I volti di Maria
nell'arte
Intervista di Corrado Augias a Marco Vannini
Apro questo capitolo riferendo, in sintesi, quanto ebbe a dire monsignor Timothy Verdon in una conferenza tenuta nel 2011 sul tema Immagine e Parola: il Verbo visibile. Verdon, nato nel New Jersey, Stati Uniti, risiede da anni a Firenze dov'è canonico della cattedrale e ricopre anche altri incarichi legati alla storia dell'arte. Nel 2010 per esempio ha curato la mostra Gesù. Il Corpo, il Volto nell'arte presso la Reggia di Venaria Reale a Torino. Do queste notizie per meglio orientarci sul suo punto di vista che può essere così sintetizzato: il cristianesimo ha prodotto, fin dagli inizi, opere d'arte al servizio della liturgia. L'arte, insieme alla liturgia è infatti tra le forme di comunicazione più antiche della Chiesa.
Su questo nesso, arte, liturgia e teologia, monsignor Verdon lavora da anni.
Tra le sue osservazioni, due in particolare possono essere utilizzate per la nostra conversazione. Cerco anche qui di riassumere. La prima è che solo verso il V secolo l'arte cristiana è riuscita a definire un suo linguaggio svincolato dal sistema formale ed espressivo dell'arte classica. Per la tradizione popolare, invece, le due realtà – l'immagine letteraria e quella artistica – sarebbero nate insieme e almeno un caso, quello dell'evangelista Luca, lo dimostrerebbe. Verdon cita come esempio un quadro del celebre pittore manierista detto «El Greco» conservato nella cattedrale di Toledo. Nel dipinto si vede appunto l'evangelista Luca, che secondo la tradizione era un pittore, nell'atto di mostrare la pagina di un libro adorna di un'immagine della Madonna col Bambino. Luca ha in mano un pennello, non una penna da scrivano, per cui se ne può dedurre che ha appena finito di dipingere l'immagine che tra l'altro – posta com'è a destra dell'apertura – attira l'attenzione più della pagina scritta, a sinistra. Conclude Verdon: «Lo sguardo interiore dell'evangelista, il pallore del volto, l'eleganza delle mani dalle dita affusolate evocano il clima spirituale che la tradizione bizantina, in cui El Greco era nato e cresciuto, associa con la pittura sacra». Non so bene se sia una prova, sicuramente è un esempio piuttosto suggestivo.
L'altra osservazione dello stesso Verdon ci riguarda ancora più da vicino: nell'arte cristiana, sostiene, neppure Gesù ha avuto il ruolo eminente dato a Maria. Anche se una catalogazione completa delle opere a lei dedicate è praticamente impossibile, l'osservazione suona molto verosimile se si pensa allo sterminato numero di «ritratti» di ogni tipo, dai capolavori supremi alle immagini dettate dall'ingenua pietà popolare, che alla madre di Gesù sono stati dedicati.
Le acute osservazioni di Timothy Verdon non esauriscono però il possibile punto di partenza del capitolo. Le rappresentazioni della vita di Maria toccano un argomento molto sensibile in tutte le religioni: la possibilità di raffigurare il sacro. Com'è noto ebrei e musulmani vietano di rappresentare la divinità e hanno le loro buone ragioni. Come sarebbe possibile dare tratti umani a un'entità onnipotente, onnisciente e soprattutto infinita? Non nascondo che perfino la maestosa raffigurazione di Dio immaginata da Michelangelo sulla volta della Sistina per la creazione di Adamo risulta, in termini puramente teologici, imbarazzante. Dio sarebbe dunque un distinto signore con una bella barba bianca, fluente capigliatura, rivestito da una tunichetta rosa, qualcosa di simile a un direttore d'orchestra, un vecchio socialista, un poeta. Il dipinto è magistrale, l'immagine poderosa, due mani si protendono e stanno per toccarsi, la divina scintilla si scarica su Adamo dandogli vita e intelligenza, tutto ciò è quanto di meglio la mente di un artista poteva concepire. Ma se uno davvero crede che Dio sia l'essere infinito di cui parlano i teologi, l'onnisciente e onnipotente nel quale credono i fedeli, la scena resta inverosimile.
Un'entità infinita non può assumere tratti finiti nemmeno considerando che l'uomo sarebbe stato creato a sua immagine e somiglianza. Meglio lasciarne i possibili tratti all'immaginazione di ognuno.
