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    Intervista a Gioia Di Cristofaro Longo

    (NPG 2006-04-7)



    Un cammino di Chiesa, la «conversione culturale»

    Domanda. Dopo i convegni di Roma (1976: Evangelizzazione e promozione umana), Loreto (1985: Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini), Palermo (1995: Il vangelo della carità per una nuova società in Italia), eccoci a quello prossimo di Verona: «Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo». Vede una logica di cammino, una seria interpretazione e risposta alle esigenze del cristianesimo in Italia?
    Risposta. Esiste senz’altro un filo comune: tutto ruota attorno alla conversione culturale che la scelta di fede porta con sé. Si tratta di un’ispirazione di fondo che deve fare i conti con il precetto dell’amore, l’amore per Dio inscindibilmente legato all’amore per il prossimo, prossimo che non è solo il mio familiare o il mio amico, ma ogni persona che io incontro direttamente o indirettamente nel mio cammino, simpatico o antipatico che sia, vicino o lontano, simile o diverso da me come io sono diverso per lui. A parole conosciamo bene questo discorso, ma la sfida antropologica che ci consegna la nostra scelta di fede sta proprio nel passare dalle parole ai fatti, superando lo svuotamento semantico che le parole hanno subito, tanto da non renderci più consapevoli della scissione che viviamo nella quotidianità rispetto ad esse.

    D. Dalla sua prospettiva, rispetto ai temi della vita e del quotidiano, della partecipazione di tutti all’essere chiesa e all’uso della risorsa donna, vede un cammino positivo della chiesa italiana in questo suo vivere la storia degli ultimi 20 anni?
    R. Il cammino è senz’altro positivo. Ma anche su questo fronte si profila il problema della coerenza tra affermazioni teoriche e realizzazioni concrete.
    Rispetto al ruolo della donna, in particolare, non possono non essere considerate fondamentali la Lettera Apostolica «Mulieris dignitatem» e, in particolare, la lettera di Giovanni Paolo II alle donne del 1985 nella quale esplicitamente si riconosce che: «… siamo purtroppo eredi di una storia di enormi condizionamenti che in tutti i tempi e in ogni latitudine hanno reso difficile il cammino della donna…» (punto 3 della Lettera); «… E che dire poi degli ostacoli che in tante parti del mondo ancora impediscono alle donne il pieno inserimento nella vita sociale, politica ed economica. È urgente ottenere dappertutto l’effettiva uguaglianza dei diritti della persona… « (punto 4 della Lettera). Se tutto ciò è vero, bisogna riconoscere però che il cammino è ancora lungo, non più in linea di principi, ma sul piano della gestione culturale del principio nelle pieghe dei vissuti personali e sociali: nella società e anche nella Chiesa troppe sono le resistenze culturali ad un pieno riconoscimento di un’effettiva pari dignità. Vorrei essere chiara: il riferimento prescinde completamente dal problema del sacerdozio femminile: si tratta piuttosto di considerare il contributo che le donne possono dare nei vari organismi decisionali delle istituzioni ecclesiastiche.

