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    In memoria di 

    Dietrich Bonhoeffer

    a 70 anni dalla morte

    (Breslavia, 4 febbraio 1906 – Flossenbürg, 9 aprile 1945)

     dietrichbonhoedffer


    Bonhoeffer e la cultura cattolica

    Rosino Gibellini

    Vorrei rispondere alla domanda: qual è il contributo di Dietrich Bonhoeffer alla cultura cattolica, in particolare alla teologia cattolica?
    Bonhoeffer è un teologo molto letto e amato: ha tanti lettori e lettrici nei più svariati ambiti linguistici. Se si dovesse pensare a un autore cattolico che gli corrisponda sotto questo profilo, si dovrebbero fare i nomi di Guardini e di Teilhard De Chardin: hanno una visione, affrontano problemi reali, possiedono una forte espressività linguistica, trasmettono ispirazione per l'azione.
    La peculiarità di Bonhoeffer è l'intreccio tra biografia e teologia, che ne fa un testimone credibile e amato. Nelle carceri della Corea del Sud e del Sudafrica resistenti in nome della fede hanno graffiato, sulle pareti, scritte dal tenore: «Remember Bonhoeffer». È sorprendente che le grandi date della storia che ha vissuto (1933, ascesa di Hitler al potere; 1939, scoppio della seconda guerra mondiale) siano anche le date della sua storia spirituale e culturale, che scandiscono la periodizzazione delle sue opere teologiche. Le date storiche diventano date storiografiche di una biografia e di un'opera.
    Vorrei rivisitare brevemente il rapporto tra il pensiero di Bonhoeffer e la teologia della secolarizzazione, la teologia politica, la teologia della liberazione, soprattutto sul versante cattolico.

    1. Nel dibattito teologico, molto vivace, e perfino sbrigliato, negli Anni Cinquanta e Sessanta, sulla secolarizzazione, la teologia cattolica ha appreso da Bonhoeffer, soprattutto dall'Etica (edita nel 1949), e dalle lettere teologiche di Resistenza e resa (edita nel 1951), la categoria di «fedeltà al mondo» (Treue zur Welt), e come sia possibile superare la dicotomia tra fede cristiana e realtà mondana (Weltlichkeit).
    Come ha mostrato Alberto Gallas in uno degli studi più penetranti da parte della storiografia cattolica sul pensiero di Bonhoeffer, l'immagine di uomo, che Bonhoeffer persegue, è quella di Anthropos téleios, di «uomo compiuto», di uomo integro, di uomo che vive in pienezza di vita, di esistenza autentica, che si contrappone all'esistenza inautentica dell'anèr dípsykos, «l'uomo dalle due anime, dal cuore diviso». Nel perseguire questa immagine di «uomo compiuto» si manifesta la Denkform bonhoefferiana, che è esigenza di superare le dicotomie.
    Per Bonhoeffer è necessario superare un tipo di «pensiero che pensa in due spazi», che separa e contrappone spazio sacro e spazio profano, spazio cristiano e spazio secolare, spazio spirituale e spazio temporale. La concezione etica cristiana non separa e non contrappone, ma tiene insieme la realtà di Dio e la realtà del mondo. Tra i due spazi non c'è identità, ma neppure separazione; vi è unità nella distinzione, «unità polemica», nella realtà di Cristo. Bonhoeffer intende superare la unilateralità, non solo teorica, ma anche storica, dello spiritualismo da una parte che sacrifica il penultimo, e del secolarismo dall'altra che odia l'eternità. Ma in questo tentativo di superamento delle due unilateralità Bonhoeffer prende le parti di quello che ritiene il termine più debole del momento dato: e cioè il penultimo. Egli difende la consistenza del penultimo di fronte alle invadenze dell'ultimo: stare con due piedi nel Penultimo, aperto all'Ultimo.
    Il superamento delle dicotomie trova il suo esito più innovativo nell'interpretazione del conflitto tra cristianesimo e modernità delle Lettere dal carcere. Il processo di formazione della modernità è un processo di secolarizzazione, che ha dato origine non semplicemente all'autonomia delle diverse sfere, ma anche ad una separazione tra realtà del mondo e realtà della fede-religione, e pertanto a una dicotomia tra fede cristiana e mondo, o realtà mondana, o mondanità (Weltlichkeit), termine che appare per la prima volta nelle lettere dal carcere del 9 marzo 1944. Qui il pensiero di Bonhoeffer si fa complesso, variegato, e anche frammentario, ma l'idea bonhoefferiana, che è stata recepita, tardivamente, nella teologia cattolica è che non è con un atteggiamento apologetico che si deve guardare alla formazione del mondo moderno nel suo farsi autonomo, ma con piena onestà intellettuale, capace di rispettare e di valorizzare l'autonomiadel mondo moderno. Anche se, con riferimento alla problematica che va sotto il nome di «dialettica dell'Illuminismo» (a partire dal 1947) (apro una parentesi: l'ultima lettera, e dunque l'ultimo segno di vita del detenuto Bonhoeffer, usciva dal carcere sotterraneo della Gestapo il 17 gennaio 1945. Proprio lo stesso giorno ha luogo ad Auschwitz l'ultimo appello e inizia il trasferimento dei prigionieri verso il Sud della Germania. Solo pochi giorni dopo, il 27 gennaio unità sovietiche entravano ad Auschwitz e a Birkenau, dove trovavano settemila detenuti in un stato miserando, e si iniziava a scoprire il «Tremendum» dell'Olocausto); al dibattito sulla società «post-secolare», evidenziato dal dialogo fra il teologo Ratzinger e Habermas (2004) e al «progetto per un ethos mondiale», proposto da Hans Küng (1990), il pensiero bonhoefferiano deve essere più attentamente discusso nel mutato contesto storico.