Ebrei e musulmani bandiscono le immagini dai luoghi di culto anche perché è costante il pericolo dell'idolatria, scambiare cioè la persona divina o comunque sacra con la sua raffigurazione, sia statua di gesso o di marmo, sia una figura dipinta su legno o su tela. Infatti non sono rari i casi, soprattutto nella tipica religiosità mediterranea, in cui questo scambio è avvenuto e continua ad avvenire anche ai nostri giorni sconfinando nel fanatismo. Perfino i mistici cristiani si sono battuti a suo tempo perché statue e dipinti fossero limitati al minimo, perché si tenesse comunque distinta la sacralità dalla sua raffigurazione, il valore intrinseco della persona venerata dai tratti umani che la rappresentano, magistrali che siano.
All'interno del mondo cristiano va segnalata la furia iconoclasta dell'imperatore bizantino Leone III che nel 726, convintosi che la divinità non possa essere rappresentata in forme umane, ordinò la distruzione delle immagini sacre. Il suo ragionamento era che gli adoratori delle immagini cadono nell'eresia poiché, dipingendo Cristo, ne rappresentano solo la natura umana. Ma poiché le sue due nature sono inseparabili, qualità che un'immagine non potrà mai riprodurre, si rende necessaria la loro distruzione. La battaglia, per dire tutto, aveva anche un aspetto pratico che non sfuggì a suo figlio Costantino V, anch'egli acceso iconoclasta.
L'astuto Costantino sfruttò l'iconoclastia paterna per combattere anche lo strapotere dei monasteri che traevano lauti guadagni dal commercio delle icone e, grazie a quelle suggestive immagini (ancora oggi apprezzatissíme), condizionavano le folle sottraendole all'influenza imperiale. Distruggere le immagini servì così a ridimensionare il potere dei monaci impossessandosi dei loro ricchi patrimoni.
Che cosa ha determinato la scelta della religione cattolica di dare invece ampio spazio alla rappresentazione del sacro? All'inizio i primi cristiani dovevano strappare i loro fedeli alle religioni della classicità, greca e romana, che avevano diffuso la rappresentazione del sacro, spesso con opere di notevole o addirittura grandioso valore artistico. Dovendo competere su quel terreno, non si poteva passare da una tale abbondanza alla nuda severità dell'ebraismo, privo di immagini. Un'altra ragione è di natura teologica. Il cristianesimo è la religione del Dio che s'è fatto uomo, vero uomo, e che in quanto uomo soffre e muore (salvo poi risorgere, ma questo è un altro discorso). È l'umanità di Gesù, tutt'uno con suo Padre, che ne ha facilitato la rappresentazione. Della sua doppia natura, divina e umana, l'artista ritrae solo quest'ultima lasciando impregiudicata l'altra e senza timore di sembrare eretico, salvo forse agli occhi dei più fanatici.
Naturalmente se si considera possibile ritrarre Gesù, che è anche Dio, è ancora più facile immaginare di ritrarre sua madre che, quanto meno all'inizio della sua storia, è solo una giovane donna ebrea toccata dalla grazia. Gioca tra l'altro a favore il fortissimo argomento che Maria può essere ritratta in quei momenti topici dell'esistenza che ogni donna conosce: la maternità, l'allattamento, le preoccupazioni per il figlio, i patimenti per la sua sorte possibile. A questo si aggiunge, nel caso di Maria, il dolore di dover seppellire la sua creatura sovvertendo la legge naturale che, come abbiamo già detto, vuole che siano i figli a seppellire i genitori.
Professor Vannini, se questo è un possibile punto di partenza, come possiamo svilupparlo?
In primo luogo preciso che le mie sono osservazioni inerenti alla storia delle religioni e non dell'arte; con questa ci dobbiamo confrontare, ma esclusivamente per gli aspetti che toccano la teologia. Detto questo aggiungo alla sua sintesi, che per la gran parte condivido, un ulteriore elemento che non possiamo trascurare ed è che nella raffigurazione sacra è compresa una componente platonica, ovvero il concetto che nella Bellezza si mostra in qualche modo il divino, cioè il Bene. Il bello, nell'arte, diventa perciò epifania divina, che porta verso la salvezza.
Un ulteriore elemento cui bisogna accennare è che la raffigurazione di immagini estratte dai racconti evangelici costituiva, soprattutto nel Medioevo la cosiddetta Biblia pauperum, la Bibbia dei poveri, ossia degli illetterati che, non potendo leggere le Scritture, trovavano informazione religiosa e di storia sacra nelle pitture, specie nelle chiese. Pensi alle grandi vetrate così colorate delle cattedrali gotiche. Questo spiega, ovviamente, anche la presenza di numerosissime immagini legate agli episodi tratti dai vangeli e ai cicli della vita di Maria.
