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    Le Madonne

    della tradizione italiana

    Silvia Vegetti Finzi


    L’arte, ha affermato Cacciari all’ultimo Festival/Filosofia di Modena, «è una necessità per manifestare l’essenziale. È determinante nella vita perché mostra qualche cosa che altrimenti non potrebbe essere mostrato». 
    Nel suo Generare Dio (Il Mulino 2017) centrato sull’iconografia mariana, il ricorso alla pittura rinascimentale rivela tutta la sua efficacia nel confronto, che percorre tutto il libro, con le icone bizantine. I ritratti orientali del volto della Vergine, immobilizzati in una posa fissa e impersonale, rinviano dal visibile all’invisibile, alludono a una divinità irraggiungibile e astratta da affermare con fede dogmatica e certa. Mentre il loro sguardo frontale ipnotizza lo spettatore, siamo noi occidentali a guardare le figure della pittura animandole con la nostra interrogazione. 
    Le Madonne della nostra tradizione ci appaiono persone vive e vere, inserite nello spazio e nel tempo della loro epoca, eppure animate da pensieri ed emozioni che le attualizzano suscitando in noi, a distanza di secoli, empatia e immedesimazione. Guardandole, ogni donna sente che in qualche modo le corrispondono e che, da lontano, l’inducono a riconoscere le passioni più profonde della sua, della nostra vita. 
    L’arte non diventa “sacra” quando esprime un contenuto religioso o risponde alla religiosità del committente. Lo è sempre e solo quando scava la condizione umana sino a mettere in luce quanto ci connette al divino. 
    La maternità di Maria, carne e spirito, materia e forma, accade nella storia e la storia trascende. Solo nella duplice dimensione del terreno e dell’ultraterreno, del caduco e dell’eterno, poteva avvenire l’incarnazione del Verbo, il farsi uomo di Dio nel ventre di una donna. Come invoca Dante: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio». 
    Ponendo Maria nell’incrocio di più coordinate, Cacciari rende pensabile l’ossimoro della creatura che genera il creatore, l’onnipotenza che si realizza nell’impotenza, il concreto che contiene in sé l’astratto, l’inizio che evoca la fine. Nella coesistenza dei contrari, nell’interazione degli opposti, esemplificati nell’intersecarsi della luce e dell’ombra, è possibile cogliere in filigrana l’immagine di Maria, che la copertina del libro ci presenta in forma mossa, sfuocata, sfasata. Perché sfuggire l’evidenza? Evitare di fare chiarezza? 
    Perché la rivelazione, in quanto incompiuta, solo parzialmente sottratta all’ombra, chiede all’umanità di proseguire il percorso verso la verità sottraendosi tanto alla dimensione del divino immanente quanto a quella del divino trascendente. Mentre l’una dissolve Dio nella molteplicità delle cose, l’altra la sottrae alla nostra comprensione. Per cogliere la presenza del divino nell’umano dobbiamo evitare tanto la luce accecante quanto il buio che oscura lo sguardo e sostare piuttosto nella terra di mezzo: nella penombra dell’esistenza, nell’incertezza della conoscenza, in una ricerca perenne, sollecitata da una fede inquieta. 
    Si comprende a questo punto perché l’autore previlegi la figura alla parola, la messa in immagini rispetto alla scrittura. Mentre il linguaggio linearizza le idee, pone in successione gli eventi, li mette in gerarchia, l’iconografia, prossima al sogno, può rappresentare la sincronia dei contrari, la coesistenza degli opposti, la simultaneità dei tempi, quanto nella realtà rimane implicito. Nelle quattro immagini dell’Annunciazione prescelte dall’autore possiamo cogliere quanto sia arduo per Maria accogliere il messaggio dell’Arcangelo, aprire la mente e il grembo all’«ospite più atteso». In Simone Martini l’espressione del volto e il gesto che stringe il manto esprimono ombrosa ritrosia, in Pier della Francesca, autorevole accettazione, quasi fosse lei, osserva Cacciari, a dare l’annuncio all’Angelo. Nel Beato Angelico, serena obbedienza. Con la differenza che, nella prima raffigurazione, la Vergine appare una bambina diligente, nella seconda una giovane consapevole e pensosa. 
