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    Leopardi,

    poeta del sentimento

    tragico della vita

    Francesco Macri

    infinito

    Uno degli aspetti che fanno del Leopardi un poeta “contemporaneo” ed “emblematico”, è il suo drammatico collocarsi di fronte agli interrogativi più urgenti e radicali della vita, al mistero che sopravanza sempre le conquiste della ragione, all’inquietudine esistenziale dell’uomo teso verso il suo futuro, all’enigma del dolore e della morte che non trovano mai una risposta plausibile e definitiva, alla presenza ostile o indifferente della natura, al suo sentirsi “sbilanciato” tra l’essere e il nulla.
    Ma una precisazione va fin da subito fatta per eliminare ogni lettura distorta di quanto qui si andrà a scrivere. Il momento riflessivo della poesia leopardiana non è un qualcosa a sé stante, che vive di vita autonoma e distaccata. Leopardi non è un filosofo, è essenzialmente un poeta. È in questa prospettiva che vanno lette le nostre riflessioni.
    Motivo continuamente emergente ne “I canti”, nelle “Operette morali”, nello “Zibaldone”, ne “I pensieri” . è quello del dolore, sofferto e vissuto come angoscia e “noia” esistenziale. Però Leopardi non si limita a constatare il “fatto”; si domanda perché gli uomini soffrono e se questa sofferenza abbia un significato. Il “fatto” diventa perciò “problema”.
    Nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” , ad esempio, la vita è sì paragonata ad una inutile e dolorante marcia di un “vecchierel”, “lacero, sanguinoso”, “per montagna e valle”, “per sassi acuti”, “al vento, alla tempesta”, che si risolve nello “abisso orrido, immenso”, ma questa categorica e spietata conclusione ha nello svolgimento della poesia diverse incrinature, diversi interrogativi che tentano di illuminare il tragico finale, di arrestarlo, di renderlo in qualche modo comprensibile; la speranza nella positività della vita non è tutta morta, soffocata. Si nota lo sforzo supremo del cuore di razionalizzare l’irrazionabile: il dolore.
    Il pastore continua a vivere con questa segreta speranza: “Tu, (luna) forse, intendi, / questo vivere terreno,/ il patir nostro, il sospirar, che sia”.
    All’interno di una cultura e di una società, segnate profondamente dall’ideologia illuminista, ottimisticamente pretenziosa di chiarire e risolvere con la sola ragione il complesso mistero dell’uomo e dell’universo, Leopardi si colloca interlocutoriamente con il più umano e tragico problema: quello del dolore; e quell’altro, più complessivo, del “senso” della presenza dell’uomo nello spazio sconfinato dell’universo.
    Le risposte che riceve dalla filosofia illuministica non esauriscono le sue tormentate inquietudini. L’uomo è sì grandezza di pensiero che sovrasta “l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi” e trova “ che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio (Pensieri, LVIII), ma anche, e soprattutto, è miseria di dolore, “être soufrent” per natura (Zibaldone, VII, 57, I), essere-per-la-morte (Cantico del gallo silvestre), presenza inutile e di-troppo nel mondo (Dialogo della Natura e di un Islandese).
    Ma c’è di peggio, la vita è una cosa di cui nessuno si prende cura al di fuori dell’individuo a cui appartiene ed è subordinata a finalità che si riferiscono esclusivamente all’ordine e alla sopravvivenza del cosmo (Dialogo della Natura e di un Islandese). Per questo la vita diventa un peso insopportabile e la morte una meta desiderata. Non c’è infatti una ragione sufficiente che inveri ontologicamente l’agire sofferto dell’uomo.
    Ma il Poeta non si rassegnò mai a questa amara conclusione e tentò diverse vie per risolvere e lenire il problema. Si rivolse alle “illusioni”, ma esse non ressero all’urto demistificante della ragione; si rivolse ad uno dei tanti miti offerti dall’illuminismo, quello della felicità del “primitivo”, collocato in un paradiso terrestre deteologizzato. Ma ne scoprì la qualità piuttosto fantastica che razionale e modificò il suo sistema in forma ancor più cruda e rigorosa: la Natura non è Madre benigna e premurosa della felicità delle sue creature, ma “per necessità della legge di distruzione e riproduzione… è essenzialmente, regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gli individui” (Zibaldone).