Mettendo da parte la leggenda di Luca pittore, quando cominciano le prime rappresentazioni pittoriche della Madonna?
Le più antiche immagini mariane in Occidente risalgono al III secolo, nelle catacombe romane di Priscilla, sulla via Salaria. Un affresco raffigura una donna con un bambino in braccio. La stella che ha di fronte permette di dire con sicurezza che si tratta di Maria; i primi cristiani attribuivano a lei la profezia di Balaam, l'indovino che, pregato dal re dei moabiti di maledire Israele, lo aveva invece benedetto, profetizzando che: «Una stella sorgerà da Giacobbe» (Nm 24,17). Sempre nelle catacombe di Priscilla compare la scena che più di ogni altra sarà rappresentata nei secoli, ovvero l'adorazione dei magi. Del resto Adolfo Venturi, grande storico dell'arte, notava che l'arte cristiana delle catacombe prelude al Rinascimento, determinando tipi e rappresentazioni nascoste o travestite dal Medioevo e poi riscoperte e ravvivate dall'età moderna.
Maria che siede con il figlio in grembo è una delle immagini più ripetute nel corso dei secoli. Una delle ragioni sembra evidente: è la perfetta rappresentazione della maternità. Ce ne sono altre?
Esiste anche una motivazione di carattere sacro. Molti testi medievali associano la Vergine al «Trono di Salomone» chiamandola Sedes sapientiae, qualifica poi rimasta nelle litanie lauretane. Già nel V secolo, dopo il Concilio di Efeso che definisce il dogma della maternità divina, troviamo spesso Maria raffigurata come basilissa, ovvero regina. Lo vediamo per esempio nelle figure dell'arco trionfale di Santa Maria Maggiore in Roma, eseguite proprio qualche anno dopo il Concilio di Efeso, ispirate tanto ai vangeli canonici quanto agli apocrifi. Maria vi compare nella scena dell'Annunciazione, nell'Adorazione dei magi, nella Presentazione al Tempio e nell'incontro con Afrodisio davanti alla città di Sotine, in Egitto, di cui abbiamo già detto. Le scene sono diverse, ma Maria è sempre raffigurata con vesti e atteggiamento regali, talvolta circondata da angeli come se fossero guardie imperiali. Analoga raffigurazione troviamo anche nei mosaici di Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna, allora centro dell'irradiazione dell'arte bizantina in Italia. Prenderanno vita da qui, nei secoli, le numerosissime Maestà che conosciamo bene, come quella di Cimabue o di Simone Martini.
Queste sue osservazioni richiamano il fatto che, tra i titoli attribuiti alla Madonna, sono numerosi quelli che evocano la sua «regalità». Regina Coeli, Regina angelorum, la preghiera Salve regina; in area francese abbiamo numerose cattedrali e chiese intitolate a Notre-Dame, nostra signora, a cominciare dalla più celebre di tutte che si trova a Parigi sull'isola al centro della Senna.
Infatti il tema dell'Incoronazione della Vergine nasce in area francese, anche se presto si diffonde in tutto l'Occidente. A volte Maria è seduta in trono accanto al Figlio che la incorona; altre volte invece è inginocchiata, come nella tavola di Filippo Lippi al museo degli Uffizi, a Firenze. Altre volte ancora è l'intera Trinità a metterle la corona sul capo. A Maria i medievali applicavano il versetto del Cantico dei Cantici 4,8: «Vieni, mia sposa, devi essere incoronata», e quello del Salmo 44,10: «La regina sta alla tua destra, vestita di oro fino».
L'antifona Salve regina ha versetti che richiamano la funzione materna di Maria. Quelli di apertura dicono infatti: «Salve, regina, Mater miserícordiae, vita, dulcedo, et spes nostra, salve». Regina, dunque, ma anche madre di misericordia, vita dolcezza e speranza nostra.
Prima di rispondere, riprendo brevemente il tema dalla svolta avvenuta nella pittura mariana: possiamo datarla in Occidente al XIII secolo (penso a Giotto) quando la Chiesa si libera, sempre più velocemente, dalla tradizione iconografica che aveva in comune con la Chiesa greca. Liberazione senza dubbio positiva, in quanto segna un progresso nell'arte religiosa. D'altra parte, com'è stato notato, lascia anche agli artisti la libertà di abbandonarsi a interpretazioni personali della storia biblica. Anzi, la Bibbia diventa spesso un pretesto per esibire il proprio virtuosismo, si allestiscono scenari secondo la moda del tempo, comprese possibili connotazioni mondane.
