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    Sulla questione

    giovanile

    la Chiesa

    si gioca il futuro

    Intervista a Armando Matteo

    Iacopo Scaramuzzi


    Si è aperto il Sinodo dei vescovi, a suo avviso cosa hanno da dire i giovani alla Chiesa e cosa ha da dire la Chiesa alle nuove generazioni?  
    «I giovani mandano un messaggio chiaro: facciamo fatica a mettere insieme la nostra crescita, il nostro cammino verso l’età adulta e l’esperienza religiosa. C’è un forte disinteresse per l’esperienza cristiana. Contemporaneamente emerge anche una richiesta di aiuto: la nostra società tende a condannare i giovani ad un destino di marginalizzazione e loro chiedono di essere aiutati a capire meglio come può servire la religione cristiana per la vita adulta. La Chiesa, da parte sua, senza riallacciare i rapporti con il mondo giovanile rischia l’implosione. Calano le vocazioni, molte persone decidono di non accedere più al matrimonio religioso, le nostre comunità sono prive dello spirito, dell’entusiasmo delle forze giovanili. In questo senso penso che nelle intenzioni di Papa Francesco ci sia la volontà di porsi in dialogo e in ascolto. È la prima volta che la Chiesa lo fa in questo modo. Aggiungerei che non sono molti quelli che nella Chiesa hanno capito che questo Sinodo è fondamentale, più importante di quelli celebrati in passato. C’è in gioco l’interesse di intere generazioni, nonché il destino della Chiesa. Il tema dei giovani riguarda tutti».

    Si può dire che per Papa Francesco affrontare la questione giovanile sia anche un modo per riproporre, tramite lo sguardo dei giovani, la necessità di una riforma della Chiesa?  
    «L’attuale fatica che i giovani hanno di credere ci dice che tutto ciò che facciamo, la pastorale giovanile, non riesce a generare nuovi credenti, mette in crisi il carattere materno della Chiesa. E questo sta a cuore a Papa Francesco. Perciò, per generare nuovi credenti, il Papa esorta ad una riforma missionaria della Chiesa. Se la Chiesa dovrebbe essere il luogo in cui le persone si incontrano con Gesù e vivono una vita piena, questo non sta capitando più e l’universo giovanile ce lo restituisce in modo molto forte. Le indagini a riguardo sono chiare. L’ultimo studio, pubblicato dall’Istituto Toniolo all’inizi odi questa estate, registrava che in Italia c’è una fascia veramente ampia di popolazione giovanile che vivrebbe tranquillamente senza religione. Anche il documento preparatorio del Sinodo sottolinea che la maggioranza impara a vivere senza Dio e senza Chiesa non perché non abbia occasione di incontrarla, ma perché attualmente il modo di presentare Gesù e l’esperienza della fede non ottiene quell’innesco di interesse reale nelle nuove generazioni. Questo certamente richiede dei cambiamenti».

