Le parole e silenzi: i codici dell’anima

 

Educare l’anima /4

Raffaele Mantegazza

(NPG 2006-04-67)

Ascolta, figlio mio, il silenzio
È un silenzio ondulato
Un silenzio dove scivolano valli ed echi
E che inclina le fronti
al suolo
(Federico Garcia Lorca)

Paolo ha 17 anni: si alza la mattina alle 7 e accende la TV, poi fa colazione senza spegnerla, esce di casa e mette nelle orecchie le cuffie del Walkman; a scuola ascolta i discorsi degli insegnanti e dei compagni, poi va a pranzo in un piccolo pub dove c‘è in sottofondo una musica tenuta così alta che per parlare gli avventori devono urlare, e la musica lo accompagna anche nel pomeriggio quando fa i compiti o studia. La sera esce con gli amici; un compagno patentato lo passa a prendere in auto e appena i ragazzi salgono sul mezzo qualcuno accende il car-stereo. Anche nei sogni Paolo non riesce a trovare la dimensione più temuta ma anche più essenziale per la crescita umana: il silenzio.
«Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu un mormorio di un vento leggero» (1 Re 19, 11-12). Una traduzione alternativa di questo passo biblico legge al posto di «un mormorio di vento leggero», «una sottile voce di silenzio»: si tratta del silenzio che è preludio della rivelazione dell’Altro divino e dell’incontro con l’altro terreno: un silenzio che si insinua nelle cose del mondo, quasi fosse una falda, una crepa; l’incontro con l’altro ha bisogno di silenzio, del raccogliersi su se stesso prima del grande balzo [1]; non si tratta del silenzio dell’idolo, né del triplice silenzio di Auschwitz: («silenzio innanzi tutto della città dei campi di concentramento, ripiegata su se stessa, sulle sue vittime e sui suoi carnefici (...) silenzio poi di coloro che avevano finito per comprendere ma che si sono trincerati anch’essi in un ripiegamento di prudenza, di incredulità e perplessità (...) silenzio infine di Dio») [2], anche se è un silenzio che ha dovuto affrontare questi altri silenzi, e vincerli. Il silenzio nel quale si definisce lo spazio per l’incontro con l’altro/a e ne ospita la parola è immediatamente spazio di ascolto; si tratta della stessa esperienza che è possibile compiere a proposito dell’ascolto della natura: occorre silenzio per capire il silenzio della natura e le sue sottili voci, così come occorre silenzio, dentro e fuori di sé, per un reale ascolto della parola divina.
Silenzio in ebraico è Dumiah, ed è soprattutto riferito al silenzio di dio, quel lo-dumyya (Sal. 22) che Neher traduce con «non silenzio»: un silenzio abitato da tensioni e da conflitto, un silenzio teso di mistero e di aura. Lo spazio dell’incontro con la parola divina è spazio di silenzio non semplice e non rassicurante, perchèéstrappato a un mondo di tensioni e di dolore.
Ma se il silenzio è lo spazio dell’incontro con l’altro, esso è soprattutto ed essenzialmente lo spazio dell’incontro con se stessi: per comprendere l’anima occorre fare silenzio, ritrovare lo spazio e il tempo del tacere: è sempre più difficile trovare la possibilità di una reale concentrazione, di una pausa che ci permetta di incontrare il vero silenzio: non quello cosmico che secondo Jules Verne è attingibile solamente al centro della Terra, ma quello umano che è figlio del tacere ed è costellato di altri suoni e rumori che devono essere scoperti.