Tra le tipologie più diffuse c'è, e qui torno alla sua osservazione, quella che raffigura Maria come Mater misericordiae. Il timore della peste, delle carestie, della guerra, ma anche l'appello alla penitenza, spingono a cercare protezione nella Madre misericordiosa, che perciò è spesso raffigurata in piedi, con un ampio mantello sotto cui trovano rifugio i fedeli. Tra le infinite varianti colpisce il curioso affresco di Panicale (Perugia) in cuí Maria ha in mano un bastone per tener lontano il diavolo che si aggira attorno!
Si capisce bene che in un'epoca in cui la scienza medica era più o meno al livello della stregoneria – tale rimarrà del resto fino a Ottocento inoltrato – si confidasse nell'aiuto del cielo per la lotta contro le malattie, spesso epidemiche, e per altre consimili sventure.
Una diversa declinazione dell'immagine di Maria è quella della donna che, accanto alla gloria, ha avuto in sorte anche molti e terribili dolori. La «Regina» infatti diventa a volte la Mater dolorosa.
Il tardo Medioevo, il suo «autunno» come lo chiama lo storico olandese Johan Huizinga, è un'epoca segnata da crisi profonde. È in quel periodo che si diffonde la devozione verso la Mater dolorosa. Partendo dalla celebre e variamente interpretata profezia di Simeone in Luca 2,35: «Una spada ti trafiggerà l'anima». Maria era inizialmente raffigurata come trafitta al cuore da una spada. I fedeli portarono però i dolori di Maria da cinque che erano, in analogia con le cinque piaghe di Gesù crocifisso, al numero simbolico di sette. La Mater dolorosa viene perciò raffigurata vestita di nero, spesso piangente, con sette spade che le trafiggono il cuore. A volte il dolore è raffigurato nella sua interiorità, come nel dipinto di Adriaen Isenbrant a Bruges, in Belgio: Maria, anche qui vestita di nero, siede in atteggiamento di profonda meditazione, circondata appunto dalla raffigurazione dei sette dolori.
E le varie Pietà?
È sempre il tema del dolore che dà luogo alla tipologia della Pietà, ovvero l'immagine di Maria che tiene in grembo il figlio morto. Ampiamente diffusa anche nel Nord Europa, trova nell'arte italiana il suo capolavoro con i gruppi marmorei delle Pietà di Michelangelo, la più nota delle quali si trova in San Pietro a Roma.
Accenno appena a un altro tema che si intreccia col precedente nel tardo gotico e soprattutto nell'Europa settentrionale: Maria con l'unicorno – un mitico e mistico animale che, secondo i Bestiari medievali, solo una vergine poteva catturare. Nella scena più consueta si vede Maria seduta in un giardino mentre l'unicorno posa dolcemente la testa nel suo grembo. Il motivo dell'unicorno, come pure quello del «giardino», risalgono probabilmente alla sintesi tra mondo cristiano e cultura pagana. «Flores apparuerunt in terra nostra», recita il Cantico dei Cantici (2,12), e già nel IX secolo la Madonna del Libro di Kells, a Dublino, appariva in uno scenario di piante e animali.
Il suo richiamo a questo ennesimo travaso di cultura pagana nel cristianesimo rende forse opportuna una breve precisazione. È noto che la data convenzionale del Natale venne fissata al solstizio d'inverno poiché in quei giorni il sole ricomincia, per così dire, il suo cammino verso la primavera (sol invictus, dicevano già i romani). La Pasqua è stata parimenti fissata in rapporto con l'equinozio di primavera, resurrezione del Cristo secondo la fede, della natura secondo l'ordine delle stagioni. Nell'Europa meridionale, dove il tempo è più clemente, non si afferra pienamente l'importanza che i popoli settentrionali danno al «risveglio di primavera» (per rubare un titolo a Frank Wedekind) dopo i lunghi mesi di freddo e di buio. Nelle lingue romanze la «pasqua» riprende l'ebraico «Pesach» (Pàques, Pascua, eccetera); nelle lingue anglo-sassoni invece la pasqua è indicata come Easter (inglese) ovvero Ostern (tedesco). Un nome che richiama la dea pagana della natura e della fertilità Ostara (ma anche: Eostre o Eastre) celebrata appunto in coincidenza con l'equinozio di primavera. Ostara si avvicina a sua volta alla divinità romana Vesta, protettrice della casa e del focolare domestico (le famose vestali). Molte le somiglianze rimaste tra i vari culti: l'accensione di un cero, il coniglio, noto per la sua solerzia sessuale, le uova (le celebri «uova di Pasqua»), simbolo dell'embrione da cui scaturisce la vita. Se poi alle uova si affianca un salame, come avviene in una certa tradizione italiana, la simbologia fallica diventa lampante. Il risveglio della primavera non potrebbe essere espresso con più efficace eloquenza.