    2. Bonhoeffer, con la sua esistenza politica e con le sue riflessioni etico-teologiche sull'agire politico sta alle origini della nuova teologia politica, che si sviluppa negli Anni Sessanta e Settanta, e che si propone di sviluppare le implicanze pubbliche e sociali del messaggio cristiano. Quando il teologo cattolico Johann Baptist Metz scrive in La fede, nella storia e nella società (1977): «La tanto discussa crisi d'identità del messaggio cristiano è primariamente una crisi non già del suo messaggio, bensì dei suoi soggetti e delle sue istituzioni, che troppo si sottraggono al senso inevitabilmente pratico del messaggio medesimo, e così ne infrangono la pur possente intelligibilità», il riferimento implicito è alla lezione di Bonhoeffer di Sequela, dell'Etica, e delle lettere teologiche dal carcere. Dio è un nome pratico.
    Da questa nuova sensibilità politica, e con riferimento esplicito al grande discorso di Bonhoeffer del 1934 alla riunione ecumenica di Fano, in Danimarca, in cui richiedeva «un grande concilio ecumenico della santa Chiesa di Dio» sulla pace, per strappare, nel nome di Cristo, le armi dalla mano dei propri figli e per vietare la guerra, nasce, alla fine degli anni Ottanta la Convocazione ecumenica per giustizia, pace e salvaguardia del creato, che rappresenta il programma politico dell'ecumene cristiana nel mondo. Programma ancora agli atti, che, nel ricordo di Bonhoeffer, dovrebbe essere ripreso con maggior passione e lucidità, coinvolgendo anche le chiese del Terzo Mondo.

    3. Nel 1971 usciva a Lima il libro del teologo peruviano Gustavo Gutiérrez, Teologia della liberazione, punto di partenza di un percorso teologico, che ha coinvolto la teologia dell'America Latina, e più in generale, di quella che ora va sotto il nome di teologia del Terzo Mondo. In un articolo, apparso sulla rivista internazionale di teologia "Concilium" nel 1974, Gutiérrez individuava così la diversità d'impianto fra la teologia europea e nord-atlantica e il nuovo progetto teologico che nasceva in America Latina: «Sembra che buona parte della teologia contemporanea sia partita dalla sfida lanciata dal non credente. Il non credente mette in questione il nostro mondo religioso, esigendo da esso una purificazione e un rinnovamento profondi. Bonhoeffer accettava la sfida e formulava incisivamente la domanda che sta alla base di molti lavori teologici attuali: come annunciare Dio in un mondo che è diventato adulto (mündig)? Ma in un continente come l'America Latina la sfida non viene dal non credente, bensì dal non uomo [modificato nell'edizione americana, sensibile al linguaggio inclusivo, dalla non persona], cioè da chi non è riconosciuto come uomo da parte dell'ordine sociale imperante: il povero, lo sfruttato, colui che è sistematicamente e legalmente spogliato del suo essere uomo [...]. Pertanto, la domanda non verterà su come parlare di Dio in un mondo adulto, ma piuttosto su come annunciarlo Padre in un mondo non umano, sulle implicazioni che comporta il dire al non uomo che è figlio di Dio».
    Questa critica di Gutiérrez alla teologia europea si farà aspra nell'articolo I limiti della teologia moderna. Un testo di Bonhoeffer, apparso su "Concilium" nel 1979, e ripreso a conclusione di La forza storica dei poveri (1979). Per Gutiérrez, la «maggior età» ossia la Modernità, con cui si misura la teologia moderna, si è costruita su un mondo di povertà e di sfruttamento: «Ma se Bonhoeffer fu attento a volte al nemico fascista che attaccava alle spalle la società liberale, fu meno sensibile al mondo dell'ingiustizia su cui tale società completamente si appoggiava».
    Non possiamo qui seguire il dibattito e confronto fra teologia del Nord e teologia del Sud, che ho ricostruito altrove; mi limito a segnalare la convergenza, che è andata delineandosi nel Congresso organizzato dalla Facoltà di teologia cattolica dell'Università di Münster (Germania) nel 1987 sul tema Europa e America Latina in dialogo con la partecipazione di teologi latino-americani ed europei.
    In questa occasione Gutiérrez giustificava la domanda bonhoefferiana, in quanto domanda che sgorga da una esperienza, e, in questo senso, in quanto domanda pastorale. Ma prontamente segnava anche la diversità della domanda, cui intende rispondere la teologia della liberazione: «In America Latina le cose stanno diversamente. La nostra domanda suona piuttosto: come parlare di Dio di fronte alla sofferenza degli innocenti? Come si può trovare un linguaggio su Dio, che derivi dalla sofferenza di esseri umani innocenti?». In questo stesso congresso Leonardo Boff illustrava la differenza, e anche il contrasto, fra le tradizioni europee della libertà e il pensiero latino-americano della liberazione. Le tradizioni europee della libertà hanno un loro intrinseco valore, ma portano in sé una contraddizione, in quanto, storicamente, sono state fatte valere solo per l'Europa e per il mondo occidentale. Da qui la necessità che «l'opzione per una liberazione integrale» sia assunta dall'Europa e dall'America Latina, e che i due processi siano fatti confluire in un unico processo, storico e politico, capace di includere come sue articolazioni libertà e liberazione.
    In questa alleanza delle teologie e delle chiese Bonhoeffer sta ancora davanti a noi, per una nuova solidarietà nella lotta per il vero tempo della giustizia.