    In realtà, sebbene propongano un cattolicesimo piuttosto distante dal Concilio vaticano II, i settori che si potrebbero definire fondamentalisti, realtà ecclesiali che presentano una fede fortemente identitaria, hanno una notevole attrattiva anche tra i giovani…  
    «È stato Zygmunt Bauman ad identificare questo strano paradosso, questa eterogenesi dei fini: una mentalità liquida produce “consiglieri capaci”, punti di riferimento estremamente solidi, granitici. Un certo fondamentalismo è una sorta di derivato della cultura contemporanea. L’ampliamento delle opzioni, il fatto che ogni soggetto debba rispondere di sé perché non ci sono più morali condivise spinge una parte della popolazione a ridare fiducia a tradizioni culturali, politiche, ma anche religiose che si presentino più forti, più chiare. Certamente questo approccio, le idee super-chiare e super-distinte, hanno una certa attrattiva, ma non mi sembra sia la risposta migliore, anche perché l’atteggiamento dell’irrigidimento è sempre una strategia a breve respiro, e la specie umana non agisce così. Le svolte epocali sono dolorose ma c’è sempre la capacità di adattarsi. Il cristianesimo, nella sua migliore tradizione, vive secondo la logica dell’incarnazione, e quindi non teme di mettere in discussione questo modello di fare Chiesa, di presentare il Vangelo, di celebrare i sacramenti in ascolto constante della parola del Vangelo ma anche della storia degli uomini. Mi pare che questo sia l’appello di Papa Francesco quando dice di stare in ascolto dei poveri, che poi possono essere ad esempio le coppie di divorziati risposate ma anche, come ha detto di recente il cardinale Gualtiero Bassetti, il mondo giovanile. Un punto delicato è la fatica della comunità ecclesiale ad accordarsi con l’invito di Papa Francesco ad una uscita missionaria. Una difficoltà forse accresciuta anche dalla grande longevità che c’è in Occidente, per cui le comunità non sono mai del tutto vuote e, per così dire, facciamo fatica a sentire la mancanza dei giovani che mancano. Ci stiamo un po’ abituando a campare. Aprendo il pre-sinodo il Papa ha usato parole bellissime quando ha detto ai giovani: noi siamo qui non perché vogliamo a tutti i costi avere i giovani, ma perché sappiamo che una comunità senza giovani è monca, ci manca una parte di accesso al mistero divino. Ogni cambiamento, ogni riforma richiede una qualche sofferenza, e non possiamo pensare di portare a termine una Chiesa veramente missionaria senza attraversare anche un processo di morte e risurrezione. Per citare Benedetto Croce, lasciar morire quel che è morto e promuovere ciò che è vivo. Il cristianesimo che abbiamo ereditato, insomma, non è l’unica possibilità di cristianesimo: è una possibilità, formata ascoltando esigenze di un’altra epoca, ma oggi non funziona più. Nella esortazione Evangelii gaudium Papa Francesco lo dice chiaramente, la pastorale giovanile non risponde più perché i cambiamenti in atto sono moltissimi. Questo non è il problema, il problema è quando manca la disponibilità a cambiare».

    Nel suo libro “La prima generazione incredula” lei sostiene che una riforma si realizza se la Chiesa si «mette a dieta» e ripensa anche la «geografia della salvezza»: può spiegarcelo?  
    «Veniamo da una cultura nella quale l’elemento religioso era non solo presente, ma addirittura promosso nelle famiglie e nelle dinamiche sociali, e questo ha favorito il fatto che la Chiesa si potesse occupare di tantissime altre cose. La Chiesa si è occupata di scuole, ospedali, formazione alla politica, teatro: non c’è quasi ambito dell’umano di cui la Chiesa non si sia occupata. E ha sempre potuto delegare la generazione della fede alle famiglie, alle mamme e alle nonne, alle scuole, allo stesso contesto culturale. Oggi ci troviamo con un corpo ecclesiale mastodontico, ogni parrocchia si occupa di tantissime cose, ma sempre di più è in difficoltà a fare quel che deve fare, ossia generare nuovi credenti in Cristo. Oggi assistiamo a quello che io chiamo l’eclissi del cristianesimo domestico: a casa si prega pochissimo, non si legge il Vangelo, il cuore degli adulti si è spostato verso tanti altri lidi, e questo chiede maggiore impegno a concentrare le proprie energie sulla generazione alla fede, a ripensare i processi di iniziazione alla fede in modo diverso, a fare più sul serio. Lo stesso vale per la geografia: quando in Italia, in Europa, l’uomo era naturaliter cristiano, ogni quartiere, ogni piccolo paese di montagna o di campagna aveva la sua parrocchia. Oggi questo non ci è più permesso, viviamo nuovi fenomeni di urbanizzazione, c’è da prendere consapevolezza che il numero dei sacerdoti o diminuito o invecchiato. Oggi c’è una dispersione di energie ecclesiali enormi, legate a un mondo che non è più quello in cui sono nate. Se l’obiettivo prioritario diventa quello di aiutare gli adulti a recuperare l’interesse a alla religione, si deve anche riscrivere nuova geografia della presenza cristiana. Anche questo è molto difficile, Papa Francesco aveva chiesto ai vescovi italiani di ripensare il numero delle diocesi, e quindi degli uffici diocesani, delle parrocchie… ma sappiamo che questa richiesta ha incontrato delle resistenze. Inevitabilmente ogni cambiamento comporta sofferenze. Ma è necessario ripensare una presenza della Chiesa non più “a pioggia”, come è attualmente, ma in funzione di questo scopo primario, la generazione della fede».