Confesso, caro professore, che questa circolarità dei culti mi affascina, mi fa sentire con maggiore forza l'unità del genere umano nei suoi desideri, bisogni, speranze.
Condivido pienamente. Del resto, proprio il sentimento di questa profonda solidarietà, unità, di tutto il genere umano, anzi di tutti gli esseri, è, come ho già detto, il pensiero dell'Uno, il pensiero mistico. Per non citare sempre i miei autori prediletti, ricordo il notissimo romanzo di Hermann Hesse: Siddharta.
Tornando all'iconografia mariana, tra Bibbia e mondo pagano, nel Cantico dei Cantici al versetto 4,12 leggiamo: «Sei un orto chiuso, sorella mia, sposa, sorgente chiusa, fonte sigillata». Da qui nascono, a partire dal XV secolo, le raffigurazioni di Maria in un luogo di solitudine e di riparo, simbolo più autentico di purezza, verginità. Infatti, non a caso in quel secolo i teologi discutono accanitamente la dottrina dell'Immacolata Concezione. L'Hortus conclusus diventa spesso un roseto, da questa raffigurazione si sviluppano le Madonne del Rinascimento italiano, in cuí le caratteristiche del giardino si perdono pian piano e Maria diventa simile a una gentildonna delle corti, giovane ed elegante. Uno degli esempi più evidenti è la Madonna del Magnificat di Botticelli agli Uffizi. Maria è raffigurata nell'atto di scrivere il Magnificat in una specie di corte angelica, mentre insieme col bambino tiene in mano una melagrana, simbolo di prosperità e benessere.
Il Rinascimento italiano, forte dell'eredità umanistica del secolo precedente, libera l'espressione artistica, scioglie i legami col passato, si apre all'idea di bellezza. La Bellezza, ricordava lei poc'anzi, è simbolo del divino, ma possiamo anche dire che attraverso la bellezza il divino si umanizza.
Infatti anche gli aspetti dolorosi, accentuati nel Medioevo, si attenuano. Le Madonne diventano belle donne, serene, spesso raffigurate non solo col bambino, ma anche in compagnia di santi (Anna, Elisabetta) o di fedeli, in mezzo a splendidi paesaggi. Nella Madonna del Cardellino di Raffaello il piccolo Gesù gioca col coetaneo Giovanni Battista – inconsapevoli entrambi della tragica sorte che li attende! Anche nella Sacra Famiglia Canigiani (Alte Pinakothek di Monaco) Maria è con Giuseppe, il figlio, santa Elisabetta e il piccolo Giovanni. Mentre Elisabetta parla con Giuseppe, Maria guarda serenamente i due bambini che giocano, sullo sfondo di un paesaggio dolce e tranquillo.
Se vogliamo seguire un percorso cronologico, la Riforma, anche in campo artistico, segna un punto di frattura. L'iconografia mariana conosce una svolta profonda, conseguenza delle diversità teologiche. Nei Paesi riformati, cioè in gran parte dell'Europa settentrionale, Maria quasi scompare anche perché le immagini sacre, tutte non solo quelle di Maria, sono viste con sospetto temendosi sempre l'agguato di quell'idolatria nella quale i Paesi meridionali talvolta sconfinano. Maria fa le spese di tale diffidenza. Anche in questo campo si apre, all'inizio del XVI secolo, una divergenza che non è più stata sanata. Sui cattolici peserà l'accusa di «mariolatria».
La verità è che nel mondo cattolico il culto mariano si accresce proprio in polemica con il protestantesimo e Maria diventa centro della devozione popolare. Anche nell'arte il fenomeno è evidente. Esemplare è l'affresco del Domenichino (1640, nel pieno della guerra dei Trent'anni, ultima e più terribile delle guerre di religione) nella cappella del Tesoro di san Gennaro del duomo di Napoli: Lutero e Calvino vengono schiacciati da un giovane con elmo e bandiera con una scritta inneggiante all'Immacolata, mentre un canonico mostra le ampolle col sangue di san Gennaro e in alto María intercede presso il Figlio perché deponga la spada della sua ira: vero concentrato di devozione post-tridentina.