    Laicità e opzione di fede in Bonhoeffer

    Gian Enrico Rusconi

    1. Il primo incontro con Dietrich Bonhoeffer l'ho avuto verso la metà degli anni Sessanta, nel contesto della teologia dialettica. Di quel contesto ricordo ancora un libro di Milan Machovec, Marxismus und dialektische Theologie, e uno dedicato ai cosiddetti The New Theologians, che in italiano venne poi tradotto presso da Einaudi con il titolo Teologi senza Dio.
    Oggi, retrospettivamente, quel periodo appare singolare, intellettualmente un po' approssimativo, eppur tipico del tempo, carico di emozioni e di speranze, tra marxismo critico di matrice tedesca e nuova teologia di matrice anglo-americana. Fu una fase non esattamente "sessantottesca", secondo la vulgata che si sarebbe poi imposta, sia perché cronologicamente essa precede, sia pure di pochi anni il '68, anzi lo prepara; sia perché quella combinazione sarebbe rimasta sempre marginale rispetto al sessantottismo trionfante (anche nella memorialistica di oggi).
    In questo quadro la lettura di Bonhoeffer era quella di una teologica della secolarizzazione compiuta («È passato il tempo in cui si poteva dire tutto agli uomini tramite le parole [fossero parole teologiche o pie] così come è passato il tempo dell'interiorità e della coscienza, cioè il tempo della religione in generale»).
    Per quanto mi riguarda questa posizione sarebbe stata presto affiancata e in parte assorbita dalla problematica laica della Scuola di Francoforte (soprattutto la Dialettica dell'illuminismo e Minima moralia). La radice utopica di matrice religiosa ebraica del francofortismo l'avrei colta più tardi. O meglio tardi ne avrei capito la rilevanza teorica.
    Così il mio bonhoefferismo e il mio adornismo (uso intenzionalmente queste espressioni per sottolineare il soggettivismo della lettura dei due autori) sono rimasti in tensione. Con il passare del tempo hanno subito un processo di decantazione, senza tuttavia sparire dall'orizzonte.
    So che non è elegante parlare della propria esperienza, ma visto che mi si chiede di farlo in riferimento a Bonhoeffer, mi permetto di ricordare che dagli anni Settanta in poi avrei scritto pochissimo su di lui – come pure su Adorno. Non perché non mi interessassero più. Al contrario, sono rimasti i miei due autori segreti, quasi esoterici. Mentre professionalmente mi occupavo e continuo a occuparmi di politica e di storia.

