Pio XII, nel suo radiomessaggio del 1º settembre 1944, pronunciava una frase che difficilmente si sarebbero potute scrivere ai tempi di Leone XIII, date le circostanze in cui venne pubblicata la sua enciclica:
«Lo Stato può, nel comune interesse, intervenire per regolare il suo uso [quello della proprietà] o pure, se non si può provvedere equamente in un altro modo, decretarne l’espropriazione, dando il congruo risarcimento» (AAS 36 [1944] 257-258).
Come si vede, al deciso atteggiamento di opposizione di Leone XIII nei confronti di un’intromissione dello Stato nella proprietà privata, salvo nel caso di difenderla («Rerum Novarum» n.30), tipico di chi si proponeva di combattere il socialismo marxista che propugnava la proprietà collettiva dei beni di produzione, Pio XII sostituisce ora quello di una certa apertura, sotto determinate condizioni, a tale intervento statale.
* Un passo più risoluto lo fece Giovanni XXIII nella «Mater et Magistra» affermando:
«Un altro punto di dottrina, costantemente proposto dai nostri predecessori, è che al diritto di proprietà privata sui beni è intrinsecamente inerente una funzione sociale. Nel piano della creazione infatti i beni della terra sono anzitutto preordinati al dignitoso sostentamento di tutti gli esseri umani» (nn.106-107).
E aggiungeva nella stessa enciclica:
«Oggi tanto lo Stato che gli enti di diritto pubblico hanno esteso e continuano ad estendere il campo della loro presenza e iniziativa. Non per questo però è venuta meno la ragione di essere della funzione sociale della proprietà privata, come alcuni erroneamente inclinano a pensare; giacché essa scaturisce dalla stessa natura del diritto di proprietà» (n.108).
Cosa che egli ribadì se pur brevemente nell’altra enciclica sociale «Pacem in terris» (n.22).
* Già nei documenti di Paolo VI si dà come pacificamente acquisita la «nuova» visione delle cose. Ancor di più, nei suoi enunciati vengono persino invertiti i termini: la proprietà comune precede quella privata e prevale su di essa. Dice, infatti, nella «Populorum Progressio»:
«Il recente Concilio l’ha ricordato: ‘Dio ha destinato la terra e tutto ciò che contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, dimodoché i beni della creazione devono equamente affluire nelle mani di tutti, secondo la regola della giustizia, ch’è inseparabile dalla carità’. Tutti gli altri diritti, di qualunque genere, ivi compresi quelli della proprietà e del libero commercio, sono subordinati ad essa: non devono quindi intralciarne, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione, ed è un dovere sociale grave e urgente restituirli alla loro finalità originaria» (n.22, corsivi nostri).
Non si tratta, in realtà, come chiarisce lo stesso Paolo VI, di un’invenzione recente: è il pensiero tradizionale dei Padri della Chiesa e dei più grandi teologi, dei quali spigola alcune frasi emblematiche. Alla conclusione di tale raccolta afferma:
«La proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. In una parola, ‘il diritto di proprietà non deve mai esercitarsi a detrimento dell’utilità comune, secondo la dottrina tradizionale dei padri della chiesa e dei grandi teologi’» (n.23).
* Non c’è da stupirsi, pertanto, che negli scritti sociali di Giovanni Paolo II si raccolga già matura la rinnovata – perché riconosciuta come «tradizionale» – posizione ufficiale della Chiesa. Dice infatti nella «Laborem exercens»:
«La tradizione cristiana non ha mai sostenuto questo diritto come un qualcosa di assoluto ed intoccabile. Al contrario, essa l’ha sempre inteso nel più vasto contesto del comune diritto di tutti ad usare i beni dell’intera creazione: il diritto della proprietà privata come subordinato al diritto dell’uso comune, alla destinazione universale dei beni» (n.14b).
Ancor di più, arriva a dire:
«da questo punto di vista, continua a rimanere inaccettabile la posizione del ‘rigido’ capitalismo, il quale difende l’esclusivo diritto della proprietà privata dei mezzi di produzione come un ‘dogma’ intoccabile nella vita economica» (n.14d).
Sono idee che appaiono anche chiaramente nelle altre sue encicliche (vedi «Sollicitudo rei socialis» n.42e; «Centesimus Annus» n.6b.30; ecc.).