Gli indirizzi che il Concilio di Trento impose al mondo cattolico coprirono non solo i campi della dottrina ma l'intera vita dei fedeli e le stesse espressioni artistiche. Non è esagerato dire che il solo paragone possibile è con quanto stabilì Andrej Aleksandrovič Ždanov che impostò la politica culturale sovietica ai tempi di Stalin sconfessando ogni espressione artistica che non rispettasse i canoni del partito. Subirono i suoi colpi, tra gli altri, una poetessa come Achmatova, un musicista come Šostakovič, un epistemologo come G.F. Aleksandrov. Quando s'impone una linea precisa in campo culturale, a parte le possibili conseguenze drammatiche, incombe il passaggio dall'ortodossia al ridicolo.
Il Concilio di Trento, con il Decreto sulle immagini sacre del 1563, orienta per secoli l'iconografia religiosa e anche mariana, che diventa così profondamente unitaria. Si stabiliscono regole severe e canoni precisi per le immagini religiose, proibendo raffigurazioni insolite o complicate, tali da indurre in errore i fedeli o addirittura sospette di tendenze paganeggianti: «Il santo concilio proibisce che nelle chiese si ponga un'immagine ispirata ad errore, che possa trarre in inganno i semplici; vuole che si eviti ogni impurità, che non si offrano immagini dagli aspetti provocanti».
Il cardinale Federico Borromeo, di manzoniana memoria, emana nel 1624 norme sulla pittura sacra nelle quali si depreca, ad esempio, «la sconvenienza di quelli che effigiano il divino infante poppante, in modo da mostrare denudati il seno e la gola della beata Vergine, mentre quelle membra non si devono dipingere che con molta cautela e modestia».
Quali sono, in questo clima, le più frequenti raffigurazioni della Madonna?
Quella dell'Assunta e quella dell'Immacolata. Infatti, come abbiamo già detto più sopra, ben prima che i due rispettivi dogmi fossero definiti, la devozione popolare aveva già deciso in loro favore.
Nelle immagini dell'Assunzione, Maria a volte, portata dagli angeli, si alza con lé mani giunte e gli occhi rivolti al cielo, come ad esempio nella tela di Guido Reni a Sant'Ambrogio di Genova; a volte invece si alza in cielo da sola, mentre gli angeli la guardano: così, ad esempio, nell'Assunta di Tiziano nella chiesa dei Frari a Venezia, ove l'ascesa è per così dire naturale, senza sforzo, senza niente di ascetico o mistico. I volti degli apostoli non esprimono meraviglia, quasi si trattasse di un evento straordinario sì ma non incredibile, anzi, la semplice realizzazione di un evento previsto dal disegno divino.
Ancora più diffusa l'immagine dell'Immacolata. Maria è rappresentata in piedi, con le mani giunte o incrociate sul petto; ricordando Genesi 3,15, i suoi piedi, posati sul globo, schiacciano la testa del serpente tentatore, mentre la corona di dodici stelle e la luna sotto i piedi richiamano la donna di Apocalisse, capitolo 12. Questa iconografia, codificata dal pittore spagnolo Francisco Pacheco (la Spagna era, come abbiamo detto, la massima partigiana dell'Immacolata), prevede per Maria veste bianca e mantello azzurro e così viene raffigurata in numerosi dipinti di Murillo, facendo da modello anche per il nostro Tiepolo.
Un'altra frequente iconografia mariana di quel periodo è quella della Madonna del Rosario. La devozione del rosario, di origine medievale, prevalentemente domenicana e certosina, venne codificata da papa Pio V nel 1572. Nel 1573 papa Gregorio XIII istituì una festa (prima domenica di ottobre) nel ricordo della vittoria di Lepanto attribuita all'intervento della beata Vergine del Rosario. Furono i gesuiti a diffondere la pia pratica, tanto che il rosario in certo modo divenne la preghiera dei semplici per eccellenza, e questo spiega, ovviamente, anche il diffondersi delle immagini della Madonna del Rosario nei luoghi di culto.
Il secolo dei Lumi, le correnti razionalistiche dell'Illuminismo che si sono diffuse nel XVIII secolo perfino nell'Italia settentrionale, spengono o attenuano quasi ovunque il fervore mariano.
Lo stesso si può dire per quanto riguarda il secolo successivo, il famoso Ottocento nel quale le varie correnti artistiche non avevano più legami con la fede dei semplici.
È vero. Tutto cambia però con le apparizioni di Maria in Francia di cui abbiamo parlato. Prima a Parigi, a Catherine Labouré, con la cosiddetta «medaglia miracolosa», poi a Lourdes, a Bernadette Soubirous.
Nel senso che le apparizioni incidono anche nell'iconografia mariana?