L’incontro con i codici dell’anima avviene in uno spazio di concentrazione e di solitudine che è importante educare. La declinazione negativa del termine solitudine ci ha abituati a combattere a tutti i costi quello che invece è il presupposto fondamentale di ogni socialità e di ogni apprendimento: solo chi sa stare da solo sa stare con gli altri, e solo chi ha provato da adolescente a passare lunghi pomeriggi sdraiato sul divano sa realmente essere utile ai suoi simili. Solo imparando a stare da soli e ad ascoltare se stessi è possibile educarsi davvero alla socialità E il silenzio dell’anima, che è il suo vero e più autentico codice, è silenzio declinato al futuro: la malinconia che prende il viandante che penetra nel silenzio della basilica di Sant’Antimo è legata al presentimento di una realtà che potrebbe avere per sempre quella luce festiva e che invece ancora non l’ha, ancora non è. C’è allora silenzio e silenzio, e questo lega strettamente la dimensione del silenzio a quella dell’ascolto: attraverso l’ascolto comprendiamo che il silenzio è un oggetto da ascoltare e da criticare.
È possibile «ordinare i silenzi», selezionarli per poterli conoscere e per contrapporre al silenzio complice il silenzio solidale, il silenzio che scardina le pretese di verità delle parole del potere. Calco di questo silenzio è il silenzio della natura: non della natura violata, ma della natura che, nel suo nascondersi, non chiede risposta e ci appella, ci chiama con tutta la forza di una vocazione. Al silenzio della natura si risponde con il silenzio, che è un silenzio al quadrato perché è parola trattenuta, inizio di un tramonto dell’uomo.
Quel che è più specificatamente umano, la dimensione del linguaggio, si trattiene di fronte all’Oceano o al gioco del cucciolo perché comprende che non occorre dire «che bello». Il silenzio di fronte al silenzio della natura non significa però che non vi sia, per l’uomo e la donna, necessità di una traduzione di quest’ultimo. Reduplicare semplicemente il silenzio della natura significa abdicare alla specificità umana.
L’arte ci aiuta in questo difficile compito, proprio facendo del silenzio il suo oggetto e il suo materiale, nonché un elemento specifico della sua forma. Soprattutto nel XIX e nel XX secolo, uno dei compiti dell’arte è tradurre in parole visibili il silenzio della natura. Ascoltare la grande arte significa allenarsi all’ascolto del silenzio, ovvero all’ascolto delle crepe e delle falde del reale, dentro le quali si nasconde non vista la possibilità del meglio. Se è vero, come scrisse Wagner, che il Quartetto d’archi op. 131 di Beethoven evoca «la danza del mondo», la specificità di tale danza è proprio il suo ospitare le pause, le faglie, i frammenti di silenzio che di solito non vediamo o non ascoltiamo. Nei confronti di queste opere d’arte mettiamo in scena quell’ascolto pudico che dovremmo essere in grado di esibire nell’ascolto dell’uomo e della donna, del bambino e della bambina: un ascolto non invasivo che però, se rispetta il silenzio dell’interlocutore/trice, non lo/la lascia nel silenzio. Così l’anima parla, attraverso l’arte, e ci restituisce il suo essere pluralità di codici e pluralità di anime.
Ascoltare i silenzi dell’anima e cercare di restituirli agli altri e alle altre attraverso l’arte significa scoprire che la propria anima è più cose, vive di più vite: dentro noi è l’Anima Mundi, l’anima dell’animale e della pianta; curioso paradosso quello che vuole che ci si isoli per scoprire la pluralità, che si faccia silenzio per ascoltare i codici dell’anima e scoprire che non sono altro che i codici del mondo: il bianco silenzio dell’anima è come il bianco silenzio della luce, che riassume in sé tutti i possibili colori.
Paolo durante l’intervallo si isola dal resto del gruppo dei ragazzi per ascoltare i Doors: dice che Jim Morrison gli piace perché dice che non bisogna isolarsi. Come i monaci del deserto, Paolo si isola per imparare a non isolarsi: forse nella sua sensibilità adolescente è depositario di una conoscenza che ci sfugge e che dobbiamo sforzarci di tornare a fare nostra.


NOTE

[1] André Heher, L'esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Genova, Marietti, 1983, pag. 52.
[2] Ivi, pagg. 151-52.