Forse la frase che meglio compendia il suo pensiero in questo contesto è quella che egli pronunciò nel «Discorso inaugurale» della Conferenza Generale dell’Episcopato latinoamericano a Puebla (1979), e che qualche anno dopo riprese nella «Sollicitudo rei socialis» (1987):
«Bisogna ricordare ancora una volta il principio tipico della dottrina sociale cristiana: i beni di questo mondo sono originariamente destinati a tutti. (78) Il diritto alla proprietà privata è valido e necessario, ma non annulla il valore di tale principio: su di essa, infatti, grava ‘un’ipoteca sociale’» («Sollicitudo rei socialis» n.42e; cf. «Discorso inaugurale» III.4).
Terzo criterio
Un terzo criterio dell’etica sociale evidenziato con sempre maggiore intensità dal Magistero della Chiesa è quello dell’opzione preferenziale per i poveri.
Questa opzione presuppone una visione realistica della situazione economica attuale: i beni naturali e prodotti dall’uomo non sono adeguatamente distribuiti; ci sono pochi che ne hanno moltissimi, anche superflui, e moltissimi invece che mancano dei più elementari. La situazione è, quindi, da questo punto di vista e in forza del modo in cui si è andato sviluppando l’attività umana, chiaramente asimmetrica.
Davanti ad essa l’etica cristiana, fondata sulla proposta del Vangelo, ma anche sulla semplice ragione, esige che si faccia tutto il possibile per eliminare tale asimmetria. Per questo occorre affrontare l’economia tenendo particolarmente presenti quelli che non hanno accesso a tali beni, e che risultano di conseguenza menomati nelle loro possibilità di vita.
* In realtà, già i primi interventi del Magistero sociale della Chiesa erano segnati da tale opzione, pur non utilizzando la formula con cui venne espressa posteriormente.
Infatti, ciò che mosse Leone XIII a pubblicare la «Rerum Novarum» fu precisamente la condizione calamitosa del proletariato del suo tempo. Non si può negare che il passo venne dato con un po’ di ritardo storico, dal momento che «qualcun altro», come sostiene M.D. Chenu nel suo libro Teologia del lavoro (1955), lo aveva preceduto di alcuni decenni nella denunzia di tale condizione. Comunque, ciò che l’enciclica pretese, al di là della condanna dei sistemi socio-economici in vigore, fu difendere le masse povere del momento. Lo dichiara espressamente in uno dei suoi primi paragrafi:
«Comunque sia, è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia di estrema necessità venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti ai proletari, che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni, indegne dell’uomo. Poiché, soppresse nel secolo passato le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in loro vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza» (n.1, corsivi nostri).
E poco più avanti riafferma:
«Né si creda che le premure della Chiesa siano così interamente e unicamente rivolte alla salvezza delle anime, da trascurare ciò che appartiene alla vita morale e terrena. Ella vuole e procura che soprattutto i proletari emergano dal loro infelice stato, e migliorino la condizione di vita» (n.23).
Naturalmente, trattandosi di un documento rivolto principalmente ai membri della Chiesa, per motivare la risposta a tale urgenza il papa mette l’accento di preferenza sulle esigenze evangeliche. Dice, infatti, che
«per gli infelici pare che Iddio abbia una particolare predilezione, poiché Gesù Cristo chiama beati i poveri; invita amorosamente a venire da lui per conforto quanti sono stretti dal peso degli affanni; i deboli e i perseguitati abbraccia con atto di carità specialissima» (n.20).
Una delle responsabilità che derivano da tale considerazione è quella che viene attribuita allo Stato:
«I diritti vanno debitamente protetti in chiunque li possieda e il pubblico potere deve assicurare a ciascuno il suo, con impedirne o punirne le violazioni. Se non che, nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per se stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di sostegno proprio, hanno speciale necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e dei bisognosi, lo Stato deve di preferenza rivolgere le cure e le provvidenze sue» (n.29, corsivi nostri).
* Nella «Quadragesimo Anno» Pio XI riconobbe che i suoi predecessori, a partire da Leone XIII, non avevano mai desistito dal mostrare, attraverso i loro scritti, carità di padri e costanza di pastori nella massima difesa dei poveri e dei deboli (n.18).