    Ma cosa possono fare i vescovi del Sinodo, in tre settimane, a risolvere problemi così grandi, epocali? Ora è uscito in libreria un suo libro, “ Tutti giovani, nessun giovane” (Piemme), nel quale denuncia la «fatica a essere giovani». In che senso?  
    «Il Sinodo potrebbe essere l’occasione buona per mettere alcuni paletti, provare a fare una diagnosi un po’ condivisa. Innanzitutto la parte giovanile del mondo, sia in Occidente che altrove, fa fatica a vivere la propria età della vita. Dovrebbe ereditare il mondo nell’età di massima potenza, di massima energia, per migliorarlo, e invece si trova confrontata con generazioni adulte che tengono tutto in mano, che anzi continuano a dire ai giovani “non abbiamo bisogno di voi, vogliamo rimanere giovani noi”. Questo produce paralisi della fiducia, gli adulti, che dovrebbero essere coloro che traghettano i giovani verso la vita, in realtà fanno opera di contenimento, spegnimento delle passioni. C’è un grande disagio, un grido di giustizia dei giovani, perché quando gli adulti non fanno gli adulti i giovani non possono fare i giovani. Il Sinodo può dunque innanzitutto servire a mettere a fuoco che noi adulti siamo il problema e i giovani sono la risorsa. In secondo luogo, bisogna lavorare più seriamente con gli adulti. C’è da attivare una pastorale della seconda età, perché con adulti che vivono una “religione della giovinezza” si è interrotta la trasmissione della fede. Non possiamo parlare di giovani senza tenere in conto che i giovani hanno il loro sguardo sugli adulti, se non ci interroghiamo su come gli adulti vivono e trasmettono la loro fede. E in terzo luogo, seguendo la Gaudete et exsultate di Papa Francesco, bisogna recuperare la dimensione gioiosa dalla fede: credere per vivere con più gioia la nostra vita umana, si va a messa per vivere una esperienza di festa e di gioia. Nel mio ultimo libro, da ultimo, provocatoriamente dico che il Sinodo potrebbe anche essere il luogo da cui la Chiesa esce con proposta un po’ strana forse: smettere di parlare di giovani di persone con più di 30 anni. Un’operazione di pulizia linguistica a cui può corrispondere pulizia mentale che possa rimettere in asse le generazioni. Le generazioni sono i giovani e gli adulti, e gli adulti aiutano i giovani a prendere il loro posto, a ereditare il mondo».

    Il Sinodo sui giovani cade in un momento in cui la Chiesa è scossa dal nuovo emergere degli abusi sessuali: un motivo di allontanamento dei giovani dalla Chiesa?  
    «La questione del rapporto dei giovani con la Chiesa è l’unica vera questione che abbiamo, per cui questo Sinodo, sebbene si svolga non sotto le condizioni più favorevoli a causa dell’emergere di questi scandali e di forti divisioni nella Chiesa, è comunque una grande benedizione. Probabilmente è più l’attivazione di un processo che non la parola definitiva. Ad ogni modo, sarebbe un’occasione persa non farlo. C’è ance da dire che, ben prima di queste situazione di scandalo, non molti si erano infervorati per questo Sinodo, anche i mass media non sono sembrati molto attenti… perché viviamo in una società che parla tanto dei giovani solo per farli fuori. Certo gli scandali non aiutano, la virtù principale del mondo giovanile oggi è l’autenticità ed è chiaro che ovunque emergano macchie ci sia delusione, i giovani avvertono immediatamente, con allergia, con ripugnanza, questi fatti. Va anche detto, però, che le indagini fatte, almeno in Europa, registrano che il punto più problematico, per cui non scatta un reale interesse dei giovani per le cose della Chiesa e della fede, non sia lo scandalo. Penso che il punto nodale rimanga il fatto che c’è una grandissima fascia della popolazione adulta che nel cuore ha messo un sacco di cose e ha tolto Dio, la Chiesa, la preghiera, Gesù Cristo, e per questo non ha testimoniato nelle relazioni educative il perché rimanere cristiani dopo che si smette di essere bambini. Questa a me pare la vera questione».


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