    Svanita quella illuministica, il Leopardi chiede allora una risposta non più alla Natura e alla Ragione, ma alla Storia: interroga la soluzione romantica dell’uomo che si rivolge al passato, lo scruta, lo vive, lo esalta come quello in cui ha plasmato se stesso dentro le forze vive delle tradizioni. Per un momento cede all’incanto delle antiche glorie dell’umanità e della patria; ben presto vede l’inconsistenza del tentativo di risolvere il problema dell’uomo all’interno del processo storico. Ma rifiutare la storia e il suo processo storico come ciò che spiega l’uomo, l’appaga, lo salva, è rifiutare lo storicismo.
    Il Leopardi opera da questo punto di vista la rottura con la Storia assolutizzata, con l’Umanesimo assoluto come aveva fatto per la Ragione assoluta e la bontà assoluta della Natura.
    Questa maturità di pensiero critico che in certi momenti lo avvicina, ma fondamentalmente lo distanzia dalla problematica e sensibilità delle correnti culturali del suo tempo, è anche la sua originalità poetica, la quale fa sì che egli sia veramente il poeta emblematico del dolore e della condizione tragica dell’uomo.
    Se nessuma spiegazione illuministica o romantica è valida, e nessuno può spiegare l’arcano dell’umano dolore, il mistero diventa la più pesante eredità. Da qui la domanda sempre più incalzante e disperata: se il dolore è inspiegabile, se della vita umana nessuno si cura e non dobbiamo renderne conto “ a che vale” la vita a ciascuno di noi?. (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia).
    Alla tragica domanda del pastore, per Leopardi non si prospetta nessuna soluzione accettabile. Il mistero del dolore è l’essenza della storia dell’umanità. Il pessimismo si estende al tempo tutto, all’universo nella sua totalità, si fa cosmico,. Di fronte ad esso c’è solo l’assoluto negativo della morte, la sola speranza superstite di chi ha perduto ogni speranza (Cantico del gallo silvestre).
    Poeticamente il momento della liricità del mistero prende la forma del momento della liricità della morte, e la poesia leopardiana raggiunge una profondità ed un respiro metafisico che denunzia nell’”ateo” Leopardi un’anima profondamente “religiosa”, che sa cogliere il non-senso del destino dell’uomo, una volta che l’esistenza è depauperata dal suo senso religioso. La mano di Silvia – giovinezza e speranza – mostra di lontano, con un gesto senza parola e senza silenzio, la “fredda morte e la tomba ignuda” come termine desolato della vita; oppure di tutti “i teneri sensi” e dei “tristi e cari moti del cor” resta compagna la “rimembranza acerba”, senz’altra speranza che il rimpianto consolato dal nulla della morte che “ogni dolor risana”.
    Questo è il “dono” fatto al genere umano, questo il “segno” posto dagli dei: “l’esser delle cose ha per suo proprio ed unico obietto il morire”; “dell’universo intero, dei grandissimi regni ed imperi umani e loro meravigliosi moti” non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima riempiranno lo spazio immenso” (Cantico del gallo silvestre).
    È la denuncia della vanità dello storicismo romantico e del razionalismo illuministico. Se tutto è solo Storia e Natura, questo tutto è Nulla, è vuoto immenso. Ma questa non è una spiegazione della vita, bensì una capitolazione. Lo stesso Leopardi se ne accorge e lo denunzia sul finale dell’operetta “Cantico del gallo silvestre”, quando dice: “Questo arcano, insanabile e spaventoso dell’esistenza universale”..
    È la scoperta del vuoto del cuore umano, incolmabile dall’universo intero, perché fatto per l’Infinito.
    Bellissime sono a questo proposito le sue pagine sulla “noia” . “La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che, dall’esame di tale sentimento nascono quelle conseguenze che molti filosofi (l’allusione ad Agostino e Pascal è evidente) hanno stimato di raccorre, ma nondimeno il non poter esser soddisfatto da alcuna cosa terrena, né per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancor più grande che si fatto universo; e sempre accusare le cose di insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però, noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo e nulla agli altri animali”. (Pensieri, LXVIII.). Essa indica l’eterna insoddisfazione dell’uomo e ne rivela la dignità, la sua apertura all’infinito.