    La fermentazione della speranza

    D. Rispetto al tema del convegno, come docente di antropologia e lettrice delle dinamiche socioculturali della società italiana, vede segni particolari di speranza o di sua assenza?
    R. Uno sguardo sulla realtà di oggi suggerisce in prima battuta una visione piuttosto pessimista. Con un’analisi più attenta è possibile e, direi, doveroso evitare con tutte le forze di cadere nella trappola che porta a considerare esistente solo ciò che è visibile e a mantenere nell’oscurità ciò che non raggiunge una rappresentazione mediatica. È innegabile che la nostra epoca presenti uno squilibrio inedito nella rappresentazione della realtà: obbedendo ad una regola del giornalismo che oggi andrebbe senz’altro riformulata, «buca» il video e passa nella stampa solo ciò che si distacca dalla normalità.
    È così che fatti di cronaca nera, episodi di violenza singola e collettiva in singolare coincidenza con i contenuti delle fiction che nella stragrande maggioranza dei casi ruotano intorno a storie nelle quali la violenza è ampiamente rappresentata, invadono il nostro quotidiano.
    Riflettendo sull’incidenza che i mass media indubbiamente hanno, sia che se ne sia consapevoli o no, sulla costruzione del nostro immaginario culturale (incidenza ancora più vistosa sui bambini), dobbiamo considerare gli effetti di tale fenomeno su ognuno di noi. Effetti che a mio avviso vanno visti non tanto e non solo come «danno emergente», ma piuttosto come «lucro cessante», prendendo a prestito una distinzione nella valutazione del danno in diritto.
    In cosa consiste il lucro cessante? La difficoltà di rendere visibili pensieri, orientamenti, aspettative, aspirazioni, attuazioni che esistono nella realtà, ma alle quali l’oscuramento mediatico impedisce, oltre che la conoscenza diffusa, la loro «fermentazione». È proprio in queste realtà e nelle loro potenzialità alle quali si impedisce di esprimersi che si annida la speranza. La sfida che si presenta oggi alla coscienza di ciascuno di noi, rispetto alla quale la Chiesa fa tanto e tanto ancora può fare, sta proprio nel raccogliere e mettere in comunicazione reciproca aspirazioni, forse spesso carsiche, ma, a mio avviso, molto più diffuse di quanto si possa pensare. Aspirazioni che attendono di essere colte, interpretate e alle quali deve essere offerto un terreno di praticabilità.
    Due esempi, tra i molti e senz’altro tra i più vistosi, possono sostenere tali affermazioni. Il primo riguarda la manifestazione del 15 febbraio 2003 che ha visto partecipare nello stesso giorno in ogni parte del mondo 115 milioni di persone. È stato un evento impensabile, un miracolo reso possibile anche da Internet, ma che conferma l’esistenza di un sentimento diffuso in tutto il mondo nei confronti della pace, sentimento e aspirazione che fa a pugni con le realtà di guerra dei nostri giorni. Si è trattato di una risorsa che purtroppo non si è stati in grado di raccogliere e gestire nel tempo. È importante riconoscere che la Chiesa ha dato alla sua affermazione un contributo importantissimo e oggi, proprio come Chiesa, interpella tutti noi direttamente affinché quei semi di impegno, di convinzioni, di scelte non marciscano, ma anzi diano frutti di una speranza non astratta, che porti a concreta espressione tutte le potenzialità in essi insite.
    Il secondo esempio riguarda la solidarietà espressa in occasione della tragedia dello tsunami. Anche in questo caso si è realizzata una mobilitazione senza precedenti che non può non far riflettere. E la riflessione va nella direzione che laddove si intravedono le modalità di impegno e si creano canali all’interno dei quali poter esprimere i propri orientamenti nei confronti della solidarietà, della vita e della qualità della vita, allora le persone singole e i gruppi si impegnano, superando quella sensazione tanto diffusa di impotenza che porta a considerare ineluttabile che «il mondo vada così» e a rifugiarsi negli aspetti materiali della vita.
    Mi sembra importante evidenziare un fatto che spesso sfugge: l’orientamento al consumismo, oltre ad essere l’effetto di politiche economiche diffuse in tutto il mondo occidentale, è espressione anche di una distorta valenza spirituale. In una realtà nella quale il mondo dei valori è annebbiato, il valore delle cose non è più percepito solo come meramente materiale, ma realizza un trasferimento di senso che paradossalmente fa acquisire valenze spirituali alle cose materiali. La dimensione spirituale nel senso più ampio del termine, non trovando più una possibilità autonoma di espressione, ha bisogno, per continuare in qualche modo ad esistere, di concretizzarsi anche in oggetti, beni materiali.
    Il prendere coscienza di questo processo complesso è fondamentale per contribuire ad una nuova fondazione di una prospettiva della speranza aprendo vie nuove di salvezza in una rinnovata sintonia con la parola del Cristo.

    La risorsa «donne»