    2. Detto approccio mi ha estraniato dalla letteratura che in questi anni si è addensata attorno a Bonhoeffer sia sul piano della conoscenza sempre più approfondita e sofisticata dell'autore, della sua biografia intellettuale, del suo ambiente ecc., sia della riflessione filosofica e teologica propriamente detta. Per questo non sono in grado di valutare se e quale influenza abbia esercitato il pensiero bonhoefferiano sull'evoluzione della vita religiosa e civile in Italia.
    Detto questo, e riconoscendo il limite mio di voler rimanere sempre attaccato alle lettere del volume Resistenza e resa anziché ripercorrere l'intera opera bonhoefferiana, sono convinto più che mai della sua «attualità» – se si vuole usare questa parola un po' equivoca.
    Apparentemente Bonhoeffer ha sbagliato in pieno la sua diagnosi sociologica. Oggi infatti assistiamo non all'eclissi del religioso, ma alla sua apoteosi mondana. Eppure questa constatazione di fatto non entra in collisione con l'esigenza bonhoefferiana dell'abbandono dell'«a priori religioso» e quindi della necessità di un «cristianesimo non religioso». Anzi.
    Personalmente trovo qui la chiave di un'originale concezione della laicità, attraverso il ricupero della formula dell'etsi deus non daretur – ben al di là della interpretazione storico-politico-giuridica di matrice groziana.
    Il fare a meno dell'«ipotesi di lavoro Dio» non è più semplicemente un dispositivo di salvaguardia della comunità civile e politica da una conflittualità impropria e distruttiva. Non è una cautela che impoverisce (secondo la solita obiezione di certi credenti), ma contiene una formidabile opzione di fede.
    Naturalmente così come è formulata l'opzione bonhoefferiana –a dispetto della potenza di alcuni suoi passaggi non addomesticabili da facili esegesi – è carica di aporie, che lasciano perplesso il laico (e non soltanto lui).
    Infatti: se la religione tradizionale non possiede «la soluzione dei problemi umani» e il cristianesimo stesso deve contribuire a far maturare gli uomini così che possano «cavarsela senza Dio», perché si deve parlare di Dio? E come? Chi è questo Dio?
    La risposta di Bonhoeffer è sconcertante: «Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona (Mc. 15,34) Dio che si lascia scacciare dal mondo, sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo, e così e soltanto così rimane con noi e ci aiuta. Cristo non aiuta in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù della sua debolezza, della sua sofferenza». «Solo il Dio che soffre può venire in aiuto».
    Ma perché mai – si chiede il laico – l'uomo adulto che deve imparare a vivere nel mondo etsi deus non daretur di colpo adesso ha bisogno del suo aiuto? Non ci troviamo davanti a una patente contraddizione?
    In realtà siamo davanti a un cortocircuito tra una problematica impostata in modo ascetico-razionale e una risposta di tipo mistico.
    Non seguirò Bonhoeffer in questa esito mistico dove il Dio respinto come «tappabuchi» si rivela lo stesso Dio «scacciato sulla croce» cui ci si deve affidare. Mi chiedo se in questa soluzione non traspaia il vissuto dell'esperienza estrema del carcere totalitario – non tanto in termini di sofferenza materiale quanto nella percezione intima del carattere "totale", appunto, della violenza nazista – simbolo della secolarizzazione compiuta. E Bonhoeffer assume su di sé questa esperienza trasformandola in una espiazione che penetra nell'intimo del suo pensiero.