Non è il caso di seguire il filone di tale opzione in tutti i documenti successivi. Se ne raccoglierebbe indubbiamente un abbondante materiale. È importante rilevare, invece, che a poco a poco si va notando una progressiva presa di coscienza delle nuove condizioni in cui versa l’economia mondiale, riconoscendo la sua decisiva incidenza e mettendo l’accento sugli aspetti strutturali della povertà: i poveri non sono semplicemente dei singoli individui, pur numerosi, ma la maggior parte dei popoli del mondo.
* Un momento importante in questo cammino fu certamente quello segnato dalla «Populorum Progressio» (1967) e dalla «Octogesima Adveniens» (1971) di Paolo VI. In esse si descrive molto crudamente la nuova situazione che si è andata creando e consolidando:
«Oggi, nessuno lo può ignorare: sopra interi continenti, innumerevoli sono gli uomini e le donne tormentati dalla fame, innumerevoli i bambini sottonutriti, al punto che molti di loro muoiono in tenera età, che la crescita fisica e lo sviluppo mentale di parecchi altri ne restano compromessi, che regioni intere sono per questo condannate al più cupo avvilimento» («Populorum Progressio» n. 45).
E davanti a tale situazione il Papa dichiarava tassativamente:
«Ormai le iniziative locali e individuali non bastano più. La situazione attuale del mondo esige un’azione d’insieme sulla base di una visione chiara di tutti gli aspetti economici, sociali, culturali e spirituali» («Populorum Progressio» n.13°, corsivi nostri).
«In nessun’altra epoca come la nostra, l’appello all’immaginazione sociale è stato così esplicito. Occorre dedicarvi sforzi di inventiva e capitali altrettanto ingenti come quelli impiegati negli armamenti o nelle imprese tecnologiche» («Octogesima Adveniens» n.19, corsivi nostri).
E lancia il grido evangelico che deve provocare una decisione sociale:
«L’evangelo ci inculca il rispetto privilegiato dei poveri e della loro particolare situazione nella società» («Octogesima Adveniens» n.23b).
* Fu alla luce della «Populorum Progressio» che alcune Chiese del mondo povero, come quella latinoamericana a Medellín (1968), orientarono il loro discernimento profetico, arrivando a proporre un nuovo modello ecclesiologico, quello della Chiesa povera (cap.14), che qualche anno dopo venne identificata da Giovanni Paolo II come «Chiesa dei poveri» (cf «Laborem exercens» n.8f). Una chiesa che, secondo la solenne dichiarazione della Conferenza di Puebla, fa una «opzione preferenziale per i poveri in ordine alla loro liberazione integrale» (n.1134): li mette al centro della sua attenzione e del suo impegno, e da essi e con essi affronta la realtà economica, sociale, politica, culturale e religiosa.
* Giovanni Paolo II, nell’enciclica «Sollicitudo rei socialis» (1987) estese tale opzione a tutti e ognuno dei cristiani, superando così le frontiere del continente nel quale era stata inizialmente enunciata. Ecco le sue parole:
«Non sarà, pertanto, superfluo riesaminarne e approfondirne sotto questa luce i temi e gli orientamenti caratteristici, ripresi dal Magistero in questi anni. Desidero qui segnalarne uno: l’opzione, o amore preferenziale per i poveri. È, questa, una opzione, o una forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa. Essa si riferisce alla vita di ciascun cristiano, in quanto imitatore della vita di Cristo, ma si applica egualmente alle nostre responsabilità sociali e, perciò, al nostro vivere, alle decisioni da prendere coerentemente circa la proprietà e l’uso dei beni» (n.42b; cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» nn.182.449).
Ancora di più: estese tale opzione all’umanità intera, innalzandola così a criterio universale di moralità economico-sociale:
«Perciò, sull’esempio di Papa Paolo VI con l’Enciclica Populorum Progressio, desidero rivolgermi con semplicità e umiltà a tutti, uomini e donne senza eccezione, perché, convinti della gravità del momento presente e della rispettiva, individuale responsabilità, mettano in opera – con lo stile personale e familiare della vita, con l’uso dei beni, con la partecipazione come cittadini, col contributo alle decisioni economiche e politiche e col proprio impegno nei piani nazionali e internazionali – le misure ispirate alla solidarietà e all’amore preferenziale per i poveri. Così richiede il momento, così richiede soprattutto la dignità della persona umana, immagine indistruttibile di Dio creatore, ch’è identica in ciascuno di noi» (n.47e; cf «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» n.449).