    Nulla di simile accade ora alle donne nel momento in cui la fecondazione inaugura la gestazione. La nuova vita s’installa dentro di loro ma senza di loro. Un evento senza precedenti deflagra nell’oscurità del grembo femminile senza che la mente lo registri, lo traduca in immagini, trovi parole per dirlo. Quell’assenza provoca una lacuna dell’esistenza che si traduce in una mancata conoscenza di sé, in una identità lacunosa. Eppure la storia dell’arte contiene nei suoi archivi immagini che ci aiutano a recuperare quanto il processo di modernizzazione ha cancellato. Rappresentando le emozioni della Madonna, gli artisti parlano di noi, ci aiutano a comprendere ciò che dovremmo sapere e che nessun libro scientifico può insegnare. Maria è sapiente nel corpo ancor prima che nello spirito, lei sa e non sa, ma la verità, sempre a metà, si rivela solo nella condivisione. 
    Come afferma Christa Woolf, «io comprendo solo ciò che condivido». Molto opportunamente Cacciari, dopo aver commentato le quattro Annunciazioni, si sofferma a riflettere sulla Visitazione, un episodio della vita di Maria che pochi conoscono e che il manierista Pontormo, nel 1528-30, dipinge nella splendida Pala di Carmignano. 
    Elisabetta, avendo accettato la pena e la vergogna della sterilità come manifestazione della potenza divina, è denominata, unica nel Nuovo Testamento, «giusta davanti a Dio». Non potrebbe esservi incontro femminile più alto e più sacro. Il desiderio di Maria di convalidare la sua attesa nell’attesa di un’altra futura madre, di confermare la sua speranza in un rispecchiamento reciproco, svela le potenzialità di aggregazione e di rinnovamento insite nella generatività femminile. 
    Le stesse che ritroviamo nelle “Madri in nero”, nelle “Madri di Plaza de Mayo” o nelle singole donne che si oppongono, con il loro corpo, alla violenza della guerra e del dominio. Appena Elisabetta ode il saluto di Maria, il feto che porta in grembo, il futuro Giovanni Battista, il profeta destinato ad annunciare l’avvento del Messia, esulta, sussulta, celebrando così, nell’incavo della madre, la gloria di Gesù nascente. Troviamo in questo brano del Vangelo una verità, densa di conseguenze, che solo recentemente la scienza è riuscita a cogliere e dimostrare: la capacità del feto di udire le parole e di partecipare alle emozioni materne, l’intima comunicazione che li connette. 
    Così intesa la gravidanza è già storia e il nascituro, lungi dall’essere «gettato nel mondo» come riteneva Heidegger, inizia nel grembo di una donna che si declina nel passato, nel presente e nel futuro. In poche righe, il racconto biblico conferma la capacità della cultura di trasmetterci esperienze che abbiamo perdute o sottovalutate. Raramente infatti le gestanti riconoscono in questi anni, contraddistinti dalla superficialità e dalla fretta, l’importanza del primo sussulto del feto che portano in grembo, né scorgono l’orizzonte che quell’evento apre alla loro vita e all’umanità. 
    Ogni nuova nascita, infatti, mette al mondo il mondo. È significativo che a quel punto Maria, non al momento dell’annuncio, ma solo quando è certa che quanto le è stato predetto si sta realizzando, pronunci il Magnificat. Spetta a uno dei canti più belli della nostra tradizione religiosa confermare, contrariamente a quanto riteneva Platone, che concepire nel corpo e concepire nell’anima sono la medesima cosa. 
    Rientrando nella pinacoteca che Cacciari ha approntato per i suoi lettori ritroviamo ora, messa a fuoco, l’immagine che avevamo già intravisto, sgranata, in copertina. Una figura che emerge dall’ombra che genera . 
    È la prima di due maternità del Mantegna, quella in cui appare più evidente la tenerezza materna, l’attaccamento incondizionato che unisce la coppia originaria. 
    Stringendogli il mento tra le dita, Maria cerca di svegliare il figlio che dorme, di sedurlo nel senso etimologico di condurlo a se, quasi il sonno volesse sottrarglielo. Il buio che dallo sfondo ingloba il manto e l’espressione dolente del suo viso diffondono sul quadro una immagine di lutto che si conferma con maggior intensità nella tela successiva, dominata dal grigio e dal nero, dove Gesù bambino, gli occhi chiusi, le piccole mani strette dalle fasce, sembra un’anticipazione del sudario che l’attende. 