    3. Questo percorso, se tradotto in chiave laicizzata, ha una segreta analogia con l'idea della filosofia e del suo nesso con la redenzione, che troviamo enunciata nell'ultima pagina dei Minima moralia di Adorno: «La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione» in un'utopia messianica secolarizzata.
    Se Adorno si fosse trovato di fronte alle tortuosità bonhoefferiane le avrebbe forse messe in conto alle antinomie della coscienza teologica contemporanea: «Con esse potrebbe andare ancora abbastanza d'accordo il cristianesimo primitivo, anacronistico, di Tolstoj, erede di Cristo qui e ora, senza alcuna riflessione, a occhi chiusi». Ma la cristologia bonhoefferiana non è affatto "primitiva" alla Tolstoj; il suo concetto di «impotenza di Dio nel mondo» è teologicamente molto esigente: ciò che appare concettualmente insostenibile su un piano (l'attributo dell'impotenza riferito a Dio) diventa sostenibile su un altro piano di riferimento (il figlio di Dio crocifisso).
    Siamo davanti a un pensare «dialettico» – come hanno suggerito alcuni interpreti? Anche se nel quadro concettuale e nel linguaggio di Bonhoeffer non c'è nulla di «dialettico» nel senso tecnico-filosofico, appaiono istruttivi alcuni accostamenti con l'ultimo grande filosofo dialettico, Adorno appunto. Non casualmente, del resto, si è parlato della teoria critica francofortese come di una «teologia occulta». Questa definizione è impropria se indica una variante filosofica, esoterica dei «fiutatori d'anime», dei cacciatori della disperazione umana (anche se l'ultimo Max Horkheimer qualche debolezza in questa direzione l'ha mostrata). Non c'è invece nulla di "teologicamente occulto" in Adorno quando afferma che «non è lecito parlare del sé come del fondamento ontologico, ma caso mai solo in sede teologica, in nome dell'immagine e somiglianza" con Dio». Oppure quando scrive che ogni filosofia gira attorno alla dimostrazione ontologica dell'esistenza di Dio.
    Bonhoeffer non si pone il problema filosofico della dimostrabilità o meno dell'esistenza di Dio. Quando afferma che la questione della trascendenza di Dio non ha nulla a che vedere con la gnoseologia fa propria l'impossibilità del discorso metafisico tradizionale: Dio non è "la spiegazione" razionale del mondo. Dietro a Kant non si torna (non a caso questo filosofo ha una posizione preminente nelle considerazioni bonhoefferiane). Dall'altro lato però esiste per Bonhoeffer un'esperienza di trascendenza attraverso l'essere-per-gli-altri.
    La strada alla metafisica, all'affermazione positiva e logicamente cogente dell'Assoluto è sbarrata. È aperta soltanto la strada al Dio sofferente, impotente. Il Dio della ragion pratica kantiana si ripresenta nel cortocircuito tra ascesi razionale e abbandono mistico.
    Ma questa strada per il laico Adorno è evidentemente impraticabile. Nelle sue Meditazioni metafisiche, tuttavia, c'è un passaggio che merita di essere ricordato. Parlando di Kant scrive:

    Egli tenne fermo alle idee metafisiche, eppure vietò di saltare dal pensiero dell'assoluto che un giorno potrebbe realizzarsi come la pace eterna, nell'affermazione che l'assoluto sia appunto per questo. La sua filosofia, come del resto ogni altra, gira attorno alla dimostrazione ontologica dell'esistenza di Dio. Con una grandiosa ambivalenza ha lasciato aperta la propria posizione: al motivo «deve esserci un padre eterno» si contrappongono passaggi in cui Kant rifiuta le idee metafisiche in quanto prigioniere delle concezioni spazio-temporali. Egli ha sdegnato il passaggio all'affermazione.

    Anche Adorno si proibisce il passaggio all'affermativo: la sua rimane una dialettica negativa. Ma da questa posizione riconosce l'impronta della metafisica anche là dov'è negata, riconosce la follia che accompagna l'ostinata ricerca della verità: «La follia è la verità con cui gli uomini vengono colpiti appena non la vogliono mollare in mezzo al non-vero». Possiamo collocare la "resa mistica" di Bonhoeffer in questo genere di "follia"?
    Di fronte alla cogenza dell'itinerario adorniano, quello di Bonhoeffer, precocemente interrotto dalla morte violenta, rimane spezzato e frammentato nelle sue stesse componenti. Per un verso è il nome del Cristo che prende il posto di quello impronunciabile di Dio («Soltanto quando si apprende l'impronunciabilità del nome di Dio si può pronunciare il nome di Gesù Cristo»). Ma per un altro verso, l'invito a «pensare e percepire in maniera vetero-testamentaria» l'esperienza della fede porta con sé gravi dubbi attorno al «mito della redenzione». Scrive Bonhoeffer:

    A differenza delle altre religioni orientali, la fede vetero-testamentaria non è una religione della redenzione. Eppure il cristianesimo viene sempre definito come religione della redenzione. Non si tratterebbe di un errore capitale per cui Cristo viene separato dall'Antico Testamento e interpretato sul piano dei miti della redenzione?

    Nell'Antico Testamento c'è una redenzione riportata interamente alla dimensione terrestre e storica di un popolo di fronte al suo Dio, al di qua della morte individuale. Sono invece le «mitologie della redenzione» quelle che promettono il superamento della morte, un'eternità fuori dal tempo. Secondo Bonhoeffer,

    L'errore e il pericolo, è vedere il cristianesimo in quest'ottica. Redenzione in Cristo, al contrario, non significa «una scappatoia verso l'eterno», una liberazione dalle angosce, dalle miserie, dalla morte. È piuttosto assaporare sino alla feccia la vita terrena («Dio mio perché mi hai abbandonato?»). Solo nella misura in cui l'uomo agisce così, il Crocefisso e il Risorto è con lui, e con Cristo è crocefisso e risorge.