    Eppure Leopardi resta fermo alla contraddizione, al di qua della soluzione “religiosa”.
    Il problema rimase per tutta la sua vita come una angosciosa domanda , cui è parziale ed insufficiente risposta il sentimento della solidarietà e della fraternità umana contro la “inimica” Natura. (La ginestra)..
    Pessimismo radicale, nullismo metafisico, ma per la sua contraddittorietà, per il fatto che conclude un iter che si svolge come critica ridicolizzazione e repulsa di tutte le soluzioni atee mediocri, banali, può considerarsi una apologetica alla rovescia dell’Essere.
    L’ateismo del Leopardi è inappagato e triste che non si chiude in una formula dogmatica di rifiuto, ma criticamente denunzia la disperazione dell’uomo senza speranza.
    A questo punto è necessario fare alcuni rilievi per sfatare facili e superficiali interpretazione dell’opera leopardiana, che possono ridurla ad una lucida e stilisticamente perfetta versificazione di un forte e drammatico pensiero , priva però di quella commozione, e di quell’anima che la trasferiscano sul piano dell’ispirazione e della vera poesia. Le conclusioni della sua lunga meditazione, osserva M. Fubini, entrano nella poesia del Leopardi più per le risonanze sentimentali che esse suscitano in lui, che nella loro purezza concettuale…L’abito del pensiero non ha trasformato Leopardi in un poeta del pensiero; dalla lunga meditazione, la sua sensibilità è stata fatta più pura e più vasta, ha acquistato quella superiora pacatezza che dà al dolore leopardiano il suo tono caratteristico ed inconfondibile; l’aspirazione a rendere nei suoi versi quanto ha di più schietto e di immediato la voce del cuore…La sua lirica non narra, non descrive: è l’effusione di un cuore che vince l’abituale aridità e lo strazio di una tragedia e si abbandona… a suggerire l’ineffabile tumulto interiore…, l’infinita e indefinibile vita del sentimento”.
    E altrove il critico prosegue: “Il canto non è un organismo architettonico in sé intellettualisticamente chiuso e compiuto; ma viene a comporsi a poco a poco, così come ad uno ad uno si fanno avvertire nell’animo i diversi affetti, come non chiamati da una volontà intelligente si susseguono i ricordi: entrano nella poesia le improvvide sorprese, i richiami del mondo esteriore… il subito irrompere degli affetti, le pause in cui si placa e si fa più profondo e senza voce il tumulto dell’anima; i limiti e la divisione della poesia vengono a coincidere con la vita del sentimento, e la poesia lascia in tal modo supporre al suo inizio e al sua termine una zona di silenzio…In essa si rende sensibile il “tempo dell’anima”, segnato appunto dal succedersi dei sentimenti, dagli accenti e dalle pause della vita sentimentale”.
    I periodi nudi e disadorni vibrano di una intensa ed ineffabile commozione; le singole immagini e le singole parole generano infinite risonanze che si dilatano come cerchi concentrici, verso orizzonti più vasti, l’uno nascente dall’altro, non per opera del pensiero logico, ma per il moto del sentimento.
    Altra osservazione che è necessaria fare per comprendere la “tonalità” del pensiero poetico leopardiano, ci viene suggerita con acutezza e sensibilità di scrittore, da Bacchelli: Leopardi è sì poeta del dolor universale e della vita disperatamente intesa come premessa illusoria e desiderio irrealizzabile di felicità, ma al “contrario, egli esprime nella sua poesia e nel suo dolore e nella sua disperazione stessa, l’amore di cui è pieno e caldo il suo cuore pr la vita… e per tutto quanto la fa degna di esser vissuta, amata, e se occorra, sacrificata: la virtù, la prodezza, i nobili intenti dello spirito, ogni generoso affetto intellettuale e morale, l’operoso ed impavido amore del bello, del giusto, del nobile, e di quel vero stesso che,per lui, distrugge ogni felicità”.
    Per queste virtù e per questi affetti “palpitò di amore entusiastico e fermentassimo, e anche dove sembra che egli vi irrida sarcastico, l’irrisione proviene da amore, vuoi per lo sdegno di scorgerlo mentito…, vuoi per la disperazione di sentirlo dato agli uomini, dal destino e dalla natura, troppo più grande e sublime ed eterno… di quanto destino e natura non concedano all’uomo di appagarlo e d’avverarlo in terra”.