    Vi è qualche cosa d’incongruo nell’accostare la nascita alla morte, l’inizio alla fine, ma proprio nel dire l’impossibile consiste la conoscenza che l’arte trasmette, la verità che esprime. La malinconia della Madonna è la stessa che invade ogni puerpera, dopo il trionfo del parto, nel momento i cui, conclusa l’attesa, realizzato il progetto generativo, la gioia dovrebbe manifestarsi senz’ombre. Eppure, come canta De Andrè rivolto a ogni madre, «Sai che fra un’ora forse piangerai, poi la tua mano nasconderà un sorriso: gioia e dolore hanno un confine incerto nella stagione che illumina il viso». 
    Con squisita sensibilità Cacciari coglie, nel contatto che avvince madre e figlio, una premonizione del distacco, un evento annunciato dall’ombra che li unisce e separa. 
    L’inesorabile procedere dell’inizio verso la fine – che Freud sintetizza nella frase: «nella vita la morte è già al lavoro» – è affidato dall’autore a una sequenza di tele dipinte, in tempi diversi, da Giovanni Bellini. Mentre nella prima tela la Madonna, che sorregge un vispo neonato, troneggia sulla vastità di un sereno paesaggio, nella seconda, emergente da uno sfondo buio, i corpi della Vergine e del figlio benedicente, seppure avvinti dall’abbraccio materno, già divergono nel prossimo distacco. Nel volto dolente della madre scorgiamo la partecipazione «al suo stesso andar via, fuori, lontano, al suo stesso esodo da lei». 
    Un allontanamento già iscritto nell’incontro e che, dopo un percorso tragico, ritorna alla contiguità iniziale nell’ultimo quadro, intitolato Pietà, dove il grembo di Maria accoglie il figlio morto in una convergenza di destini e di affetti accomunati dal dolore. Un ripiegamento che Michelangelo, nella sua ultima opera, la Pietà Rondanini, raffigura come compenetrazione di due corpi cavi. La storia della Madre di Dio, inaugurata dall’Annunciazione, assume tutto il suo senso ai piedi della Croce, simbolo del peccato e della redenzione, del tempo finito e dell’eternità. 
    Un dolore, quello della Crocifissione che, nella Trinità di Masaccio, congiunge morte e salvezza, sconfitta e vittoria, caducità ed eternità, divino e umano. 
    Giunta a conclusione, la scarna biografia di Maria mostra quanto l’inizio sia contradditorio ma filosoficamente pensabile, in quanto contiene in sé l’essere e non il non essere, due polarità che, lungi dal contrapporsi, coesistono nella dimensione del possibile che entrambe trascende. «Il possibile, scrive Heidegger, citando Goethe, si colloca più in alto dell’attuale». 
    Come l’ombra la luce, ciò che si realizza, che passa dalla potenza all’atto, porta con sé l’irrealizzato, il tutto e il nulla. Una dimensione vorticosa che Cacciari attribuisce tanto all’onnipotenza divina quanto all’impotenza umana, sottraendole così entrambe al giogo opaco della necessità. 
    Così come Dio è libero di intervenire nelle vicende umane, di scendere nella storia, di incarnarsi in una donna, Maria è altrettanto libera di accogliere o meno il suo appello. Mentre Dio dispone ma non impone il suo volere, Maria lo accetta senza sudditanza, senza servilismo, non per costrizione ma per intima convinzione. È questa la sua grazia. 
    Nel possibile incontro tra il divino e l’umano si genera Dio in una creazione perpetua che l’infinito del verbo “generare”, insito nel titolo del libro, esprime nella forma del presente e del futuro, della constatazione e della esortazione. Al centro si staglia la figura di Maria che media gli opposti, pacifica i contrari e, mantenendo aperta la dimensione trascendentale della possibilità, assume il tempo nell’eternità.

    Osservatore Romano - 12 dicembre 2017
    (Relazione in occasione della presentazione del volume «Generare Dio» di Massimo Cacciari, tenutasi il 5 dicembre presso il salone dell’Affresco del Museo Poldi Pezzoli a Milano)


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