    Ancora una volta, appena dopo aver enunciato la questione della redenzione in termini di esigenza di radicale demitizzazione, il teologo ripiega precipitosamente sulla tesi tradizionale e rassicurante che il Cristo impotente e risorto rimane pur sempre la garanzia della resurrezione personale. Ma con ciò – ci chiediamo – non si ricade nel «mito della redenzione» che si vorrebbe lasciare alle spalle? Perché fare quell'avance di demitizzazione radicale se alla fine la proposta bonhoefferiana si rifugia nella dogmatica tradizionale che assicura che l'unica vera redenzione personale è quella in Cristo?
    Non riesco a immaginare come il trentanovenne pastore luterano Bonhoeffer, se fosse scampato alla morte, avrebbe potuto sciogliere questi interrogativi e sviluppare in maniera convincente le riflessioni abbozzate nelle condizioni eccezionali della sua detenzione.

    4. Concludendo vorrei soffermarmi sui concetti di «resistenza» e «resa» che danno il titolo al volume che raccoglie le lettere del carcere.

    Spesso qui ho pensato a dove passino i confini tra la necessaria resistenza contro il destino e l'altrettanto necessaria resa. Don Chisciotte è il simbolo della prosecuzione della resistenza sino all'assurdo, anzi alla follia. La resistenza perde il suo senso reale e si condanna a fantasticherie teoretiche. Dio non ci viene più incontro con il «tu» ma «ammutolisce» nel neutro «esso» [il destino]. Il mio problema è in fondo proprio quello di sapere come noi possiamo trovare il «tu» in codesto «esso» o, in altre parole, di sapere come dal destino nasca davvero una «guida». Non è possibile dunque definire in linea di principio i confini tra resistenza e resa, ma è certo che devono essere tenute presenti ambedue e ambedue devono venire assunte con decisione.

    Anche qui credo che la tensione tra resistenza e resa possa essere riportata a quella tra esercizio ascetico e abbandono mistico, che ho evocato sopra. Ascesi è l'esercizio della razionalità che tiene testa all'irrazionalità etica del mondo e all'idea di un Dio fallace spiegazione-soluzione del mondo. Mistico è l'abbandono all'impotenza di Dio nel senso specifico che Bonhoeffer ha cercato di descrivere.
    È nella tensione tra razionalità ascetica e abbandono mistico che si dispiega la maturità del cristiano diventato adulto e quindi non più religioso nel senso dogmatico tradizionale.
    Anche se contorto, spezzato, enigmatico il discorso bonhoefferiano stimola un pensare teologico che prende sul serio il postulato dell'autonomia razionale dell'uomo nella spiegazione del mondo fisico e morale e quindi nel suo comportamento etico e politico. È qui che il cristiano bonhoefferiano e il laico possono incontrarsi disarmati dogmaticamente, non più "religiosi" o "irreligiosi" (possiamo ora aggiungere) nel senso convenzionale del termine. Segnalano l'età adulta dell'uomo, credente e no, o diversamente credente.

    (da AA.VV, Dietrich Bonhoeffer. Eredità cristiana e modernità, Claudiana 2006, pp. 165-169; 177-183)

     

    "ECCO, IO SONO CON VOI"

    Ecco, io sono con voi tutti i giorni,
    fino alla fine del mondo (Mt 28,20).

    Dio e l'uomo si appartengono

    Fiabe e leggende narrano dei giorni in cui Dio ancora camminava in mezzo agli uomini; di come si potesse incontrare per la strada un uomo semplice che vi domandava ospitalità, e a casa lo si riconoscesse per Dio stesso e si venisse largamente ricompensati. Quelli erano giorni, come ci dicono la fiaba e la leggenda, che narravano come realtà tutto ciò che nell'uomo sonnecchia come segreta speranza.

    Anche l'inizio della nostra Bibbia ci narra di come nel giardino dell'Eden il Signore Dio passeggiasse sul far della sera, e vivesse e parlasse con gli uomini. Pochi sono i popoli presso i quali non vi siano narrazioni di quei giorni in cui Dio e l'uomo erano vicini l'uno all'altro. Poi tutto è cambiato. La nostra Bibbia fissa la svolta nell'episodio della caduta. Gli uomini vennero scacciati dal giardino nel quale potevano vivere con Dio, e da allora vissero separati da Dio, nella colpa e nella miseria che cresceva di generazione in generazione.

    Sempre più profondo diventava lo iato tra Dio e l'uomo, e l'umanità sprofondava nella notte. E ora, per quanto gli uomini risalgano indietro con il pensiero, non sanno parlare che del tempo della notte in cui Dio non cammina più in mezzo a loro. Sguardi colmi di nostalgia si volgono allora al tempo dei primordi, il tempo della patria perduta, che pure più nessuno ha conosciuto di persona; altri, in cui è più forte la speranza, parlano dei giorni a venire in cui Dio tornerà ad abitare tra gli uomini e il suo regno verrà ristabilito sulla terra. Dio e l'uomo si appartengono reciprocamente, in qualche modo; Dio tornerà, e di nuovo sarà ospite presso gli uomini.