    D. Una domanda «personale» in quanto donna e cristiana: quale il contributo delle donne rispetto all’essere segni e portatori di speranza nella chiesa e nella società? Quali secondo Lei i modi, i tempi e i luoghi, le esperienze da valorizzare?
    R. Senza tema di apparire retorica, credo che le donne possano dare e diano un grande contributo per l’emergere di quella cultura della speranza che si fonda sulla capacità di scommettere sulla fiducia, sull’affidamento, sulla costanza e sulla pazienza, virtù che la donna sperimenta culturalmente nell’esperienza di maternità, che le appartiene come genere in un confronto diretto col miracolo della vita, virtù che è portata ad «esportare» in ogni situazione. Anche in questo caso entra in gioco il problema della visibilità: la cultura che le donne esprimono nella Chiesa e nella società non è sufficientemente rappresentata e, quindi, risultano coartati gli effetti di tali doni in tutta la società. Mi sia concesso un riferimento a tutto il mondo religioso femminile rispetto al quale a mio avviso si registra una sottorappresentazione, che poi inevitabilmente si traduce in sottovalutazione e conseguentemente in sottoutilizzazione. Proprio nel mondo religioso femminile esistono realtà di grande spessore e impegno che costituiscono una ricchezza per la Chiesa e la società che andrebbero maggiormente conosciute e riconosciute.
    La via della speranza passa per aperture e non per chiusure. Purtroppo il mondo delle donne, siano esse laiche o religiose, è un mondo che deve fare i conti con molto sbarramenti che, se oggi non sono più espliciti e ufficialmente sostenuti, sono però ugualmente esistenti.
    Il primo sbarramento è proprio quello del limitato riconoscimento per il quale la donna è costretta ad un incessante lavoro di riaffermazione dei valori di cui è portatrice, una sorta di cammino del gambero. È poi importante riflettere che la sottovalutazione esterna ha un altro effetto, al limite più grave: quello di tradurre il mancato riconoscimento in un’autosottovalutazione, impedendo così complessivamente l’esplicitazione e il frutto dei carismi dei quali è portatore ciascuno di noi, donne e uomini, impegnati nella consecratio mundi.
    Le esperienze che andrebbero valorizzate riguardano la capacità che le donne hanno di tenere legato l’ambito privato con quello pubblico, il che consente loro di gestire in contemporanea e con lo stesso livello di impegno sia le relazioni interpersonali e familiari che quelle lavorative, sociali e politiche senza soluzione di continuità, salvo le difficoltà e i conflitti dovuti ad un’organizzazione della società che ancora ostacola la libera espressione delle donne.

    La risorsa «giovani»

    D. Lei è a contatto con moltissimi giovani studenti all’università. Rispetto agli ambiti dell’esperienza quotidiana – come indicati del documento preparatorio – dove accendere la speranza (la vita affettiva, il lavoro e la festa, la fragilità creaturale, la tradizione, la cittadinanza), come vede le risorse e il compito dei giovani?
    R. Dire che i giovani potrebbero essere segno di speranza non è affermazione retorica. Il contatto con centinaia, ormai migliaia di giovani in tanti anni di insegnamento, mi consegnano la consapevolezza di una grande responsabilità, la responsabilità degli adulti nei confronti dei giovani. Spesso noi adulti abbiamo mancato al primo compito al quale siamo chiamati: quello di trasmettere autorevolmente e non autoritariamente valori, visioni del mondo, convincimenti.
    I giovani si aspettano tutto ciò da noi. Molto spesso un mal interpretato rispetto per le loro scelte ha fatto sì che si venisse meno al dovere della proposta, lasciando i giovani in balia di spinte contrapposte.
    Credo fermamente che debba essere ripristinata un’esplicita alleanza intergenerazionale, con la quale, assumendoci tutte le reciproche responsabilità, si accenda, si riaccenda la fiamma della speranza che ci veda impegnati nelle sfide che la vita pone ad ognuno a livello degli affetti, del lavoro e della partecipazione sociale. Proprio dall’insegnamento di Gesù, di cui la Chiesa è custode, tale fiamma trae alimento e orientamento antropologico: «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, beati i misericordiosi, beati gli operatori di pace».
    Oggi, come in ogni tempo, siamo chiamati esplicitamente a fare scelte, scelte che non consentono aree di neutralità, di disimpegno, scelte fatte di sì e di no, come sì all’accoglienza e no al rifiuto, sì alla solidarietà e no all’egoismo, sì al rispetto dei diritti e no allo sfruttamento, sì all’inclusione e no all’esclusione.
    Un cammino di speranza non può tradursi in una generica e retorica aspirazione e petizione di principio. Questo è un pericolo incombente che va assolutamente evitato.
    Speranza, un termine che va riscoperto e riattualizzato in ogni contesto. Speranza come progetto, impegno, scelta, e non quindi utopica e irrealizzabile prospettiva. In questo risiede la nostra speranza, in questo risiede la scommessa della nostra vita.
    Una speranza confortata dalla visione del profeta Isaia (43, 18-21):

    Non ricordate più le cose passate,
    non pensate più alle cose antiche!
    Ecco, faccio una cosa nuova:
    proprio ora germoglia,
    non ve ne accorgete?
    Aprirò anche nel deserto
    una strada,
    immetterò fiumi nella steppa.
    Mi glorificheranno le
    bestie selvatiche,
    sciacalli e struzzi,
    perché avrò fornito acqua
    al deserto
    fiumi alla steppa,
    per dissetare il mio popolo,
    il mio eletto.
    Il popolo che io ho plasmato
    per me
    celebrerà le mie lodi».


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