Certamente, l'immagine più diffusa diventa quella della Vergine con le mani giunte, veste bianca e lungo velo, una cintura azzurra e un rosario che pende dal braccio destro. La proclamazione del dogma dell'Immacolata e la diffusione delle immagini a stampa (i «santini») fissano questa rappresentazione che, insieme a quella di Fatima, è la più comune nel Novecento.
È stato notato che queste immagini, in particolare le statuette di gesso della Madonna di Lourdes, nella loro semplicità (si potrebbe parlare di kitsch), svolgono presso il popolo dei fedeli una funzione analoga a quella delle antiche icone: non capolavori a opera di un artista famoso, ma semplici immagini sacre.
Fatte in serie.
Certo, ma perfino questo si trasforma in un punto positivo contraddicendo il giudizio di Walter Benjamin nel suo celebre saggio L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica.
Forse perché si tratta di oggetti comuni. Certo non opere d'arte.
La produzione in serie restituisce alle immagini quell'impersonalità che era già nelle icone acheropite, come si diceva in greco bizantino, ovvero non fatte da mano di uomo.
Comunque nella Collezione d'arte religiosa moderna dei Musei Vaticani, nata nel 1973 per iniziativa di Paolo VI, vi sono opere mariane di grandi nomi dell'arte moderna: van Gogh, Matisse, Rouault, De Chirico, Carrà, Dalí. Altri nomi si potrebbero fare: Emilio Greco, Giacomo Manzù, Igor Mitoraj, eccetera.
Maria resta dunque presente anche nell'arte del nostro tempo.
Sicuramente. Però con un'osservazione non so se da lei condivisa. Questa produzione, anche se di autore illustre, non ha più legami con la dottrina e nemmeno con la pietà popolare. Obiezione che si può estendere ad altri aspetti del sacro, per esempio la moderna architettura ecclesiastica che è in genere di grande bruttezza. È stato osservato che sembra suggerita dal demonio. Condivide?
Ahimè, sì.
Poco fa lei si è riferito alle «icone». Ora, la parola icona, diffusa anche nel linguaggio del computer e del web, di per sé vuol dire semplicemente «immagine», in greco. Però sappiamo che non è così semplice. Le icone, nel senso da lei enunciato, sono quella particolare forma di rappresentazione tipica dell'arte bizantina e poi slava. Qual è, ed è stato, il ruolo di queste immagini?
Devozionale, ma non solo, anche teologico, funzione doppia che non trova corrispondenza in Occidente. Noti che solo nel XX secolo, per l'influenza esercitata da intellettuali cristiano-ortodossi russi esuli a Parigi dopo la Rivoluzione comunista e il terrore staliniano, l'Europa ha compreso il significato dell'icona.
L'icona è un'immagine a soggetto religioso, in genere di dimensioni ridotte, quindi portatile, dipinta su una tavola di legno con una tecnica perpetuatasi nei secoli, tramandata probabilmente dall'antico Egitto.
La Chiesa ortodossa ha limitato il divieto delle immagini dell'Antico Testamento solo ai simulacra, cioè alle raffigurazioni plastiche della divinità, per questo l'arte sacra bizantina non ha prodotto statue, icone invece sì.
L'icona è sottratta a qualsiasi interpretazione soggettiva, rinuncia in larga misura alla spazialità e alla plasticità della pittura ellenistica, ricerca la bidimensionalità, che non deriva, come talvolta si legge, dall'incapacità di usare la prospettiva, ma dal fatto che la figura dell'icona non appartiene più alla sfera della percezione sensoriale, si affaccia per così dire dall'eternità nella nostra dimensione temporale. Anche l'uso dei colori è rigidamente definito, come l'abbigliamento dei personaggi e i simboli. Il pittore non decide niente, tutto è già previsto, deve solo pronunciare una preghiera mentre prepara i colori e li stende sul pannello.
Per la Chiesa ortodossa l'icona non è un'immagine sacra nel senso occidentale, tanto meno un oggetto decorativo, bensì qualcosa che trova il suo vero significato solo nello spazio e nella celebrazione liturgica.
Se capisco bene l'icona non è una rappresentazione del divino, ma in qualche modo richiama la presenza stessa del divino.
Dio è invisibile e irrappresentabile, ma, poiché s'è fatto uomo, si può disegnare sulla tavola e proporre alla contemplazione nei vari aspetti della sua vita: Nascita dalla Vergine, Battesimo, Passione, Resurrezione, eccetera. L'icona mostra colui di cui è immagine, rimandando all'originale.