    Vi fu un giorno, nella storia dell'umanità, in cui questa speranza dovette essere radicalmente compromessa, in cui si dovette prendere coscienza dell'eterna distanza dell'uomo da Dio; e quello fu il giorno in cui l'umanità levò la mano contro il Dio che voleva abitare in mezzo ad essa e inchiodò Gesù Cristo sulla croce. Venerdì santo. Ma vi fu anche un giorno in cui si ebbe la risposta divina all'agire umano, in cui Dio nuovamente e per tutta l'eternità ha posto la dimora tra gli uomini: fu il giorno in cui la mano dell'uomo, protesa nel gesto di empietà, contro ogni speranza fu riempita di grazia divina in Gesù Cristo, il Risorto. Pasqua. "Ecco, io sono con voi ...": questo è l'annuncio di Pasqua. Non il Dio lontano, ma il Dio presente; questa è la Pasqua.

    Con noi nella sua parola

    Sul nostro tempo è calata la solitudine, quella solitudine che si dà là dove regna l'abbandono di Dio. Nel cuore delle nostre metropoli, nel fermento e nella concitazione delle masse umane, è scesa l'indigenza dell'isolamento e dell'assenza di una patria. Ma cresce l'anelito che torni il tempo in cui Dio si fa trovare di nuovo in mezzo agli uomini. E venuta una sete di contatto con il divino, sete ardentissima che vuol essere appagata. E al momento vengono offerte sul mercato molte panacee, che promettono di estinguere questa sete, e tante mani avide si protendono ad afferrarle. Ma al cuore di tutto questo fermento sta ora la parola di Gesù Cristo: "Ecco, io sono con voi ...". Non c'è bisogno che cerchiate e ricerchiate, non c'è bisogno che evochiate misteriosi fantasmi: io sono qui.

    Che lo vediamo o meno, che lo percepiamo oppure no, ciò non toglie assolutamente nulla al fatto che Gesù sia qui con noi, ovunque noi siamo. E in questo noi non possiamo fare proprio nulla. "Io sono con voi tutti i giorni ...". Sì, se è così, se realmente Gesù è con noi, allora anche Dio è con noi, dovunque noi siamo; allora non siamo più abbandonati, esuli, soli. Allora davvero il tempo delle leggende è diventato nuovamente realtà, allora Dio vive veramente in mezzo a noi, e non c'è che una cosa da fare: tenere gli occhi aperti per coglierne la presenza, per riconoscere, come gli uomini della leggenda, il Signore Dio nel viandante forestiero. Dio vuole essere con noi.

    Ma cosa significa veramente che Gesù è con noi, che Dio è con noi? Che significa che Dio è nel mondo? Dove e come ci è dato di percepirne qualcosa? Dio, Gesù Cristo, il Risorto vive con noi: non è forse solo un modo di dire puramente metaforico? Che cosa possiamo intendere con tale espressione? Si tratta forse solo di un vago sentimento, non meglio definibile?

    No! Si tratta di una cosa assolutamente chiara: Gesù è con noi nella sua parola. Questo vuol dire, in maniera inequivocabile: in ciò che egli vuole e in ciò che pensa di noi. Egli è con noi con la sua volontà e con la sua parola, ed è nella frequentazione di questa parola di Gesù che noi percepiamo la sua vicinanza. La parola è il più chiaro, il più evidente mezzo espressivo con cui degli esseri spirituali vengono in contatto tra loro. Allorché di un uomo noi possediamo la parola, ne conosciamo la volontà, lo conosciamo come persona; allorché abbiamo la parola di Gesù, conosciamo il suo volere e la sua persona tutta.

    La parola di Gesù è sempre una e sempre la stessa, e tuttavia è sempre e sempre differente. Ci dice: "Tu stai sotto l'amore di Dio"; "Dio è santo, e anche voi dovete essere santi"; "Dio vuole donarvi lo Spirito santo perché siate santi". E dice questo in maniera differente a ognuno, a ogni momento: la parola di Dio è una per il bambino, un'altra per l'adulto; altra per il ragazzo, altra per la ragazza; altra per l'uomo, altra per la donna; eppure non c'è età, non c'è attimo della vita in cui la parola di Dio non abbia a dirci qualcosa. Tutta la nostra vita sta sotto la sua parola, ed è dalla parola che essa è santificata.