    Questo suo amore disincantato per la vita è, d’altra parte, le amare verità alle quali approda, anche se mai definitivamente, l’indagine del suo pensiero, creano nell’uomo Leopardi una eterna e commovente dialettica che si manifesta non soltanto negli idilli, come fa osservare W. Binni, ma un po’ in tutte le sue composizioni, con accenti tendenzialmente “eroici”.
    Il poeta non si presenta come un vinto, un rassegnato di fronte al destino, ma come Prometeo che, in piena consapevolezza lotta per l’affermazione di sé, con una energia perentoria, legata alla vicenda esaltante e disperata della passione vissuta e consumata in un nuovo scacco pratico, ma non senza una tenace rivalsa interiore. Si distanzia da una pura e semplice disposizione “idilliaca” e si presenta come in un più frontale e diretto scontro con il “presente”.
    Proprio dal piano di questa vera e presente passione di vita, e da tutta la nuova disposizione dell’uomo a vivere intensamente e vigorosamente nel presente, a esercitare tutte le proprie forze di eroica tensione sentimentale, intellettuale e morale in una virile concentrazione della propria esperienza…esplode una nuova poetica, una nuova direzione ispirata e consapevole della poesia…che lo porterà fino a “La Ginestra”, rivelando in diverse tematiche…la forza della sua matura personalità, sdegnosa ormai di ogni rifugio nel passato, e nell’astensione e nel disimpegno morale e poetico” (W. Binni).
    La poesia leopardiana per questa sua “parola” inquieta e inquietante, coinvolgente tutti i massimi problemi della vita umana, per questo accettare su di sé, senza rassegnazione, il peso del dolore e dello sconforto di tutti gli uomini, per questo calarsi con l’acutezza tipica dell’intuizione poetica, nel mistero dell’uomo e dell’universo, per questa passione di voler approdare alla radice dell’essere e del divenire, può essere definita appropriatamente, con un’espressione del Getto, come “poesia dell’Assoluto”.
    ÈE’ una poesia che fa sentire tutto il suo fascino tutte le volte che compare l’uomo assorto davanti a quello che lo trascende, sia lo spazio o il tempo, sia il destino o la morte, il tedio o il dolore, la gioia e l’amore; tutte le volte che il poeta si trova ad affermare o negare con persuasione totale. In questi momenti si diffonde nella pagina come un’aura religiosa, il senso di una religione in cui seppur Dio è assente, restano intensamente operanti i suoi attributi, l’infinito e l’eterno; e se il contegno di Leopardi si mantiene lontano da qualsiasi certezza e da qualsiasi impegno nei confronti di qualsiasi positiva religione, essa tuttavia partecipa di quella commozione propria delle grandi esperienze mistiche, asurgendo a un sentimento solenne, in cui freme la coscienza del “numinoso”, il fascino e l’orrore del mistero tremendo dell’esistenza e, più raramente, il rapito incanto di fronte alla sua bellezza”.
    Per tutto quello fin qui detto, anche se non ampiamente approfondito, ci pare a sufficienza dimostrata quella aggettivazione, posta all’inizio di queste nostre pagine, con la quale definivamo Leopardi, poeta “contemporaneo” ed “emblematico”. Così per l’uomo di sempre, ma soprattutto per l’uomo moderno, smarrito all’interno di una crisi generale di valori, di idealità, di comportamenti, curvo ad interrogarsi sul senso della sua vita individuale e collettiva, murato dentro il breve orizzonte della sua disperata esperienza esistenziale e sociale, ma desideroso di uscirne fuori verso soluzioni più adeguate alla grandezza della sua umanità.
    Più ancora forse, per le giovani generazioni, scettiche di fronte alle risposte della tradizione e dei loro padri, Leopardi, con il suo tormento di chiarire il mistero e con l’inquietudine di vedere sprofondare tutta la vita nell’abisso orrido del nulla e dell’assurdo, può diventare con la sua particolare poesia, l’annunciatore di un logos, provocatore di una maggiore consapevolezza di sé e degli altri, di un “verbo” profetico che sbarazzi via ogni facile compromesso ed ogni supina acquiescenza di fronte al mistero e all’enigma della vita e della morte.


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