Non si deve perciò adorare l'icona, giacché l'adorazione è riservata a Dio, ma venerarla, poiché l'immagine onora l'originale cui rimanda. Lei ricorderà certo in Guerra e pace di Tolstoj la processione con l'icona della Madonna di Smolensk, prima della battaglia di Borodino, con tutto l'esercito russo in ginocchio, e il vecchio generale Kutuzov con la fronte a terra davanti alla sacra icona.
Ricordo anche Vladimir Vladimirovič Putin che sbaciucchia le icone nelle celebrazioni ortodosse.
Questo fa solo ridere.
Capisco meglio adesso perché i personaggi raffigurati nelle icone appaiano in una sorta di dimensione atemporale, astorica, quanto di più vicino possa darsi dell'idea del sacro. La Madonna come viene raffigurata?
La figura di Maria venne per così dire codificata da Niceforo Callisto, autore greco del XIV secolo, che, richiamandosi a Epifanio di Salamina (IV secolo), scrive: «La Vergine non era di alta statura... Il colorito leggermente dorato dal sole della sua terra, rifletteva il colore del frumento. Biondi i capelli, vivaci gli occhi, un po' olivastra la pupilla. Le sopracciglia arcuate e nere; il naso un poco allungato; le labbra rosse e colme di soavità nel parlare. Il viso né tondeggiante né aguzzo, ma leggermente ovale, le mani e le dita affusolate».
Nelle icone Maria porta sempre il maphórion: una specie dí velo che le copre il capo e le spalle, scendendo fino alle ginocchia, ritenuto da un fermaglio all'altezza della gola. Esisteva come sacra reliquia custodita a Costantino-poli fino al XV secolo nel famoso santuario mariano delle Blacherne. Poi il monastero fu distrutto da un incendio e la città presa dai turchi. Là si venerava l'icona di Maria detta perciò Blachernitissa: posizione frontale, eretta, le braccia alzate e la raffigurazione del Figlio in un clipeo (scudo) sul petto. Una copia importante è a Torcello (Venezia).
Le icone di Maria sono diffuse quanto quelle del Cristo, se ne ricordano addirittura 700 denominazioni. Secondo la leggenda, le prime tre sarebbero state dipinte dall'evangelista Luca.
Ci dobbiamo credere?
Direi di no, ma non ha molta importanza. La leggenda ci dice soprattutto la rilevanza data in particolare a questo tipo di icone. Ometto di elencare anche solo per sommi capi le centinaia di denominazioni conosciute, mi limito a citarne due.
Una è la Galaktotrophoûsa (Colei che nutre col latte), che raffigura la Madre col bambino al seno, in ricordo di Lc 11,27: «Beato il seno che ti ha nutrito!». È di una tipologia molto antica, che risale all'Egitto del VI secolo. Il tema compare anche a Roma, nel mosaico di Santa Maria in Trastevere, secolo XII, poi nei cosiddetti «madonnari», attivissimi fino a tutto il Settecento e molto amati anche oggi dalla tradizione popolare, nelle feste mariane. Si tratta di umili artisti che dipingono per terra con i gessetti effimere immagini. Ricordo per incidens che ci sono tuttora circa settanta località, tra Oriente e Occidente, dove si sostiene di avere reliquie del latte della Madonna.
L'altra è la Kyriótissa (Regina), con la Madonna seduta in trono, vestita di porpora come una sovrana, col Bambino in grembo che alza la mano in gesto di benedizione. Già abbozzato nelle catacombe nella scena dell'adorazione dei magi, si impone dopo il Concilio di Efeso, con la definizione della divina maternità (Theotókos). Ne troviamo esemplari a Parenzo, in Istria, a Ravenna, eccetera.
E la connotazione teologica di queste immagini cui accennava prima?
Prendo ad esempio la Eleoúsa, ovvero Tenera, Misericordiosa, detta anche Donskaja perché venne portata in processione prima della battaglia di Kulikovo, in cui il principe russo Dmitrij Donskoj sconfisse i tartari, nel 1380. Lì si vede che le figure emergono da una luce proveniente dallo sfondo che passa attraverso l'interno dei personaggi quasi accendendoli. Il pittore traduce in questo modo la teologia del mistico bizantino Gregorio Palamas, che considera la luce increata del Tabor (Lc 9,34; Mc 9,7) come manifestazione visibile dell'energia divina. Illuminato da quella luce, l'uomo può elevarsi sopra la materia, essere deificato dalla grazia, divenire Dio non solo nell'anima ma anche nel corpo, cogliendo il mondo intero dall'interno della sua unità.
E qui vedo che si torna al suo prediletto misticismo.
(da: Corrado Augias - Marco Vannini, Inchiesta su Maria, Rizzoli 2013, pp. 277-296)