    Parola di giudizio e di grazia

    "Ecco, io sono con voi ...": questa parola è vera, che lo vogliamo o no. Ma ci sono momenti in cui non lo vogliamo, in cui la presenza di Dio ci è di peso? Sì, sappiamo tutti che ci sono: sono i momenti del giudizio di Dio su di noi. Dio è con noi: ecco, tutt'a un tratto questa parola ci appare in tutta la sua portata con estrema chiarezza. Se Dio è con noi - ma non noi con lui -che accade allora? Cerchiamo dunque di approfondire questo pensiero fino in fondo: non è un qualche rispettabile uomo del mondo, non un profeta, non un principe terreno che viene a noi e rimane stabilmente con noi, ma è il principe della vita e del mondo intero che è qui con noi con il suo giudizio e con le sue esigenze nei nostri confronti. Riusciremo a esserne all'altezza? E anche se noi volessimo ribellarci e opporgli resistenza, egli è qui, tutti i giorni, fino alla fine del mondo. Il pensiero esaltante che Dio ha nuovamente preso dimora tra gli uomini, che vuole ridare un senso alla vita dell'umanità, che il mondo è ricolmo di Dio, questo pensiero diviene minaccioso e angosciante, perché oltremodo carico di responsabilità. La nostra vita e il nostro agire non devono essere privi di senso; ma che avviene se li viviamo nell'ottundimento e nell'oblio? Ogni età trova in Dio la sua determinazione; ma come, se non vi poniamo attenzione? Ogni attimo della nostra vita è in riferimento a Dio; ma come, se non ci accorgiamo di nulla? Così, tutt'a un tratto, siamo oppressi da un grave peso quando prendiamo sul serio la parola: "Ecco, io sono con voi ...".

    Ma quando Dio assegna un compito, al tempo stesso dona e perdona. Quando c'è il giudizio di Dio, c'è anche la sua grazia. Dovrebbe egli forse venire nel mondo e vivere in esso la propria vita per poi distruggerlo? No, è dalla sua stessa vita che egli vuol dare alla vita del mondo, a quanti la vogliono. Egli vuole attirare a sé, nella sua beatificante comunione, coloro che sono soli e tutti quelli che vogliono la sua vita. "Io sono con voi tutti i giorni ...". Dio vive, vive nel mondo, vive per il mondo, gli conferisce senso e vita, lo fa diventare per noi patria, pone la nostra vita in relazione con l'eternità: ecco la grazia che ci viene da questa parola.

    Gesù è il cuore della nostra comunità

    Un aspetto molto significativo della fiaba di cui parlavamo è che Dio si trasforma in uomo tra gli uomini. Anche questa promessa della fiaba è diventata realtà. Gesù Cristo non è con noi solamente nelle ore in cui ci ritiriamo in solitudine, ma ci viene incontro a ogni passo che facciamo, in ogni uomo che incontriamo: "Ecco, io sono con voi ..." . In ogni uomo ci parla Gesù Cristo, Dio stesso si rivolge a noi; l'altro uomo, questo "tu" enigmatico, imperscrutabile, è appello di Dio, è il Dio santo in persona che viene a incontrarci. Nel viandante per la strada, nel mendicante che bussa a casa nostra, nel malato dinanzi alla porta della chiesa è una richiesta di Dio che ci è rivolta, e così in ogni uomo che ci sta accanto, con cui siamo giorno dopo giorno. "Ogni volta che avete fatto queste cose a uno dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Mt 25,40), dice Gesù. Io per te, tu per me siamo richiesta di Dio, Dio stesso: se riconosce questo, lo sguardo si apre sulla pienezza della vita divina nel mondo. Allora la vita nella compagnia degli uomini riceve il suo senso divino.

    La comunità è di per se stessa una forma di epifania di Dio: Dio è con noi fintanto che esiste comunità. Questo il senso più profondo del nostro essere legati alla vita sociale: che per suo tramite siamo tanto più saldamente legati a Dio.

    "Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo". Ancora una volta si parla delle cose ultime. "Io sono il Primo e l'Ultimo" (Is 44,6 e Ap 1,17), "Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre" (Eb 13,8): queste le parole che ci vengono dette. Gesù è il Signore dei tempi, egli è con i suoi sempre, anche quando i tempi sono avversi; e rimarrà con noi, ecco la nostra consolazione. Anche se dovessero venire su di noi tribolazione e angoscia, Gesù è con noi e ci conduce a Dio nel suo regno eterno. Gesù Cristo è l'esteso spazio della nostra vita, Gesù Cristo è il cuore della nostra comunità, Gesù Cristo è con noi sino alla fine del mondo. Grazie alla Pasqua.

    (Predica, domenica "Quasimodogeniti", 15 aprile 1928 (GS V, pp. 428-434).

    (da: Memoria e fedeltà, Qiqajon 1995, pp.193-200)

     


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